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Racconti storici

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I grandi Santi che hanno fatto la storia: Santa Maria Goretti

Il 6 luglio 1902 nel tentativo di sottrarsi ad una violenza sessuale, Maria Goretti subisce con un punteruolo 14 ferite e dopo una lenta agonia di 24 ore, muore alla prematura età di 11 anni, 8 mesi e 21 giorni presso l'ospedale di Orsenico di Nettuno. Il 24 giugno del 1950 Papa Pio XII la canonizza, perché: " con una forte e generosa volontà, sacrificò la sua vita pur di non perdere la gloria della verginità".
Ma cosa ha di tanto speciale la Goretti rispetto alle tante donne che oggi vengono violentate o soppresse? Anche per loro, perché non si parla di santità, ma solo di martirio?
La santità di Maria Goretti si concretizza non soltanto negli ultimi istanti della sua breve vita con l'immediato quanto clamoroso perdono offerto al suo assassino, ma nasce e si sviluppa nella quotidianità e all'interno della sua famiglia.
All'età di 10 anni, Maria perde il padre stroncato dalla malaria e nonostante la propria sofferenza, consola la madre dicendole: "Mamma, non ti preoccupare... io prenderò il tuo posto in casa". È grazie alla generosità dell'adolescente che la madre può sostenere la famiglia con il lavoro nei campi, prendendo il posto del defunto Luigi Goretti.
Del padre Maria assimila il senso della Provvidenza che si manifesta anche nelle più grandi difficoltà, mentre dalla madre la fanciulla impara il primo rudimentale catechismo, ma è da entrambi che Maria apprende l'umiltà e il rispetto per il lavoro.
Con naturalezza l'adolescente si occupa della colazione, dell'approvvigionamento dell'acqua al pozzo, della cura dell'orto e del pollaio, della pulizia delle stanze, della cucina, del rammendo degli indumenti e della cura dei fratellini : Angelo, Mariano, Alessandro, Ersilia e Teresa. E sul finire della giornata Maria recita le preghiere che però spesso non completa per la stanchezza.
Nonostante l'impegno e la premura profusi, la piccola Maria riceve i rimproveri della madre, in qualche occasione riceve schiaffi e calci e una tan

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   4 commenti     di: Fabio Mancini


La vendetta di Artemide

Il cielo stava ormai volgendo all'imbrunire. Nella valle regnava un silenzio quasi irreale, e la natura era talmente immobile che pareva in attesa. Artemide stava per raccogliere le proprie armi e andarsene; si era già caricata la faretra in spalla e fece per alzarsi e rivelare la propria presenza alla natura circostante, quando le parve di udire qualcosa muoversi tra gli alberi. Si immobilizzò dietro al cespuglio di more che aveva scelto come nascondiglio, e rimase in ascolto. Poco dopo, ciò che si era mosso si palesò in tutto il suo splendore nell'ampia prateria davanti a lei, e Artemide non credette ai propri occhi. Si trovava di fronte un magnifico esemplare di unicorno, dal manto immacolato, che si muoveva circospetto, quasi avesse sentore della sua presenza.
Artemide impugnò l'arco e sfilò cauta una freccia dalla faretra, posizionandola sull'arma. Poi puntò il dardo contro la creatura, che ora si era fermata al centro della radura, proprio di fronte a lei. Artemide quasi non credeva alla propria fortuna; stava per scoccare la freccia, segnando irrevocabilmente la sorte del malcapitato esemplare, quando qualcosa le si parò dinnanzi, facendo improvvisamente capolino da dietro il cespuglio e facendola sobbalzare. Artemide riconobbe subito la creatura femminile che le era comparsa davanti, una ninfa bellissima, con un vestito di panno bianco e i lunghi capelli biondi, e che stava tentando di spaventarla mostrandole il proprio angelico viso trasfigurato e deformato in un modo inusuale, con gli enormi occhi sporgenti e le fauci spalancate. Ma lei non si sarebbe fatta sorprendere: lei, Artemide, l'intrepida dea della caccia, spaventarsi di fronte ad una ninfa dei boschi?
“Chi credi di spaventare? ” le domandò infatti, con il tono più sprezzante che le riuscì.
La ninfa si dileguò in fretta così com'era venuta, e quando Artemide tornò a guardare verso la radura, anche l'unicorno era sparito. “Maledizione! ” si lasciò sfuggire.
Solo allora co

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C'era una volta

C'era una volta un paese appollaiato nell'inguine di una collina, discosto dal mare da dove, si racconta, si rifugiarono i policastersi.

Una sera, all'improvviso, nei pressi della foce del fiume Bussento giunsero i Pirati. Erano agguerriti e feroci, dopo tante peripezie.
I Policastresi, atterriti, abbandonarono il loro mare, il loro fiume, le loro paludi; rinunciarono a difendere le loro mura e il loro castello e fuggirono dalle loro case.
Fuggirono e si sparsero come schegge esplose dalla paura.
Fuggirono ansimanti, da perdenti ed alcuni di loro si rifugiarono a nord tra i cespugli di un costone roccioso dal quale sgorgava un rivolo d'acqua pura.
Si appollaiarono in capanne di fortuna e costruirono, si racconta, la prima casa su una roccia, abbarbicata come una cozza su uno scoglio.
Si nutrirono di bacche e di caccia. Raccontano i vecchi del paese che di notte sognavano le barche, il mare e l'odore dei pesci sulla brace.
Per sopravvivere, furono costretti a cambiare le loro abitudini e da pescatori diventarono pastori, boscaioli e più tardi anche contadini.

Più di ogni cosa coltivarono nel loro cuore e nel loro animo il terrore e la paura; covarono un millenario rancore verso una qualunque cosa diversa da se stessi e dal loro modo di pensare.
Si nascosero e si isolarono dal resto del mondo pur piccolo dell'epoca. Maturarono un senso di altera superiorità morale e si gonfiarono di orgoglio; un forte senso di identità di popolo li univa sempre più forte.
Tutto questo non impediva ai santamarinesi di azzuffarsi tra di loro come galli in un piccolo pollaio, come leoni nella foresta.
Avevano le loro leggi e la loro morale; la vita e i rapporti si coniugavano su valori da tutti accettati: il rispetto per gli anziani, l'ubbidienza ai genitori, la riparazione dello sgarro verso una donna, la parola data che valeva più di un contratto, il timore di Dio.
Chi sbagliava pagava, e pagava anche con la forza e tutti si schieravano non con la vittima

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   2 commenti     di: Ettore Vita


Quei giorni di Settembre Parte 2.

CAPITOLO 7 : L’ULTIMA BATTAGLIA DEL LUPO.

I soldati del Reich avanzano, seppur con evidente difficoltà. Le colline dell’Appennino tosco emiliano non sembrano il terreno più adatto ai loro stivali di cuoio ed il terreno a tratti friabile dei boschi non favorisce il loro equilibrio. A volte chi cade riesce a rimettersi in piedi ed a continuare la propria faticosa salita verso il nemico, ma capita che il soldato tedesco che scivoli sulla finissima ghiaia sotto i suoi piedi sia destinato a non rialzarsi più, falciato dai proiettili che sembrano sputati da una vegetazione desiderosa di dare la più dura delle punizioni agli intrusi che non meritano di essere accolti in essa. Una natura indignata dal sangue che quegli uomini hanno fatto scorrere sotto i loro occhi. Occhi puri, abituati alla lucentezza del sole, al sapore invitante dell’aria pura... assolutamente impreparate a respirare il disgusto del sangue che ha imbevuto le loro radici e corrotto la loro innocenza. Una vegetazione che sembra essersi stancata di fare da spettatore passivo e che ora vuole la sua vendetta.
Le grida di addio alla vita di quella razza che si crede tanto superiore alle altre ed i corpi che rotolano dai declivi sono un pessimo spettacolo per gli altri che restano e che non hanno altra scelta che continuare ad avanzare faticosamente nel grembo di quella natura così bella che vuole solo rigettarli, servendosi dei loro nemici e nascondendoli fra i suoi rami, i suoi cespugli e le sue rocce.
Gli ordini sono chiari: avanzare a qualunque costo. Mai indietreggiare. Mai ritirarsi.
Molti di quei soldati sono poco più che ragazzi. Non hanno mai combattuto una battaglia contro un nemico invisibile. Si sono divertiti ad uccidere per tutta la mattina e tanti loro compagni stanno ancora uccidendo in paese. Sfortunatamente, loro hanno ricevuto l’ordine di rastrellare le colline circostanti per scoprire i rifugi dei loro principali nemici e stanarli. Erano tutti convinti che fosse un compit

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Insediamenti di civiltà protostoriche in Saint-Martin-de-Corléans di Aosta

• Aosta offre oggi al visitatore una particolare e per molti poco conosciuta novità dal punto di vista storico e culturale. Di fatto oltre alle vestigia dell'epoca romana quali:Porta Prætoria, la Porta Decumana, il Teatro, l'Anfiteatro, la Cinta muraria e le torri il Criptoportico forense, il Ponte sul Buthier, la Villa della Consolata e l'Area funeraria fuori Porta Decumana, recenti scoperte del sottosuolo hanno riportato alla luce reperti di un sito megalitico la cui area risulta situata presso l'antica chiesa di Saint-Martin-de-Corléans nella periferia occidentale della città. Come noto il megalitismo si accompagna a civiltà protostoriche con manifestazione dell'architettura caratterizzata da monumenti eretti con blocchi di pietra di grandi dimensioni, grossolanamente tagliati. Le testimonianze più antiche sembrano iniziare nel Neolitico e, in alcune aree, nell'Eneolitico, prolungandosi in alcune regioni nell'Età del Bronzo. I tipi principali che si possono distinguere sono: dolmen; tombe a corridoio che introducono a una camera sepolcrale; tombe a galleria; menhir; cromlech. In particolare il significato dei cromlech (inizio 2° millennio a. C.), costituiti da pietre infitte nel suolo e disposte a circolo, è ancora piuttosto discusso. Essi sono talvolta collegati con allineamenti di pietre fitte, che sembrano costituire monumentali strade di accesso. Talora i monumenti megalitici recano una decorazione con motivi rettilinei o curvilinei (oculi), oppure con armi, strumenti, figure umane, simboli astrali. In Aosta il ritrovamento risale al giugno 1969 in occasione di scavi iniziati a scopo edilizio. Di fatto, nell'area prospiciente l'abside della chiesa lo sbancamento per la costruzione di una serie di edifici abitativi mise in luce particolari elementi litici che si dimostrarono subito di interesse archeologico. Il riconoscimento in particolare della parte sommitale di una stele decorata e in seguito dei montanti di un dolmen da parte degli archeol

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Il Perdono di Ambrogio

PREFAZIONE DELL'AUTORE
Prima di tutto, il fatto storico che mi appresto a narrare, con mie parole, con mie invenzioni ad adattamenti poetici, è un fatto veramente esistito, questo per non pensare che sia il prodotto di qualche mia fantasia onirica.
Non vorrei rivelarvi più di molto sul succo del racconto, essendo obbligato a dire però che i fatti qui descritti si collocano intorno al 390 Dopo Cristo, quando l'Impero Romano entrava ( ma era già entrato seppur minimamente) in crisi e quando la Chiesa era già religione di Stato, approvata, contrapprovata e dichiarata.
Vescovi, chiese, cattedrali, Messe, si affiancavano agli ultimi fasti dell' Impero che aveva dominato il mondo.
Una società del resto molto simile alla nostra.
Buona Lettura.



L’alba sorse a Tessalonica con l’impiccagione del governatore Boterico.
Tumulti avevano infiammato la cittadina il giorno prima, durante lo svolgimento annuale dei giochi olimpici con i carri d’oro e le quadrighe bronzee.
Boterico non era il solo a pendere dal muro degli orefici, che si affacciava sulla piazza dei giochi olimpici.
Accanto a lui il funzionario romano Lucio Ventrone e alla sua sinistra il suo spietato consigliere, Emilio Sandalo.
Poche ore dopo giungeva da Salonicco un nuovo governatore, alleato del Cesare Romano, di Teodosio, Savio Parmalo, il quale con un pugno di legionari in molto silenzio prelevò i corpi impiccati e con la carovana delle zucche li spedì a Roma, dall’imperatore.
Questo Savio Parmalo covava un odio profondo per Tessalonica e si aspettava una bella punizione da parte di Teodosio per gli empi cittadini.
I corpi, ben sistemati da Parmalo e i legionari, arrivarono all’imperatore tre giorni dopo con tanto di lettera.
Teodosio credette di svenire davanti a tanta crudeltà.
Là giaceva il suo caro amico Boterico, che presentava sul collo le nette linnee della corda assassina.
E nella lettera, abilmente cucita da Parmalo, l’accusa diretta ai cittadini, ai miglia

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Donna Rachele

La chiamavano donna Rachele, non tanto per il casato ma per quel suo portamento da nobil donna, affabile ed autorevole, gentile e distaccato.
Prima di quattro sorelle ed un fratello, morto in giovane età, da ragazza il suo ruolo nella illustre famiglia di origine fu quello di signora del focolare domestico, di padrona di casa, anche a causa della prematura morte della mamma, ruolo non adeguatamente ricoperto dalla matrigna.
Cucinava con maestria per la famiglia e i numerosi operai ed inservienti, e coadiuvava il padre, speziale, nella gestione dei rapporti e nella preparazione di numerosi intrugli: sciroppi, pomate e medicamenti, utili per ogni malanno.
Come tutte le donne dell'epoca non era andata a scuola, ma siccome riusciva a firmare con una certa disinvoltura si sentiva quasi una letterata a confronto con le sorelle e le donne del paese.
Era molto orgogliosa dei suoi trascorsi, anche se criticava il padre per via dei tanti errori commessi nel ripartire la sontuosa eredità, fatta essenzialmente di terreni.
Lo speziale era un uomo autorevole, consapevole di sé; era stato un protagonista in tutto, sindaco e farmacista, datore di lavoro e consigliere; era abituato a comandare, a gestire le sue cose e quelle degli altri; era un padre amorevole ma anche padrone, gli era naturale un innato istinto ad indirizzare, a governare dall'alto la vita delle sue figlie e dei nipoti; forse aveva una umana debolezza che lo portava a prediligere, a distinguere.
Forse faceva tutto in buona fede per equilibrare la situazione di una prole che aveva avuto storie alquanto diverse, ma il suo austero comportamento, creava malintesi, mugugni, diffidenze.
Invecchiando era diventato meno sicuro, forse ricattabile, e diciamo era stato anche incattivito dalle vicende della vita.
Insomma, scrisse e riscrisse un testamento che era un vero ginepraio, fonte di litigi, di interminabili perizie e patteggiamenti che finirono per spezzare i legami familiari.
Donna Rachele non riusc?

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   3 commenti     di: Ettore Vita



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