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Racconti storici

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Il segreto di villa concamarise

La vecchia serva Erminia era l'unica a conoscere il segreto di Villa Concamarise.
Erminia era una donna piccola, vecchia e curva. Si occupava di mansioni secondarie nella villa: in inverno badava che il fuoco non si spegnesse nel grande camino con la cappa sostenuta da due grifoni di tufo. In estate provvedeva a cercare erbe officinali nel grande parco, da usare per i decotti e gli impacchi.
La villa era grande e servi e serve giovani si occupavano dei lavori pesanti. Preparavano i cibi nella grande cucina che aveva la parete occupata da pentole in rame. Accudivano i cavalli nelle scuderie, gli animali nella stalla; in estate falciavano le messi, in autunno facevano la vendemmia. Inoltre nelle dependance c'erano falegnami per aggiustare carri e botti; fabbri per la manutenzione di portoni, serrature e per forgiare alabarde e spade; maniscalchi per ferrare i cavalli. E poi ancora tessitori, lavandaie, cameriere...
Erminia non aveva la forza per dedicarsi a queste attività. I suoi compiti erano di secondaria importanza, con una eccezione.
Due volte al giorno, la vecchia saliva il grande scalone col soffitto affrescato per arrivare al piano superiore. Da lì seguiva una scala di servizio per arrivare ai granai. Attraverso alcune stanze oscure stipate di ferraglia e oggetti in disuso, arrivava a una scaletta di legno con in fondo una porticina chiusa che immetteva nella torre Est. Questa era una cameretta con il pavimento di mattoni e finestre a bifora su due pareti. In quel posto era custodito il segreto della villa e questo segreto si chiamava Isabella.
Proprio così. Una fanciulla bella e bionda viveva rinchiusa lassù dove trascorreva le lunghe giornate da sola, senza nessuna compagnia. Fra la servitù, solamente la vecchia sapeva della sua esistenza e aveva ricevuto dal Conte Ottavio, il compito di accudirla. Portava gli avanzi dei cibi dalla cucina, peraltro abbondanti, cambiava l'acqua nel secchio di rame, portava dabbasso e svuotava i recipienti sporchi.

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   0 commenti     di: sergio bissoli


Miniere pericolose ( Parte 1 )

Un raggio di Sole fece ingresso nella stanza, illuminando la faccia di Gavino. Era la sua sveglia quotidiana, che gli intimava ad alzarsi, per dirigersi al lavoro. Senza far rumore, si alzò dal letto e si vestì di quei pochi stracci che possedeva per affrontare la giornata. Sentiva girare la testa, ma molto probabilmente era il risveglio che gli faceva assumere questa prospettiva.
Scendendo le scale, osservò quelle poche foto che ritraevano la sua famiglia, solare e sorridente, di fronte a quella casa che oggi è la sua abitazione ed a quell'albero di olivo vicino ad essa. Si intravedeva molta vegetazione, e la casa era situata su di una collina, ove si ammirava tutto il panorama. Le scale erano in pietra grezza, i suoi passi giocavano echi rumorosi alle sue spalle. Giungendo all'ultimo gradino di quelle che parevano interminabili scale, si affacciò nella sala, fissando l'orologio per un attimo.
Le 6:05 di una mattinata che si preannunciava faticosa, forse più delle altre. Anche qui, qualche spiraglio di luce riusciva a fendere l'atmosfera circostante. Mugollii, tremiti, le gambe gli erano diventate pesanti, spiombando su una sedia, di fronte al tavolo della cucina. Caterina, sua moglie, gli aveva preparato delle cose da poter mangiare la mattina dopo.<<Papà! Papà! Guarda!>> Lucia era comparsa al posto accanto a lui, teneva un giocattolino di legno, con disegnato un cavallo, lo armeggiava per aria, quasi volasse. Il suo sorriso era smalliante, i suoi capelli sistemati alla rinfusa. Girò la faccia, vedendo anche Tore, il più piccolo, unico maschio. Prese il cavallo a Lucia di nascosto, ed ora ci giocava facendole dispetti. <<Tanto non lo prendi! Vieni sù!>> Lucia alzandosi si dimenava contro il fratello, ma, avendo la stessa forza, non ne cavava piedi.
<<Su smettetela.. sveglierete>> sbattendo un'altra volta quelle palpebre così pesanti, Gavino si accorse che quelle erano solo figure della sua mente, un'immagine, un sogno della stanchezza, o for

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Idi

Quando entrai i Senatori erano già pronti.
Sotto le toghe le dita fremevano d'impazienza, stringendo l'elsa dei pugnali.
Ma io non capii
Non vidi i loro ghigni, simili ai musi di bestie brute.
Forse fu la superbia ad accecarmi, oppure la stessa Ate greca che toccò gli eroi di Ilio.
Mi credevo immortale, un Dio!
Ero una creatura celeste che si librava in volo, sopra le teste della plebaglia puzzolente.
Ero un conquistatore, un generale, un dittatore!
Ero Gaio Giulio Cesare.
Ma la mia invulnerabilità permise a quelle ventitre pugnalate di squarciarmi il petto
Neri, rossi, infuocati dalla bramosia di sangue e dall'odio erano gli occhi dei senatori.
Inebriati dal purpureo sangue.
Mi guardavano come le fiere guardano una preda.
Ma io ero Cesare!
Avevo conquistato le Gallie; ero sopravvissuto alle lunghe lame dei Germani.
Non potevo morire là, come un maiale da macello, accanto a Pompeo di pietra.
Mai un Giulio sarebbe potuto morire accanto a un codardo dei Pompei, mai!
Mi difesi e quei vigliacchi indietreggiavano.
Ancora una volta il grande generale riportava una vittoria a Roma!
Vidi gli occhi di Cassio brillare di paura e la mano di Casca tremare timorosa.
Scoppiai a ridere.
Quei "bambini" non potevano nulla contro di me!
Contro il grande Cesare

Poi lo vidi.
Lo vidi e veniva verso di me.
La mano alzata con la daga stretta in pugno.
I suoi occhi, uguali a quelli della madre, come arenaria mi scrutavano impassibili.
Scivolavano sulle mie ferite, indugiavano sulla toga macchiata.
Tesi le braccia.
Ma lui non si buttò nel mio abbraccio.
Non era più un bambino
Il mio bambino
La lama mi penetrò le carni, lacerò il tessuto.
Non gemetti.
Non piansi.
Lo guardai.
Il grande Cesare stava morendo
E la lama che mi aveva ferito era stata impugnata dalla stessa mano che prima aveva accarezzato le mie guance
-Anche tu, Bruto?-
La risposta arrivò, un'ultima pugnalata al petto.
Il grande Cesare era morto

E quel giorno, Bruto, mo

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   1 commenti     di: Giulia Brugnoli


Amos e Mario. Italia anno di guerra 1943- prima parte

Era gennaio del 1943, Mario Melvino non aveva ancora diciotto anni. Operaio sin dall'età di sedici, presso la fabbrica detta Lavorazioni Leghe Leggere situata in area industriale del capoluogo veneto, impegnata in produzione bellica per l'aereonautica, con turni lavorativi di dodici ore continue. Per Mario, operaio munito di licenza di quinta elementare - chè in casa non avevano potuto mantenerlo agli studi, essendo egli il quarto maschio di dieci figli- avido di leggere e di conoscere, la sua scuola di vita e di politica erano gli operai più vecchi di lui, i quali, nei rari momenti del pasto o di cambio del turno, parlavano sommessamente di guerra che andava male, di figli al fronte, di fame e sofferenze. A far la sua si aggiungeva il freddo intenso della stagione, che ghiacciava le campagne, i canali, i corpi. All'interno dello stabilimento il frastuono delle gigantesche presse per l'alluminio era insopportabile per ore e ore.
Mentre Mario mangiava, durante la breve sosta per il pasto, con la sua solita fame giovanile, la poca pastasciutta compattata nel pentolino di alluminio, nel cuore della notte, egli ascoltava questi discorsi che, badate bene, non si potevano fare a voce alta, ma sussurrata e sol tra pochissime persone fidate. Gente che avevi osservato a lungo prima, nel piazzale della fabbrica, al momento dell'uscita, altrimenti se t'accorgevi di domande insidiose o pericolose, si doveva tirare via, far finta di non aver sentito. Venir arrestati o prelevati da casa, di notte, dai fascisti , era un nonnulla. Si finiva al comando davanti alle Camicie Nere, il cui trattamento in pochi erano, poi, in grado di raccontare fuori le mura dello squallido palazzo ch'erano i loro uffici.
Mario Melvino era un bel ragazzo, alto, forse un po' troppo magro ( e chi non lo era, in quegli anni ?) ma con un viso sagace e maturo. Due occhi cerulei, un po' a fessura, distanziati da un naso importan

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Uomini-bestie

Le bestie arrivarono solo a cento chilometri da Roma, nell'ultima guerra, a fare razzia, quella più vigliacca.
"La Ciociara" è un film che ha vinto l'Oscar e si sappia che vi è narrata un'assoluta verità. Moravia aveva vissuto per un certo periodo fra le montagne azzurre della mia terra cercando ricovero dalle bombe cittadine. Così aveva fatto Cesira, la protagonista del suo romanzo e del film.
Ma la guerra non è solo di altri e può raggiungerti ovunque.
Non c'è luogo dove il male non possa arrivare.
Quando il film uscì nelle sale fu vietato ai minori e ho potuto vederlo solo qualche anno dopo. Venne vietato per l'immagine di una donna che girava fra le macerie tenendosi fra le mani un seno nudo e impazzita dal dolore gridava : " a chi darò il mio latte ora?" ma anche chiaramente, per la scena di stupro di gruppo.
Ho letto il libro, ho visto il film tante volte ma mai quella scena: non ci riesco.
Da bambina sentivo parlare a mezza voce dei "marocchini" passati durante la battaglia nel mio paesino come in altri vicini (non so perché dicessero battaglia e mai guerra...). Ero già sposata ed un giorno mamma e nonna cominciarono a ricordare per caso quei fatti accaduti, nei dettagli, con i nomi, i luoghi; pareva sussurrassero per pudore e rispetto e piansi con loro.
Avevano martoriato ragazzine, donne, anche qualcuna incinta, uomini e ragazzini, perfino il parroco del paese venne legato ad un albero perché con altri uomini dovevano assistere a quei misfatti.
Tutte e tutti si ammalarono di malattie veneree e di quegli uomini sporchi con l'orecchino al naso non ne vollero parlare più, nemmeno quando lo Stato, dopo molti anni, riconobbe loro il diritto ad una pensione.
Non ci sono risarcimenti che possano togliere di dosso le unghie di un branco affamato che ti violavano, che possano ridarti il corpo pulito da donare al tuo amore e togliere la paura di tutte le notti a venire.
Per alcune il tarlo lavorò solerte fin nella testa.
Una sorella di mio n

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   7 commenti     di: Chira


La guerra all'Argentiera: Primo bombardamento 1/9

Il mio racconto comincia qui, in questo paesino di mare chiamato Argentiera, questo mio racconto vi narrerà della povertà, della miseria, della fame, della seconda guerra mondiale, in Nord-Sardegna.
Paure, sorrisi, ricchezze, famiglie, bombe, giochi. Da qui, si susseguono nove storie, tutte vere, testimonianze e ricordi, che la gente non ha dimenticato, ma che conserva tutt' ora.

- L'Argentiera, così chiamata per la miniera di argento che è all'interno del paese, è un piccolo paese, in provincia di Sassari, che si affaccia su uno splendido e cristallino mare. La ricchezza del luogo è la miniera, dove le persone lavorano talmente tanto, per pochi soldi e per riuscire ad estrarre il prezioso minerale.
Il paese cresce per le creste delle montagne verdeggianti della Nurra, ed ha come cornice una fantastica vegetazione della macchia mediterranea. Vi è, inoltre, una sola strada, che acceda al paese, ed una secondaria, che porta al pozzo della miniera, e finisce li. Tutto il resto, solo sentieri e terra brulla.
Anche qui, è arrivata la guerra. Aerei, sottomarini, bombardamenti, si, anche quelli.
La guerra travolse questo paese isolato pochi anni dopo il 1940, esclusivamente per le ricchezze, e per la vicinanza ad Alghero ( che a quell'epoca risultava una località strategica, perché possedeva sia porto, che aeroporto. )
Vi racconterò delle vicende di una famiglia, la famiglia Muroni, che vive in una casa sopra la collina, vicino al centro abitato, dove si gode una perfetta visuale dei dintorni. È formata da sette componenti, Gavino e Caterina, i capofamiglia, Antonietta, Maria, Fanni, Lucia ( la protagonista ), le figlie, e Tore, il figlio maschio.
In questi tempi, la famiglia di Lucia, dovrà affrontare fame, miseria, povertà e paura. Si, paura, perché da un momento all'altro potrebbero sbarcare nemici, magari i francesi potrebbero sganciargli bombe, anche altro, forse.

- È sera, il Sole volge al suo termine, e si spengono tutte le candele, per

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   7 commenti     di: Giuseppe Tiloca


Monte San Saverio

Il Sottotenente Gregorio De Mattia, quel mattino si svegliò nella sua tenda da campo incredibilmente riposato e disteso.
Egli stesso ne fu sorpreso dato che quando si era coricato la sera prima, stanchissimo, la sua mente era colma di pensieri cupi, dolorosi e ancorché fumosi.
Pensieri che tornarono ben presto al posto che avevano lasciato, ma apparivano più chiari e forse più angoscianti.
La sua prima considerazione fu comunque: - Assurdo svegliarsi così bene il giorno della propria morte…-

Questa era in sintesi l’origine della sua angoscia della giornata precedente. L’indomani sarebbe stato quasi certamente l’ultimo giorno della sua giovane vita.
Quel giorno era stato di quelli che non si possono dimenticare, e non ne aveva avuti altri di simili dall’inizio della guerra, e forse nella sua esistenza.
Le atrocità che ogni giorno si perpetravano in quella orribile guerra, di cui aveva viva testimonianza attraverso i bollettini giornalieri e che si raccontavano fra le truppe al fronte e nelle retrovie, le tremende sconfitte e le sanguinose battaglie piccole e grandi combattute quotidianamente da mesi e mesi, avevano inspiegabilmente risparmiato Gregorio De Mattia e i suoi uomini. Ma questa situazione di immeritato privilegio stava inesorabilmente per finire.

Si lavò e si fece la barba accuratamente come se dovesse recarsi ad un importane appuntamento e indossò la divisa con una strana solennità.
Era una giornata tersa come la precedente e più tardi avrebbe fatto quasi caldo. Era un aprile veramente mite, almeno a dar retta a quanto dicevano i suoi uomini di quelle parti che avevano, al contrario di lui, esperienza di vita di montagna.
Per lui il Monte San Saverio, la cima Vergola, l’altopiano del Luc, i pratoni di S. Biagio non significavano assolutamente nulla fino a quando erano entrati a far parte del suo panorama abituale delle ultime settimane apprestandosi a diventare purtroppo teatro della sua morte.

Oltre a lui,

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   1 commenti     di: Manfred Antoine



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