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Racconti storici

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Antorcha hija del diablo y el inquisidor cap 5

Cap 5 ultima ora


L’indomani fu l’inizio della fine, alle prime luci dell’alba, scortato da uno squadrone di lancieri, il Cardinale Principe della Chiesa, Primo Inquisitore di Spagna, senza neanche darmi tempo di parlare, schiaffeggiandomi pubblicamente col guanto di pelle nera, suo simbolo personale, mi destituì da ogni incarico, mi retrocesse all’istante, brandendo una Bolla Papale ove era scritto che io Aloisio de la Cruz avevo indegnamente servito etc etc e venivo pertanto condannato alla clausura nel convento di Chateau de Rennes ad libitum.
Prese, immediatamente le redini di tutti i procedimenti in atto, e, neanche a dirlo, tempo una settimana condannò al rogo oltre cento fra vecchie, giovani e addirittura bambini, fra il giubilare della folla accorsa, finalmente soddisfatta nel suo istinto criminale, contenta a tal punto di applaudire le urla strazianti dei condannati alle fiamme!
Ovviamente Antorcha, dopo giorni di torture e sevizie inimmaginabili, nonostante le quali non profferì una sola parola, fu fra le prime a subire l’onta del giudizio capitale, rifiutando con deciso orgoglio il pentimento finale, rifiutando il conforto dei sacramenti e sorridendo, mi fu detto, attese che le fiamme la straziassero.
Io sono qui, con l’obbligo del silenzio imperituro, la mia giornata è divisa fra la celletta per il giorno e la biblioteca per la notte, la mia condanna mi impedisce non solo di parlare ma anche di vedere chicchessia, quindi il Priore ha disposto che io lavori in biblioteca, quando questa è chiusa per gli altri monaci.
All’inizio mi sembrava una condanna crudele, poi, l’ho considerata addirittura una fortuna, di giorno, dormo, di notte, accudisco la biblioteca, eseguo gli ordini che mi vengono vergati sulla lavagna, penso, sogno ad occhi aperti, scrivo le mie memorie e le nascondo in un incavo dell’architrave della sala grande; ma soprattutto non passa giorno, o meglio notte che non rivedo con gli occhi, con il cuore, con il se

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   2 commenti     di: luigi deluca


I grandi Santi che hanno fatto la storia: Santa Maria Goretti

Il 6 luglio 1902 nel tentativo di sottrarsi ad una violenza sessuale, Maria Goretti subisce con un punteruolo 14 ferite e dopo una lenta agonia di 24 ore, muore alla prematura età di 11 anni, 8 mesi e 21 giorni presso l'ospedale di Orsenico di Nettuno. Il 24 giugno del 1950 Papa Pio XII la canonizza, perché: " con una forte e generosa volontà, sacrificò la sua vita pur di non perdere la gloria della verginità".
Ma cosa ha di tanto speciale la Goretti rispetto alle tante donne che oggi vengono violentate o soppresse? Anche per loro, perché non si parla di santità, ma solo di martirio?
La santità di Maria Goretti si concretizza non soltanto negli ultimi istanti della sua breve vita con l'immediato quanto clamoroso perdono offerto al suo assassino, ma nasce e si sviluppa nella quotidianità e all'interno della sua famiglia.
All'età di 10 anni, Maria perde il padre stroncato dalla malaria e nonostante la propria sofferenza, consola la madre dicendole: "Mamma, non ti preoccupare... io prenderò il tuo posto in casa". È grazie alla generosità dell'adolescente che la madre può sostenere la famiglia con il lavoro nei campi, prendendo il posto del defunto Luigi Goretti.
Del padre Maria assimila il senso della Provvidenza che si manifesta anche nelle più grandi difficoltà, mentre dalla madre la fanciulla impara il primo rudimentale catechismo, ma è da entrambi che Maria apprende l'umiltà e il rispetto per il lavoro.
Con naturalezza l'adolescente si occupa della colazione, dell'approvvigionamento dell'acqua al pozzo, della cura dell'orto e del pollaio, della pulizia delle stanze, della cucina, del rammendo degli indumenti e della cura dei fratellini : Angelo, Mariano, Alessandro, Ersilia e Teresa. E sul finire della giornata Maria recita le preghiere che però spesso non completa per la stanchezza.
Nonostante l'impegno e la premura profusi, la piccola Maria riceve i rimproveri della madre, in qualche occasione riceve schiaffi e calci e una tan

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   4 commenti     di: Fabio Mancini


La liberazione della regina di Gerusalemme

Erano da poco calate le tenebre, quella notte, quando dal castello prospiciente il Monte del tempio, furono udite forti grida che squarciarono il cielo sopra la colonna cavalcante di sette templari di ritorno dalla perlustrazione della valle a ridosso di Gerusalemme. Tutti i cavalieri si fermarono all'unisono e il primo di essi, tale Goffredo, alzò la mano indicando il maniero donde provenivano le grida. Armati di coraggio, e della propria spada, si mossero verso il pendio, attraverso un sentiero costeggiato da alberi di ulivo, che davano ampio riparo da eventuali occhi nemici.
Giunti a ridosso del fossato, sguainando le spade si mossero circospetti verso un lucernaio a destra del portone accanto alla torre sud. Altre forte grida, proveniente proprio dalla torre sud, gelarono i due cavalieri più vicini. Questi, lanciando le funi, si apprestavano a salire di soppiatto fino alla sommità della torre, con l'intenzione di sorprendere le sentinelle di vedetta.
Una di queste, si accorse di quanto stava accadendo, e mentre sciabolava la propria spada con l'intenzione di tranciare la fune, venne fulminato da un violento colpo al capo, procuratogli dal secondo cavaliere che a distanza di pochi metri dal primo, lestamente era riuscito a salire sulle mura merlate che congiungevano le torri. I due templari, di nuovo uniti, si mossero carponi verso l'entrata superiore della torre dove si intravedeva una ripida scalinata.
Un'assonnata sentinella presidiava l'accesso, ma un colpo al capo, ne assicurò rapidamente un sonno profondo. Non c'erano più ostacoli, oramai, dieci gradini scesi in un baleno e i due eroi si trovarono innanzi ad una nobildonna con le mani legate a due pesanti catene di ferro ancorate al muro in pietra. Due fragorose scintille, seguirono ad altrettanti due colpi di spada ben assestati e le catene spezzate caddero a terra. Il più robusto dei due cavalieri caricò il debole corpo della nobildonna sulle spalle, mentre l'altro circospetto e la spada in pu

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   2 commenti     di: Fuvell Altego


Soldato nella nebbia

Sera fredda e nebbiosa a Melegnano, non so cosa mi porta a camminare per la città con questo tempo e a quest'ora, forse il piacere di gustarmi le vie cittadine quando nessuno è in vista, guardare incuriosito i giochi d'ombra che si creano in anfratti debolmente illuminati con la nebbia a fare da principale comprimaria.
E così cammino riempiendomi gli occhi di immagini curiose ed irreali, facendo lavorare la fantasia immaginandomi situazioni suggestive come le solitarie vie che percorro ; sono in giro a curiosare e pensare, e, con poco, passo bei momenti sotto la magica nebbia o, quando a tratti questa si apre, sotto un fascio argenteo di luce lunare, eh si! Perché stanotte c'è anche la luna piena che impera sopra la coltre, soffice e immateriale, che incombe sulla città.
Mi ritrovo a passeggiare verso il castello, l'illuminazione fioca sotto la nebbia da dell'edificio un'immagine a tratti tremolante, da farlo sembrare un miraggio notturno, in certi momenti però riemerge nitido ed imponente a ricordarti che è lì da secoli e, quasi a schernire la tua piccola parentesi in questo mondo, lì rimarrà per tanto altro tempo ; non posso fare a meno di ammirarlo.
Nel fossato c'è una piccola luce bianca, hanno messo un altro riflettore? ! No! La piccola luce si muove, qualcuno con una torcia passeggia nel fossato e siccome sono tremendamente curioso, con un piccolo sforzo scendo e mi avvio verso questo signore che riesco appena a distinguere attraverso la nebbia che si fa piu fitta.
Ecco gli sono al fianco, lui mi ha notato da un po' dato che ha fatto piu cenni di saluto, ora che gli sono vicino mi sorride trasmettendomi una sensazione di tranquillità. Non ha torcia, ma è la sua intera figura ad emettere una chiara luminosità, è vestito da militare : tunica scura, credo blu, con cinturone e fibbia argentea, calzoni rossi, ghette bianche sopra gli scarponi e kepì rosso ; porta anche dei gradi sulle maniche che m'incuriosiscono attirando il mio sguardo in mod

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   1 commenti     di: Saverio


Uomini-bestie

Le bestie arrivarono solo a cento chilometri da Roma, nell'ultima guerra, a fare razzia, quella più vigliacca.
"La Ciociara" è un film che ha vinto l'Oscar e si sappia che vi è narrata un'assoluta verità. Moravia aveva vissuto per un certo periodo fra le montagne azzurre della mia terra cercando ricovero dalle bombe cittadine. Così aveva fatto Cesira, la protagonista del suo romanzo e del film.
Ma la guerra non è solo di altri e può raggiungerti ovunque.
Non c'è luogo dove il male non possa arrivare.
Quando il film uscì nelle sale fu vietato ai minori e ho potuto vederlo solo qualche anno dopo. Venne vietato per l'immagine di una donna che girava fra le macerie tenendosi fra le mani un seno nudo e impazzita dal dolore gridava : " a chi darò il mio latte ora?" ma anche chiaramente, per la scena di stupro di gruppo.
Ho letto il libro, ho visto il film tante volte ma mai quella scena: non ci riesco.
Da bambina sentivo parlare a mezza voce dei "marocchini" passati durante la battaglia nel mio paesino come in altri vicini (non so perché dicessero battaglia e mai guerra...). Ero già sposata ed un giorno mamma e nonna cominciarono a ricordare per caso quei fatti accaduti, nei dettagli, con i nomi, i luoghi; pareva sussurrassero per pudore e rispetto e piansi con loro.
Avevano martoriato ragazzine, donne, anche qualcuna incinta, uomini e ragazzini, perfino il parroco del paese venne legato ad un albero perché con altri uomini dovevano assistere a quei misfatti.
Tutte e tutti si ammalarono di malattie veneree e di quegli uomini sporchi con l'orecchino al naso non ne vollero parlare più, nemmeno quando lo Stato, dopo molti anni, riconobbe loro il diritto ad una pensione.
Non ci sono risarcimenti che possano togliere di dosso le unghie di un branco affamato che ti violavano, che possano ridarti il corpo pulito da donare al tuo amore e togliere la paura di tutte le notti a venire.
Per alcune il tarlo lavorò solerte fin nella testa.
Una sorella di mio n

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   7 commenti     di: Chira


La vendetta di Artemide

Il cielo stava ormai volgendo all'imbrunire. Nella valle regnava un silenzio quasi irreale, e la natura era talmente immobile che pareva in attesa. Artemide stava per raccogliere le proprie armi e andarsene; si era già caricata la faretra in spalla e fece per alzarsi e rivelare la propria presenza alla natura circostante, quando le parve di udire qualcosa muoversi tra gli alberi. Si immobilizzò dietro al cespuglio di more che aveva scelto come nascondiglio, e rimase in ascolto. Poco dopo, ciò che si era mosso si palesò in tutto il suo splendore nell'ampia prateria davanti a lei, e Artemide non credette ai propri occhi. Si trovava di fronte un magnifico esemplare di unicorno, dal manto immacolato, che si muoveva circospetto, quasi avesse sentore della sua presenza.
Artemide impugnò l'arco e sfilò cauta una freccia dalla faretra, posizionandola sull'arma. Poi puntò il dardo contro la creatura, che ora si era fermata al centro della radura, proprio di fronte a lei. Artemide quasi non credeva alla propria fortuna; stava per scoccare la freccia, segnando irrevocabilmente la sorte del malcapitato esemplare, quando qualcosa le si parò dinnanzi, facendo improvvisamente capolino da dietro il cespuglio e facendola sobbalzare. Artemide riconobbe subito la creatura femminile che le era comparsa davanti, una ninfa bellissima, con un vestito di panno bianco e i lunghi capelli biondi, e che stava tentando di spaventarla mostrandole il proprio angelico viso trasfigurato e deformato in un modo inusuale, con gli enormi occhi sporgenti e le fauci spalancate. Ma lei non si sarebbe fatta sorprendere: lei, Artemide, l'intrepida dea della caccia, spaventarsi di fronte ad una ninfa dei boschi?
“Chi credi di spaventare? ” le domandò infatti, con il tono più sprezzante che le riuscì.
La ninfa si dileguò in fretta così com'era venuta, e quando Artemide tornò a guardare verso la radura, anche l'unicorno era sparito. “Maledizione! ” si lasciò sfuggire.
Solo allora co

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Idi

Quando entrai i Senatori erano già pronti.
Sotto le toghe le dita fremevano d'impazienza, stringendo l'elsa dei pugnali.
Ma io non capii
Non vidi i loro ghigni, simili ai musi di bestie brute.
Forse fu la superbia ad accecarmi, oppure la stessa Ate greca che toccò gli eroi di Ilio.
Mi credevo immortale, un Dio!
Ero una creatura celeste che si librava in volo, sopra le teste della plebaglia puzzolente.
Ero un conquistatore, un generale, un dittatore!
Ero Gaio Giulio Cesare.
Ma la mia invulnerabilità permise a quelle ventitre pugnalate di squarciarmi il petto
Neri, rossi, infuocati dalla bramosia di sangue e dall'odio erano gli occhi dei senatori.
Inebriati dal purpureo sangue.
Mi guardavano come le fiere guardano una preda.
Ma io ero Cesare!
Avevo conquistato le Gallie; ero sopravvissuto alle lunghe lame dei Germani.
Non potevo morire là, come un maiale da macello, accanto a Pompeo di pietra.
Mai un Giulio sarebbe potuto morire accanto a un codardo dei Pompei, mai!
Mi difesi e quei vigliacchi indietreggiavano.
Ancora una volta il grande generale riportava una vittoria a Roma!
Vidi gli occhi di Cassio brillare di paura e la mano di Casca tremare timorosa.
Scoppiai a ridere.
Quei "bambini" non potevano nulla contro di me!
Contro il grande Cesare

Poi lo vidi.
Lo vidi e veniva verso di me.
La mano alzata con la daga stretta in pugno.
I suoi occhi, uguali a quelli della madre, come arenaria mi scrutavano impassibili.
Scivolavano sulle mie ferite, indugiavano sulla toga macchiata.
Tesi le braccia.
Ma lui non si buttò nel mio abbraccio.
Non era più un bambino
Il mio bambino
La lama mi penetrò le carni, lacerò il tessuto.
Non gemetti.
Non piansi.
Lo guardai.
Il grande Cesare stava morendo
E la lama che mi aveva ferito era stata impugnata dalla stessa mano che prima aveva accarezzato le mie guance
-Anche tu, Bruto?-
La risposta arrivò, un'ultima pugnalata al petto.
Il grande Cesare era morto

E quel giorno, Bruto, mo

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   1 commenti     di: Giulia Brugnoli



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