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Racconti surreale

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Emozioni contrastanti

Che cosa gli succedeva? Era partito con un intento e poi la violenza iniziata era cambiata, si era trasformata andando avanti in un piacere reciproco, aveva assaporato ogni momento e, ne era conquistato. Da quanto non provava quelle sensazioni? Secoli? Nella vita precedente? Neanche si ricordava di aver vissuto come uomo. Perché adesso provare quelle emozioni? Era lui che giocava con gli uomini, eppure aveva la sensazione che qualcuno giocasse con lui.
Avere dei pensieri in testa non era da lui. Scappò e si rifugiò nel suo secolo preferito; l'età oscura, dove tutto era permesso e lecito. Doveva fare qualcosa per scaricare questa tensione, qualcosa che non lo avrebbe fatto pensare per un po'.

Courtrai, Belgio 11 luglio 1302, le milizie fiamminghe aspettavano sulla piana di Groniga l'arrivo dell'esercito di Filippo il Bello. L'esercito avanzava lentamente, un alone di bellezza e ricchezza scintillava nelle superbe armature dei cavalieri; sicuri di sé, della loro potenza.
I fiamminghi, molti di loro rozzi contadini e allevatori, erano armati di picche e goedendag (armi simili a bastoni dotati di una punta ferrata all'estremità), ma la voglia di liberare la loro terra dagli stranieri li rendeva impavidi e vittoriosi. Quella era una delle battaglie più cruente della storia, segnava la fine dei cavalieri e delle loro armature; quella battaglia avrebbe cambiato l'assetto da combattimento.
Lui era lì, in mezzo ai fiamminghi, respirava l'aria tesa prima dell'attacco. Una volta anche lui combatteva con la spada, niente a che vedere con le armi moderne, distanti troppo rapide; confrontarsi con un avversario degno, erompeva energia, il sudore era pregno della paura, l'attenzione era al massimo della concentrazione.

Seicento cavalieri erano adesso distribuiti dalla parte opposta del fiume, i due eserciti si trovarono contrapposti uno di fronte all'altro sulle sponde opposte dei canali. I cavalieri francesi avanzarono, superarono senza difficoltà

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   7 commenti     di: Paola B. R.


Menico piastrellista

Monna Monica! Quante gliene faceva passare a suo marito, Menico il piastrellista! Ora una gliela cantava, un'altra gliela suonava, ancora una gliela cantava e suonava insieme.
Menico, ch'era uomo impastato di santo, socchiudeva gli occhi e, nelle cervella, quell'armuàr senza stipi ch'era diventata si mutava nella carusa bella e sanguta d'un tempo, le di lei gracchie in cip cip di canarii.
Allora faceva conto di stirarsi la faccia con le dita e, guardandola a traverso i fumi della pipa, le sorrideva.
Ahi Maria!
Con la Monna non la passava liscia manco Signuruzzu: tanto le acchianava il sangue a vedergli stampata quella faccia di bumma, che poco ci mancava gliela sbattesse muri muri per il tramite del collo.
A levare occasione, Menico si raccoglieva i barattoli e sortiva per il Circolo di Vuccirìa.
Proprio qui, una sera, lesse la notizia che lo arrivoltò una notte sana risvegliandolo col cuore sghimbescio e una solida certezza ficcata tra le spalle: il sole morirà.
Dal barone Trabia, quella mattina, dovette rifare il lavoro due volte: le piastrelle gli si staccarono per la caucina troppo liquida, il muro venne gonfio che pareva pregno.
Al sant'uomo gli tremavano le mani, tanto che alla terza cazzuola sconocchiata per terra il barone lo pigliò e gli disse: "Menicu, chi fù? Hai a frevi? Caudu si. Suli forti pigghiasti?".
"Baruni, u suli c'entra ma no pi comu pensa lei", e gli contò paro paro il fatto.
Tornando a casa guardava il cielo: era impressione o davvero uno squarcio, come una rasoiata, lo traversava da una nube all'altra?
Ora pareva sul serio pigliato dalla febbre: il sangue gli squassava le vene, la testa gli firriava, le orecchie facevano ron ron.
Tanto ron ron che, quando Monna Monica riattaccò tiritera, Menico non potè sentir più il cip cip dei canarii.

   0 commenti     di: sergio scaffidi


Kafkiana

Drin, drin, drin...
- Sto arrivando... smettetela di suonare!
Drin, drin, drin...
- Un momento, perdiana! Ho aperto, non vede? La smetta dunque.
- Va bene, smetto... voglio essere gentile, oggi.
- Chi è lei, cosa vuole?
- Mi faccia entrare, l'attrezzatura pesa maledettamente.
- Cosa vuole da me, cos'è tutta quella ferraglia?
- Non mi va di discuterne qui sulla soglia.
- Entri, allora, basta che si spieghi.
- Dove posso posarla?
- La metta dove vuole... no, la metta là, attento a non sporcarmi il tappeto!
- Ci sto attento, non si preoccupi. Sono un professionista... io!
- Adesso che ha sistemato la sua roba, vuole spiegarsi alla buon'ora!
- Lei è il signor Clovis Guardabuoi?
- Nemmeno per sogno... non ha letto la targhetta sul campanello?
- Non le leggo mai, potrebbero non dire la verità.
- Questa è bella! Perché non dovrebbero dire la verità?
- Le persone a volte hanno dei segreti da nascondere, caro signor Guardabuoi.
- Mi chiamo Rossi... Enrico Rossi... e non ho segreti di nessun genere. Per chi mi prende?
- Lo vede... si sta arrabbiando. Abbiamo degli scheletri nell'armadio, forse?
- Piantiamola una buona volta con questa storia. Le dico che mi chiamo Rossi e voglio sapere cosa vuole da me, subito!
- Dovrebbe saperlo, non è lei che ha chiamato?
- Chiamato chi? Per che cosa?
- La F. K. D. per un lavoretto urgente. E io mi sono precipitato, trascurando altri impegni. Non è contento?
- Mi faccia capire... io le ho telefonato di venire a casa mia?
- Non è precisamente così... lei ha telefonato alla sede centrale e loro hanno avvisato me di venire qua.
- E chi l'avrebbe avvisato?
- Ah, questo non lo so. Facciamo tutto per telefono. Io quelli della sede non li ho mai visti.
- Ci sarà stato un equivoco, uno sbaglio di persona... io non ho chiamato nessuno di questa fantomatica sede centrale.
- Questo lo dice lei... io ho un nominativo, un indirizzo e quindi devo procedere.
- A far cosa?
- La disinfestazione! Non vede q

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uno strano accordo

Era proprio vero che ognuno ha scritto in faccia il proprio mestiere, pensò Martino Duca con un sorrisetto cinico. In effetti l' uomo col quale si era incontrato in quel boschetto appariva esattamente quel che diceva di essere:un killer. I suoi piccoli occhi castani, freddi e acuti erano quelli di un aguzzino, le sue movenze stranamente calibrate, quelle di una persona abituata amuoversi nell' ombra.:-Allora.. chi cazzo dovrei uccidere?-esordì senza troppi preamboli. Martino gli offrì una sigaretta senza rispondere, ma l' uomo la rifiutò sdegnosamente, fissandolo con lieve impazienza: appariva teso e concentrato, un vero professionista riflettè l' altro, continuando a sorridere, ma sotto quel freddo sguardo azzurro, singolarmente enigmatico il sicario sembrò innervosirsi ancora di più:-vuole rispondere o no?- incalzò brusco:-non ho tempo da perdere-:-onestamente  mi sembra che il suo bersaglio sia chiaro-rispose Martino senza scomporsi, quasi con alterigia:il sicario si domandò se non fosse totalmente pazzo:-ma perchè non si suicida, allora?-gli chiese aspro.
:-cosa?-Martino apparve ora sinceramente scandalizzato:- e lei crede davvero che dopo una vita intera passata ad eludere le mie responsabilità io possa ora accollarmene una così grossa?-sorrise sinistramente:-su... non si faccia pregare-lo ammonì fissandolo:-dopotutto questo è il suo lavoro, no?-.

   2 commenti     di: carmela arpino


Quello che ho visto... racconto

Un cavallo un po' bianco, un po' marrone chiaro, bello, grosso e alto, è mio, insieme a tanto, tanto terreno da arare, da lavorare, il cavallo non ha aratro, non ha briglie, non ha sella, non ha niente da trainare, però lavora al mio comando, poi io ho in mano la frusta, e tanta, ma tanta preoccupazione, di non finire in tempo il lavoro perché rendesse il massimo di quello che la terra può dare, allora ho cominciato a frustare il cavallo, sento ancora adesso il fischio delle frustate sulla sua groppa, perché andasse più veloce, il grande animale ha resistito per un po', a tratti si gira come volesse supplicarmi di non picchiare più, ma io sono rimasto impassibile ed ho continuato il mio interesse, poi quando è arrivato sopra il colle e di li comincia la discesa, ha girato la testa, guardandomi con i suoi grandi occhi e con una specie di nitrito, quasi vuole dirmi: " Non c'è la faccio più", è crollato a terra. Io sono crollato con lui, ma per la disperazione, non per la fatica, preoccupato di non finire i lavori e perdendo così il massimo della resa, sono solo nella solitudine disperata. Ho alzato un po' lo sguardo, ho visto una specie di bosco ma non è un bosco, sembra il letto di un ruscello in secca ma non è un ruscello, guardo un poco più in alto, vedo un grosso bruco di colore rosa e bianco, salendo con lo sguardo il percorso immaginario dell'inesistente rio, vedo un altro bruco dello stesso colore ma più grande del primo, penso di trovarmi al circo nel bosco, all'improvviso mi sento in compagnia di altre persone che non vedo, ma io sono il Cicerone di quel luogo naturale, incantato, allora comincio a raccontare le meraviglie di quel posto, pensate, dicevo, basta passare vicino al bruco e chiedere un paio di mucche, ti saranno date, no non è una fiaba, perché qui finisce il mio lavoro da Cicerone io ho avuto le mucche per finire il lavoro nei campi, pensate sono così brave e ben ammaestrate che non c'è bisogno della mia presenza, i lavori li

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Risveglio

L'uomo giaceva supino sul freddo impiantito della piccola caverna immersa nel buio totale. L'unica entrata era sbarrata da un grosso macigno e non vi erano altre fonti di possibile luce, nessuna finestra né uno sfiatatoio che immettesse aria dall'esterno. L'uomo giaceva esanime in quella posizione già da molte ore. Era alto più della norma, quasi un gigante, aveva capelli lunghi sciolti e il corpo martoriato da profonde e numerose ferite. La schiena, poi, portava i segni di una lacerante flagellazione. La punizione che aveva subito, secondo le usanze del posto, era stata dolorosa e di indicibile sofferenza.
Esternamente alla caverna l'aria notturna era fredda e umida, senza vento e quasi senza luna, sembrava immersa in un cupo silenzio, anche gli animali notturni tacevano come soggiogati e atterriti di far sentire la propria voce.
All'interno l'aria si era fatta stantia e pesante e ancora non era sfumato l'odore acre delle lampade a olio spente molte ore prima e il silenzio, già cupo e innaturale dell'esterno, ora appariva ancor più opprimente. Sebbene la temperatura non fosse del tutto invernale tutta la fauna e gli insetti che popolano la notte sembravano essersi volatilizzati quasi a presagire un incombente evento.
Nella caverna l'unica presenza era rappresentata dall'uomo che giaceva immobile e privo di vitalità disteso orizzontalmente sull'impiantito a secco posizionato sulla naturale levigatura della roccia.
Come da migliaia di cateratte improvvisamente apertesi l'aria inondò i polmoni dell'uomo ridandogli la vitalità perduta.
Con essa il sangue riprese a circolare impetuosamente e pochi istanti dopo anche la mente si risvegliò.
L'uomo, come colpito sul viso da un getto di acqua ghiacciata aprì gli occhi trovandosi ancora immerso nel buio. Ingoiando aria a pieni polmoni tentò invano di muovere il corpo, imprigionato nel sudario che lo copriva interamente davanti e dietro per tutta la sua lunghezza dalla testa ai piedi. Inoltre larghe fasce es

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Indecisione

Torrone classico croccante e friabile: bianco con miele e mandorle o con miele e nocciole, con nocciole tostate e gianduia al latte, alle mandorle con cioccolato extra fondente, al pandispagna imbevuto di liquore e con cioccolato fondente.
Torrone tenero: ricoperto di cioccolato mandorlato o con nocciole, al miele con cioccolato al latte, tricolore con menta, vaniglia e garofano.
Torroncini mille gusti: con arancio, pistacchio, vaniglia, limone, cedro, rosa, noce moscata, cannella, caffè, peperoncino.
Mi avevano detto che se avessi scelto il preferito liberandomi degli altri avrei avuto un 2012 di classe, pieno di tenerezza ma anche gustoso come piace a me, con punte di piccante che non guastano mai.
Non sono riuscito nell'impresa, troppo difficile per me. Mi sono nutrito centellinando queste prelibatezze e ho raccolto acqua piovana per placare la sete. Sono qui da prima di Natale. Quando avrò finito le scorte credo che non mi resterà altro da fare che gettarmi io giù dalla torre, anche se è talmente alta che non ne vedo la base...




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