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Racconti surreale

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Bradipo

Un uomo qualsiasi, di quelli difficili da trovare se ne stava seduto lì, sotto un wacapou ad attendere silenziosamente un ovvio contatto con qualche forma di vita animale presente in quell'enorme foresta, un puma sarebbe stato eccitante, magari un boa o qualche variopinto uccello tropicale, pappagalli verdi, tucani da becchi multicolore.
Non poteva pensare a nulla di più sbagliato.
Uno sdentato grande quasi quanto un uomo, un bradipo enorme si stava dirigendo verso di lui dopo aver meticolosamente lasciato il ramo dell'albero a cui era appeso in quella posizione improbabile.
Poderose zampe, artigli lunghi, ricurvi e uno sguardo sincero, si muove lentamente, troppo, ma lui attende, semplice uomo clandestino in un mondo di liane fiammeggianti resta fermo, ha visto in quel bradipo la voglia di comunicare, di accoglierlo nel suo mondo, il mondo dell'istinto, delle sensazioni, degli odori.
La bestia si trova ormai a pochi centimetri da lui, si piazza con il sedere per terra imitando la posizione umana e i loro sguardi si penetrano, le loro anime s'intrecciano.
Il bradipo lentamente si prepara ad abbracciare l'anonimo traditore graziato dalla natura, schiude lentamente le braccia allargandole per tutta la loro capacità e inizia a stringerle attorno al corpo glabro dell'uomo
Lui cosciente dell'infinita lentezza dell'animale attende pazientemente quel selvaggio abbraccio,
per nulla impaurito.
Ora è completamente racchiuso nelle braccia dell'animale che non si ferma, non si limita ad abbracciare con potenza animale, continua a stringere e gli artigli ricurvi cominciano a penetrare la pelle.
Lui non può fare nulla, impotente resta fermo facendosi stritolare da quell'abbraccio irreversibile.
Le scapole lentamente si incrinano verso l'interno e gli artigli penetrano violentemente nella carne perforando i polmoni.
Sangue sgorga dalla bocca dell'uomo, sangue si riversa sulla pelliccia del bradipo, sangue và a nutrire le piante che cresceranno, il cuo

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   11 commenti     di: Egon


Un flusso tra i passi

terre senza nome. si avvicendano, sul mio cammino. terre di nessuno, o meglio di persone ignote, senza importanza. il peso degli sguardi da sostenere; l'innocenza di formalità obbligate. il giorno del giudizio è ogni giorno. il resto non ha peso: dio, dei, astri. inferno o paradiso? continuo a camminare e sfioro anime di marmo. impassibili, come la mia del resto. la regola dell'indifferenza ci ha giocato un tiro mancino, lo vedo nei vostri occhi stanchi, nei nostri sospiri sempre più privi di vita. ho udito abbastanza grida; ho gridato abbastanza. ho bevuto abbastanza lacrime; ripulito abbastanza sangue. un bivio mi confonde -essere o non essere- cerca di lacerarmi -vivere o non vivere- mentre si nutre dei nostri dubbi -fidarsi o non fidarsi- e ci fa credere di essere liberi -legarsi o non legarsi- nelle nostre gabbie dorate. ho ascoltato: la speranza è l'ultima a morire - la morte è l'ultima a sperare. imputiamo la colpa alla vita, come se questa sia ente di mali che si diverte a donarci ricoperti del più dolce miele. (la paura della scelta, la paura della responsabilità, la paura.) bé, non ne sono più così certo; la vita ci rovina o noi roviniamo lei? (destra) ho fatto del mio meglio. e ho trovato una risposta: non c'è alcuna risposta. ho fatto del mio meglio - credetemi; non ci riesco proprio. (sinistra) ormai le mie gambe proseguono per inerzia. ho sprecato passi. (attraversare) le macchine corrono - vorrei essere veloce come le macchine. vivere velocemente. eliminare ogni sofferenza sterile. soffocare ogni pensiero inutile. (persone, persone!) continuo a resistere; non ho più molta forza. prendo coscienza dei miei limiti infiniti. resisto! [ora] oh, vano pensiero. (ancora un passo..) ho fatto del mio meglio. non ho più forza. mi lascio trascinare dalla corrente.

È come un fiume in piena.



Quel sottile filo di schiuma bianca

La sabbia incominciava a scottare forte e lui, a piedi nudi, cercò di camminare sulla battigia, entrando appena e poi uscendo dalle calde acque limpide, varcando ogni pochi passi il confine tra la terra e l'oceano segnato da un sottile filo di schiuma bianca.
Là, oltre quel filo, all'altra estremità e dopo l'orizzonte, andava a posarsi il suo sguardo appena distratto dai pensieri ricorrenti.
Qui, alla sua sinistra, opposto all'oceano e ben saldo alla terra bruciata dalla calura, l'oggi.
Presidente, Presidente! si misero a vociare le due donne attempate grassocce strette nei loro costumi troppo succinti e troppo vivaci, con le facce accaldate sulle quali strani giochi di ombre riproducevano, alterati, gli intrecci di paglia dei loro enormi cappelli da sole.
Presidente!
Si voltò appena. Vergò due foglietti chiari con una biro che una delle due gli aveva porto. La firma attraversò imponente obliqua nitida il piccolo foglio dal basso verso l'alto per tornare in giù con un breve graffio d'inchiostro nero.
Caffè Santucci. Piazza dell'Obelisco... evidenziava la scritta bianca sul dorso blu della biro; il nome della città risultava illeggibile per via degli umori della mano che tante volte aveva impugnato la penna, ma le prime lettere sbiadite che riuscì a decifrare gli permisero di dedurre il luogo dove un tempo era stato acclamato.
Vi si era recato agli inizi della sua carriera.
La piazza era gremita. Le strade di accesso barrate. Viva il Presidente! Benvenuto, Presidente! inneggiavano le voci concitate e i volantini colorati.
Le due facce, sparuto residuo della moltitudine di allora, si allontanarono fino a raggiungere un gruppo di turisti che sonnecchiava sotto l'ombra di un enorme ombrellone di palme.
Per pochi attimi il Presidente aveva di nuovo varcato il sottile filo che lo riconduceva al passato. Oltre la terra che calpestava e di là dall'oceano.
In quello spazio ritrovò le vecchie immagini e le afferrò così come capitavano.
To

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Necro-epistolare

Caro amico,
ti scrivo perché sono morto. Sono morto senza saperlo, senza volerlo. Un singolo attimo è bastato per cambiare tutto ciò che credevo. Come se un granello di sabbia caduto in un occhio ti rapisse dall'universo. Sono qui, morto. Il battito del cuore è già diventato un ricordo, e con lui anche il dolce sapore del sangue caldo che sottile scorreva nelle mie mani, nelle mie arterie. Ho freddo, un freddo mai provato, mai sentito anche negli inverni più rigidi, viene da dentro, dentro di me; sono morto. Non posso dire che tu mi manchi, che mi manchi la mia vita o i miei genitori, perché non provo più alcuna emozione. Non sentirò più i brividi di un bacio, il calore di una carezza o le palpitazioni di un orgasmo, mai più. La mia logica è ormai fredda, come le mie guance, o quel che ne resta. Ogni emozione ha cessato di esistere con il mio ultimo respiro. questo è stato flebile, delicato, come se l'ultimo alito di vento nelle mie viscere si fosse pigramente tolto dalla sua cella polmonare. Sai, l'aldilà lo pensavo diverso, per me almeno. Non vedo altro che un buio pungente, tanto da far cadere quelle che sembrano le ultime lacrime. Non c'è nessuna luce abbagliante e nessun Caronte che mi attende. Forse si sono dimenticati di me, o è proprio questo l'aldilà e questo è il mio girone infernale.

Buio asettico, buio inodore, insapore.

Credo proprio che tutto sia finito. questo è il mio addio a te, amico. Vorrei sperare di poterti rivedere, ma non credo che accadrà mai. Non so nemmeno quanto tempo è passato, forse anche tu sei già morto, ma se non fosse così ti auguro di goderti ogni singolo granello della tua vita, perché se anche breve, la memoria sarà il tuo faro nell'eterna notte che qui ti attende.

Eternamente io

   2 commenti     di: Luca L


Il foglio

La penna girava tra le dita e l’orecchio. Un po’ di saliva tra le righe gialle e nere della scocca di plastica. Per altri fini forse, avrebbe avuto più successo. Come ci si sta con una Stedtlaer tra le gambe? Ci provai. Niente. Nemmeno la fatica di aver sbottonato i jeans.
Un mondo in quarantena, sembrava ci fosse la fuori. Il ronzio incessante di formiche ipnotizzate, il trotto dei tacchi sui marciapiedi, gambe depilate e petti impostati. A cantare una marcia impolverata.
Proviamo di nuovo. Mi tolsi la penna dai pantaloni e andai alla finestra. Un movimento della mano, delicato, ammaestrato. Bello vederli muoversi a comando. Il cane alza la gamba per pisciare sulle scarpe uvaviola della signora appena uscita dal parrucchiere che imprecando furibonda finisce per cadere tra le braccia del macellaio dal camice ancora sporco di sangue e insieme si rotolano tra le buche del marciapiede. Un tango. Senza rosa. E con un tonfo. Lo spettacolo finì. Noia.
Delusa da Merlino tornai al foglio e cambiai penna. La intinsi nel bicchiere di the, qualora di inchiostro non ce ne fosse abbastanza. Provare a coltivare forse. Eppure restava bianco, immobile.
Il sonno indisturbato del foglio, prima di lamentarsi della sua macchia marrone proprio nel suo angolo preferito. Non valeva più la pena sentire le sue lamentele. Lo accompagnai verso il cestino. Un volo di prima linea. Rapido. Rapidissimo.
Presi un altro foglio e lo posai sul tappeto. Io ero in piedi. Scalza. Lo guardavo dall’alto. Il soffitto ed il foglio. E sarei stata molto grata ad entrambi se si fossero mesi ad urlare e macinare le parole confuse e incollate allo smalto sulle mie dita. Ma c’era silenzio. E odore di polvere.
Per via delle tende, credo. Non avevo mai avuto il coraggio di togliere, per non aver perduto il coraggio di continuare a spiare da dietro il vetro. Pensavo di poterci capire qualcosa delle marionette sul marciapiedi guardandole da dietro il velluto rosso impolverato piuttosto

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   3 commenti     di: Aurora F


La sarta

Jeff era veramente stufo di quella vita girare tutta la notte con il taxi a New York, farsi un culo tanto e non avere mai un dollaro in tasca, mentre i colleghi compravano casa e facevano una vita agiata, Jeff si domandava perche' lui non riusciva a mettere via un soldo, anche sua moglie se lo domandava, finche' un giorno lo pianto' di punto in bianco. Ecco le donne sono tutte uguali, penso' Jeff, sono i soldi che vogliono. Si spiega in questo modo perche'si vedono tante belle ragazze con uomini orribili, e difficile il contrario.
Inizio' per Jeff un nuovo capitolo della sua vita, e spesso intratteneva con i clienti, tra una corsa e l'altra delle conversazioni proprio inerenti alla avidita' che hanno le donne per i soldi, tanto da credere che fosse diventato per lui un problema sociale.
Scrisse anche diverse lettere ai settimanali femminili, per altro mai pubblicate, quando si ritrovava a mangiare un hamburger con i colleghi sapeva solo parlare di questo, si era convinto che tutte le donne fossero uguali, non credeva più all'amore al sentimento, vedeva le donne come avide jene. Jeff era messo male, non riusciva più a vivere nella societa' normalmente, si comportava strano, ogni giorno si isolava di più dagli altri, Jeff era in pericolo.
Il taxi, la notte, la solitudine, tutti questi ingredienti facevano di Jeff una persona terribilmente sola, e qualcosa di parecchio pericoloso gli frullava nel cervello a Jeff.
Una notte verso le quattro monto' una ragazza sul taxi appena uscita da una discoteca di Manhattan, doveva accompagliarla a Spring Valley, ma lei ad un certo punto le ordino' di fermarsi di fronte ad una sartoria e di aspettarla, la ragazza apri' il bandone del negozio, entro' e ne usci' subito dopo con un sacchetto in mano, Jeff le domando' se fosse quello il suo lavoro, e la ragazza rispose affermativamente, dallo specchietto retrovisore Jeff noto' che la ragazza prese un paio di pantaloni dalla borsa di plastica e con fare circosp

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   0 commenti     di: Isaia Kwick


Yanez e il bimbo che disegnava pensieri sui muri

Spazio insondabile quello della mente, intricato e labirintico, invivibile a volte, fonte d’ispirazione infinita altre. Yanez dice di sé che è stato un bambino vivace e curioso, attento a tutto quello che intorno a lui accadeva; dice che niente, ma proprio niente, ci passa accanto senza lasciar traccia. Un pensiero di un attimo ad esempio, perduto nel tempo e nella memoria, nell’oblio del consueto e nella distanza; un pensiero di un attimo, ciò che è sempre fuggevole, fugge, per un motivo che spesso non conosciamo. E quando torna lascia tracce nuove, moltitudini essenziali e inessenziali, quasi sempre imperfette. Siamo noi che lo rendiamo perfetto, il pensiero, siamo noi che edifichiamo su di esso la nostra costruzione. Yanez lo sapeva bene, sapeva dei suoi sedici anni e dei pensieri che vivono, solo, veramente e nel momento, in cui viviamo con loro. E Yanez li viveva i pensieri, come sempre, come gli veniva spontaneo, fino in fondo. Ma che senso ha farli vivere, si chiedeva Yanez, se oltre che viverli noi, non li rendiamo leggibili al mondo. Nessuno aveva imparato a leggere i suoi pensieri, ne lui era capace di farli leggere agli altri. Era arrivato a credere che i pensieri, mai traducibili efficacemente attraverso le parole, sarebbero rimasti sempre " eternamente " inafferrabili, che la mente sua avrebbe dovuto smettere di emettere quelle strane onde; onde logoranti, onde a perdere. Eppur nulla si perde - continuava a dirsi. Così io sento, così vorrei vivere... cercando una via, un modo, una legge che mi traduca al mondo " si convinca sempre più. Nessuno sapeva, nessuno immaginava, nessuno avrebbe mai immaginato o mai saputo. Si sentiva diverso e ne era fiero e felice, ma allo stesso tempo gli pesava. Non poter palesare ad amici e genitori la sua natura, gli consentiva una vita a metà, tra lo spontaneo incanto e la disillusione. Yanez ricordava bene i suoi otto anni, quando tutto gli riusciva facile ed immediato, senza inquietudine alcuna; quando il

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   0 commenti     di: Federico Magi



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