Che guaio! Alla zia mia: una suora di clausura, le hanno rubato la grata della sua stanza.
Per fortuna i carabinieri hanno preso i ladri. Stavano giocando a grata e vinci
"Ci crederesti mai dove sei?"
"No."
Gregorio sorrise.
"Questo è il posto dove i pensieri più reconditi della mente, si alleano, si mescolano."
Ben scosse il capo.
"Non ci credo."
"Allora dove pensi di essere?"
"Sto sognando. Non c'è altra spiegazione."
"Stai sognando?"
"Sì."
Allora Gregorio gli si avvicinò.
"Questo è il luogo dove chi coltiva rancore, rabbia e odio, rimane fino a data da stabilire."
"Fino a data da stabilire?"
"Proprio così."
"Tu perché sei qua?"
Gregorio camminò in tondo. Si trovavano nella foresta buia. Solo la luce della luna adesso illuminava il terreno.
"Più di vent'anni fa mio padre è stato ucciso. Quando sono nato era già morto. Mia madre però mi ha sempre parlato di lui, tanto che mi sembra di averlo sempre conosciuto", fece una pausa. "Crescendo mi sono fatto dire da lei il perché mio padre fosse morto. Quando era ragazzo, la vita era difficile... così per guadagnare qualche soldo in più, lavorava per un tizio, un mafioso."
"E che cosa faceva per questo mafioso?"
"Portava le bustarelle a qualche agente di polizia. Quel lavoretto non gli portava via più di venti minuti al giorno. Era... una cosa da nulla. Solo che un giorno l'hanno preso i membri della gang rivale."
Gregorio continuava a fissare il vuoto avanti a sé, e i suoi occhi divennero opachi. Ma il pianto rimase nascosto, celato dal buio della notte, e dalla volontà del ragazzo.
"E poi?"
Allora Gregorio si voltò.
"E poi basta. Non devi sapere altro."
"Come sarebbe a dire? Mi rapisci, mi porti nel tuo rancore, e non finisci di spiegarmi?"
"Non ti serve sapere altro."
"No, non ci sto."
"Non ha importanza. Ormai sei qua, e a meno che tu non conosca il modo di andartene, rimarrai qui fino a data da definirsi."
"E sarebbe?"
"Quando lo deciderò io. Prima mi aiuterai, e prima potrai andartene."
"In cosa dovrei aiutarti?"
"Sono qui a causa del rancore che provo nei confronti di quegli
Svoltai a destra, seguendo l'indicazione per Babilonia. Dopo pochi chilometri di sentiero stretto e fangoso, ecco apparire, dopo una curva ad U, Machu Picchu, in tutto il suo splendore, avvolta strettamente dalle mura bizantine come una maliziosa dama dal corpetto di stecche di balena.
Entrai senza problemi dalla celeste porta di Isthar, mostrando all'ufficiale di guardia il salvacondotto firmato anni prima, in mia presenza, dal mite Gengis-Kahn.
In fondo al maestoso viale senz'alberi né sfingi, scorgevo lo sfavillio degl'occhi di Siddharta, Re dei Re, Sha dei Sha, seduto scompostamente, ignudo e macilento, sul massiccio trono di bambù.
"Vieni avanti, cretino", m'invitò compassionevole.
"Muoviti", gridai a Quixote, il mio obeso ed infedele scudiero,
"hai sentito che Lui ti ha chiamato a sé?"
Quixote, obbediente come già Garibaldi a Filippi,
spirò immantinente.
"Ave Cesare", risposi avanzando lentamente, gambe larghe e solide sul terreno, le mani sul calcio di madreperla delle mie fide Berretta 750 cc., "vediamo chi c'azzecca!"
Da quando aveva sbagliato il tiro ai Mondiali del 562 dopo Shiva, il numero 10 gli pesava sulla schiena come un candelabro di cemento armato.
Siddahrta si abbassò i calzettoni, sistemò i genitali all'interno degli slip griffati, mi guardò fisso nelle palle degli occhi e tirò: in alto volò la sfera qual missile, nel cono di luce della luna, ed ancor oggi gli asciugoni Regina pagano royalties per quell'immagine disperata del fallimento di un credo seguito da milioni di telespettatori.
Lo colpii diritto al duodeno; dalla sorpresa rimase in piedi: così morì Zharatustra, senza dire nemmeno amen.
Tornai sui miei passi e salii sulla mia rossa McLaren: un secco colpo di frusta ed i due cavalli partirono a razzo sulla A1, superando di gran lunga il limite dei 12 km/orari,
Arrivai a casa tutto spettinato e, come al solito, Saffo ebbe da ridire. Non c'è pace tra gli ulivi
Questo inverno che stava ormai per terminare non aveva ancora imbiancato le colline alle quali la città si appoggiava; era bella consuetudine per i fidanzati salire per qualche tornante e fermarsi a osservare quel bagliore vivo che la città offriva sotto il cielo stellato.
Da lassù, il silenzio favoriva lo spettacolo; tutta la vallata si apriva allo sguardo, che si poteva perdere fino a intravedere le luci di altre città che abitavano la grande pianura, che si estendeva fino al mare. Osservare da lontano quell’intrecciarsi di arterie stradali, percorse dai fari luccicanti delle auto, senza udirne il rauco e nervoso lamento, dava l’impressione di assistere allo spettacolo di una immensa luminaria natalizia, che si intersecava fuori e dentro la città con le sue luci intermittenti.
Una salita di pochi chilometri e l’auto si fermò in uno spiazzo a strapiombo sulla valle.
L’autoradio suonava una musica moderna ma dolce, da innamorati.
Una bella luna osservava la tranquilla notte ormai definita all’orizzonte e il confondersi delle luci in lontananza rapiva lo sguardo in maniera ipnotica, come quando si guarda a lungo il ciclo vitale di un fuoco in un camino.
Marina disse: “è così bello, sembra di vedere un enorme luna park”.
Franco non spense l’auto, la serata era fredda e il riscaldamento acceso dava il giusto tepore all’interno dell’abitacolo.
“Già, un enorme luna park, da quassù tutto è diverso, quando poi ci sei dentro, quando sei là in mezzo….” Marina gli smorzò la frase bloccandogli le parole con le labbra, lo baciò appassionatamente, quasi con violenza.
Franco si staccò per prendere respiro, la guardò con uno sguardo sorpreso e lei sorrise.
“Lo sai che ti amo?” disse Marina.
Lo stereo continuava con la sua musica moderna ma dolce, da innamorati.
“Si amore mio, anche io ti amo” disse Franco mentre dolcemente le baciava il viso e le passava le dita tra i morbidi capelli.
Fragili, tenere carezze tra due
L'uomo era alto e così magro che sembrava sempre di profilo. La sua pelle era scura, le ossa sporgenti e gli occhi ardevano di un fuoco perpetuo che gli avevano regalato il soprannome di "Fenice".
Da Sao Tomè a Rio. Finalmente per lui, unico tuffatore della nazione, la soddisfazione della competizione olimpica. Doveva essere solo una partecipazione simbolica per entrare nella storia dello sport del suo piccolo paese.
Ultimo, ovviamente, dopo il primo tuffo, osò sul secondo l'inosabile. Quintuplo salto mortale e mezzo in avanti.
Voleva passare alla storia come l'unico che l'avesse tentato: riuscirci non era necessario.
Salendo la scaletta sentiva l'emozione che aumentava come la brezza dal basso verso la piattaforma della piscina con l'atlantico immenso di fronte. Sotto di lui non c'erano parole, soltanto rumori come voci sospese.
C'erano ora solo lui e l'oceano infinito.
Il vento caldo aumentava d'intensità. Aspettò ancora un momento e poi si lanciò nella storia.
Un due, tre, quattro, cinque... il vento fortissimo lo sosteneva nel suo sforzo rallentandone la discesa, permettendogli le evoluzioni previste dal tuffo impossibile.
Newton contro Eolo, gravità contro vento ascensionale con l'acqua in attesa del corpo leggero.
Davanti al suo paese, migliaia di sogni distante, ebbe il punteggio più alto mai visto in una gara di tuffi tra l'acclamazione del pubblico carioca.
Non volle esagerare e lasciò la gara dopo quel tuffo.
Si era spento il fuoco che gli ardeva negli occhi.
Quella mattina avevo preso il solito ascensore (quello intelligente!) ma anziché pigiare il quinto piano, premetti erroneamente il sesto.
Ero appena uscito dall'ascensore, quando immaginai davanti a me il brutto grugno della signora Torquemada che gesticolando mi ordinava di scendere al più presto. Ma l'eccitazione di stare al piano degli Dei, unitamente all'idea di fare arrabbiare la Santa Inquisizione, mi fecero resistere e quindi avanzai lungo il corridoio scarsamente illuminato.
Avevo fatto pochi passi ed il silenzio era interrotto di tanto in tanto dalla donna delle pulizie che si muoveva chiassosamente, sicura che a quell'ora di primo mattino non ci fosse nessuno. Quasi misteriosamente mi trovai davanti alla porta dell'ufficio del Dirigente capo, colui che comandava tutto e che nessuno di noi, inquilini del piano inferiore aveva mai incontrato.
Capii che quello era un segno del destino. Forse la mia vita lavorativa e non, sarebbe dipesa dagli attimi successivi. Bussai. Attesi un poco, poi mi parve di udire un sommesso: "Avanti!". Nell'istante in cui pigiai il pulsante centrale della maniglia, mi sentii per la prima volta come un romeno o un albanese che viola una villa isolata del Nord.
Dunque, anch'io come uno di loro, potevo portare a termine il mio colpo!
"Dottor..." balbettai, poi l'emozione mi bloccò.
Lui era lì: ben vestito, seduto al suo posto con i capelli lunghi e grigi, mentre un paio di occhiali da sole gli coprivano gran parte del viso. Mi feci coraggio e ripresi: "Dottore... ero troppo curioso di conoscerla. Qualcuno sostiene che lei nemmeno esista! Invece io la vedo benissimo!".
Pensai che dopo la mia battuta, Lui scoppiasse a ridere. Ma Lui non rise, né disse nulla. E a dire il vero cominciai a sentirmi in imbarazzo.
"Forse ho esagerato, anzi senza il forse. Sicuramente le sto dando troppa confidenza, Dottore. Ci rivedremo in un'altra occasione..." dissi.
E mentre stavo per abbandonare l'ufficio, mi accorsi che la testa del
Me lo sono sempre domandato: come mi comporterei?
Ci hanno insegnato che a Dio bisognerebbe dare del voi; ci hanno sempre fatto conoscere quel Dio di giustizia del Vecchio Testamento che, diciamolo francamente, ancora oggi incute un po' di timore nel credente: Quello dell'Occhio per occhio"...; ci hanno insegnato di rivolgerci a Lui con adorazione e devozione.
E, come se non bastasse, ci hanno sempre detto che Dio non Lo si può guardare in viso...
Ma cosa vuol dire adorazione e devozione? Vuole forse dire inginocchiarsi carponi, baciarGli i piedi e implorare?
Io, che sto cercando di vivere il Nuovo Testamento, così lontano dal Vecchio, ho conosciuto e amo quel Dio di Misericordia che tutto sostiene; quel Dio che si è fatto Uomo per sapere cosa affligge il genere umano, per provare di Persona cosa questo mondo offre nelle sue meschinità, nei suoi compromessi, nel dolore d'una agonia terminale, nelle violenze giornaliere d'ogni tipo, nelle assurde battaglie quotidiane per un pezzo di rispetto... quel rispetto che dovrebbe essere l'"alfa " e l'"omega" del reciproco rapporto interpersonale.
Questo è il Dio che conosco: quel Dio che se m'apparisse strada facendo nel mio tormentato cammino, come penso quello di molti, non mi butterei ai suoi Piedi, non Lo ossequierei come si fa con un dio pagano, non Lo adorerei come insegnano i suoi ministri di culto, ma gli butterei le braccia al collo e Lo stringerei forte come farei con il mio amico più caro...
E sono sicuro che in questo mio contegno apparentemente impertinente, come si fa fra veri amici, con una strizzatina d'occhio anche Lui sarà felice di spogliarsi di quel certo contegno pari alla fama che gli hanno costruito attorno, e appoggiandomi il braccio attorno al collo valicheremmo unitamente quel tratto di strada, che ancora ci separa, facendomi raccontare quelle barzellette che, irriverente, e a volte anche un po' blasfemo, ho sempre detto su di Lui per riderne assieme.
Poi, parl
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