L'ho saputo solo ieri.
Sono state esattamente queste le sue parole. E io, ora, le rivolgo a te : l'ho saputo solo ieri. Avrò una sorellina. Tutti mi chiedono se sono felice.
- Ehi, sei felice, Desy?
- Ehi, scommetto che sarai al settimo cielo!
- Ehi, non sei felice? Volevi una sorellina e ti è stata data!
Ehi, ehi, aspettate un attimo! Che ne sapete voi, se sono felice o no?
E'bella.
Non ho altre parole per descriverla.
Ha gli occhi blu di gatto, un nasino e una bocca e delle ditina talmente piccole che si vedrebbero meglio al microscopio.
Ho sentito le tue urla, mamma, io ero fuori dalla sala parto, c'erano due porte che ci dividevano e un corridoio stretto e lungo, ma io ti ho sentita. E quando tu hai urlato, io ho serrato gli occhi. Papà non c'era. Lui a queste cose preferisce non assistere, dice che sono "cose da donne", però quand'è ora di ficcartelo dentro non ci pensa due volte. Beh, ma solo perchè quelle, invece, sono cose da uomini.
Ho serrato gli occhi e stretto i denti e per un momento mi è sembrato di percepire il tuo dolore. Mi sono sentita squarciare in mezzo alle gambe come se un asse metallica avesse colpito dritto dritto lì, con un colpo secco, ben assestato. Mi sono portata la mano alla pancia e ho avuto paura per te. Mi sono chiesta : e io, mamma, quanto male ti ho fatto? Mi sono sentita in colpa. Mi sono approfittata di te, lo sai? Ho invaso il tuo corpo di bambina e ti ho reso adulta, ti ho fatto dannare per i tuoi chili in più e per i vestiti che non avresti avuto più modo di indossare. Ti facevo venir voglia di qualcosa nei momenti più inopportuni, più sbagliati, apposta, per farti sapere che c'ero, che ero lì, dentro di te, e che avevo bisogno di attenzioni. Ho preso dimora nel tuo ventre e scalciavo, ogni volta, prima di dormire per trovare la posizione più comoda, giusta. E tu non mi hai mai detto niente. Mai un rimprovero. Volevo stare a lungo dentro di te, mamma, là dentro stavo al sicuro, sempre con
Con questo termine si possono intendere svariate cose. Nel caso della depressione può trattarsi di uno dei modi per provare a definire quella sensazione di vuoto esistenziale che induce molti a farla finita, insieme alla sofferenza che l'accompagna. Bisogna anche tenere a mente i vari livelli di depressione. In caso di depressione grave quel senso di desolazione lo si prova indifferentemente da qualsiasi fattore esterno, altrimenti sono proprio questi fattori a far si che la desolazione raggiunga livelli similmente critici. Io soffro di una depressione persistente da circa un decennio, ma solo la mia situazione personale può aver contribuito a scatenarla e protrarla fino ad oggi. È desolazione quando intorno a me è rimasta solo mia madre: nel giro di una dozzina d'anni ho avuto diversi lutti familiari, la perdita definitiva di qualunque amico, lo sfumare di qualsiasi ambizione sentimentale (almeno in merito a quelli che dovrebbero essere gli anni della gioventù), la perdurante disoccupazione che tinge il mio futuro di tinte sempre più fosche. Mi sento un peso morto della società, un fallito troppo svuotato di energie per tentare solo di continuare a tentare d'imboccare l'ennesima via d'uscita. Se mi guardo intorno vedo fin troppe persone realizzate, con vite complete e con un senso compiuto.
Ogni volta che rifletto lucidamente sulla consistenza effettiva di questo senso di desolazione, sento che non dovrei più esitare a prendere un coltello e affondarmelo in gola, ma mi trattiene sempre il senso di colpa nell'infliggere ulteriore dolore a mia madre, che già soffre a sapermi infelice, ma che non può fare a meno di spronarmi a reagire come ha sempre fatto: a suon di pungolate risentite e inducendomi a moltiplicare gli sforzi per cercare lavoro (anche se spesso si tratta della prospettiva di lavori schifosi, che ridurrebbero gli anni universitari a mero tempo sprecato). Ogni volta che accade finiamo col litigare e l'impulso di farla finita torna irruent
Quando parlo con qualcuno dico sempre: -Tanto ci sono abituata a stare sola. La cosa più ingiusta è ripetere quella frase a me stessa. La verità è che non ci si abitua mai. Non puoi abituarti a restare sola. Nessuno merita una cosa così brutta. Ogni volta che si arriva al punto in cui qualcuno ti abbandona, ogni volta provi la stessa tristezza della volta prima e puoi spiegarlo al mondo intero come ti senti ma mai nessuno capirà il vuoto che senti dentro. Hanno sempre mille scuse e mai nessuno che ci provi a mettersi nei tuoi panni. Arrivi a un punto in cui ti arrendi, anche se non vorresti, lo fai perché tanto sarà sempre la solita delusione. Non ti cerca mai nessuno per "un caffè" e mai nessuno ti chiede realmente come stai, ma non illuderti non ti ci abituerai mai. Ti arrendi e basta. Ti senti schiacciata da tutto e tutti perché stare sola è la cosa più brutta che ti può capitare. Non riesci nemmeno a urlare la tua frustrazione, ma solo a nasconderla. Io scrivo. Io scrivo ma non mi basta più, non più. Vorrei uscire, gridare al mondo la mia voglia di vivere ma ormai mi sento così sola che la voce mi si blocca in gola e la ingoio. Va giù così lentamente che mi sento soffocare. Qua nessuno si salva da solo. Non ti ci abituerai mai. La musica non mi basta più. Avrei solo bisogno di un abbraccio e di qualcuno che mi dicesse: -Lotteremo insieme. Bisogna solo essere forti e realizzarsi col freddo che ricopre il cuore per poter dire un giorno: -Ho voglia di vivere questa vita! È dura ma io non mi arrendo, perderei anche me stessa.
Singolari successioni di nuvole e orecchini a scandire con sconcertante regolarità il tramonto stigeo di comete e canzoni, come una semplice carezza del vento per riduzione al massimo comun divisore. Fantasmi evocati dallo stesso fiume che quotidianamente mi nutre. Sulle cui rive rivolgo preghiere a predatori e camper per veder vomitati piercing rigati sul mio pallore, per vedere dipinti di paesaggi e costellazioni in tinta vermiglia. Eppure forse non sono appetibile, forse non c'è spazio per il mio niente sopra il loro caminetto. Troppo lontano dalle scatole di cartucce crioconservate, al riparo dal tepore dei sussurri e degli accordi major-seven. Dalle facce scavate da secoli di scrivanie e brioche a transitor, rese inespressive dagli abbaglianti dei loro fabbricanti di sogni.
Così aspettano al varco, mimetizzati tra fronde di salici di martirio, in agguato come le serpi spettinate contro cui ci mettono in guardia. Aspettano il momento in cui gli astri, timidi, si rivelano e ci concedono le labbra. Non un muscolo si contrae mentre premono il grilletto e osservano, giurerei con intima voluttà, i traccianti che stuprano il silenzio e il bersaglio designato, lasciando memorie affrescate di fondotinta e malcelata miseria.
Occhi sbarrati che mi fissano, mentre la luce marcisce e nell'ultimo spasmo già intriso di formalina le labbra imprimono il loro sigillo incandescente sulla tavola vergine di un "avrei voluto". Risposte che rovinano al suolo senza riuscire a rischiarare la nostra agonia. Nemmeno una goccia di angoscia che abbia il coraggio di separarsi da me e fondersi al terreno che diviene arido al loro incedere.
Raccolto il prezioso trofeo e aggiunta l'ennesima tacca mi strizzano l'occhio, i sensi eccitati dal fuoco dell'assassinio, il bossolo fumante lasciato a mo' di marmoreo memento da riempire per un brindisi alla mia pena. Poco più in là i loro marmocchi sintetici giocano con le ossa dei miei cadaveri e intonano mantra di noia incosciente.
Sotto le finestre del primo piano, il fiume melmoso di auto suoni lampeggianti stridori andava scemando.
Gli ultimi tram arancioni sfrigolando lanciavano scintille tiepide nella notte. La città si stava allestendo per il Santo Natale.
Le tende scostate appena erano di uno scuro velluto rosso, pregne di polvere e fumo.
La donna, gli occhi fissi come quelli delle sentinelle, stava immobile appoggiata, aggrappata alle tende, così in silenzio, sola nella stanza, pietrificata nella notte; non aspettava nulla, cosa c’era da aspettare, non c’era nulla da aspettare, era tutto finito.
Respirava lenta quell’odore pungente di polvere e fumo che si staccava dalla tende, ogni volta che la sua mano premuta sulla stoppa tremava in minuscole scosse.
Sotto forma di particelle invisibili agli occhi, la donna respirava incurante quella nebbia di polvere e fumo.
Il rumore ovattato oltre le vetrate sembrava il rimbombo di un cuore, la vena che pulsa senza stancarsi su per il collo, nelle tempie.
Non stava guardando niente di particolare, cosa ci sarebbe stato da guardare d’altronde, in quel groviglio di buio (un fondale finto di cartone, una scena di teatro) qualche lampione troppo alto, le macchine rare che sfrecciavano elettrizzate, e graffiate di nuvole grigie.
Nessuna finestra accesa di fronte, dove sarebbe stato possibile sbirciare la vita. Nessuna sagoma nel marciapiede di sotto. Solo la notte cocente dell’inverno in quella città sconosciuta.
Sconosciuta, ma la migliore per la loro faccenda. Forse cara, ma tutto era andato senza problemi, nessun intoppo, perfetto.
La donna, senza scostare lo sguardo da quel niente così attentamente scrutato, prese una sigaretta dal tavolo affianco e l’accese.
Ala polvere e al fumo stantii delle tende, ci aggiunse il vapore fresco e un po’ acido della prima boccata.
Ci resteremo anche domani, me l’ha promesso, certo, in questa città che già odio, che odiavo pria ancora di venirci.
Ha detto che mi porterà a veder
E mi chiedevo se sarei mai stata felice. Poi pensavo che la maggior parte delle persone si chiede questo almeno una volta nella vita senza ottenere risposta. Una domanda senza replica mi univa a milioni di persone: ma il legame andava oltre. La mia esistenza umana e tutto quello di buono o di cattivo esiste mi legava agli altri? Gli altri chi... Einstein, Leopardi, Marconi, Flaubert, Giovanni Paolo II, un bambino in Africa, un pastore sardo, un insegnante irlandese, un monaco buddista... chissà se loro erano riusciti a definire la felicità... per lo meno a spiegare a se stessi l'oggetto per il quale faticavano, respiravano, amavano ogni giorno. Io dopo ventitreenni non ci ero ancora riuscita; ma non sapevo neanche se la cercavo, mi impegnavo, faticavo per sfiorare almeno l'idea di lei, della Felicità...
Spesso mi veniva in mente un flash del mio passato... avrò avuto 8-10 anni non ricordo bene ed era festa nel mio paese... una festa che attirava i bambini per via delle giostre. Le mie sorelle vi si recarono ma io mi rifiutai; sentivo solo una grandissima tristezza che mi opprimeva come un macigno. Mi sedetti sul marciapiede raggomitolata a guardare il tramonto e mi sentivo molto triste, davvero. Quasi inconsapevolmente non mi rendevo conto di questo micro-dolore che germogliava in me; sapevo solo che era lì che dovevo stare, era quello il posto giusto e nessun altro al mondo quello che in cui dovevo essere. Dovevo assistere il sole nella sua fase terminale, nel suo morire... ed anche se l'angoscia mi faceva compagnia, non lo vivevo come un problema... vivevo e basta... era il mio modo di vivere.
Guardando questa scena di vita remota con gli occhi di oggi posso concludere che quel giorno di fine estate, quando i bambini sono tutti felici perché non c'è la scuola, possono uscire andare sull'altalena e mangiare zucchero filato, piangere per un capriccio, io mi sono auto esclusa dalla vita, dall'azione, dal condividere il proprio tempo con gli altri. Prefer
Sola, riconduco le lacrime sulle guance. Triste, il mio viso prende forme diverse all'evolversi dei miei pensieri. Cosa dovrei fare per salvarmi da questa malinconia violenta? Mi trascina sempre più a fondo in questo baratro. Non so cosa fare, se non scrivere. Dimentica delle mie gioie più vere, resto abbandonata tra i ricordi fino a poco tempo fa puro presente. La solitudine di un mondo che continua a girare, mentre io ferma respiro senza porre sguardo su null'altro che me. Allo specchio infrango muri di vergogna e nuda piango, bianca e senza sole che mi colori. Uno schermi che mi osserva neutrale, rivoglio persone che mi guardino straniti dalla ragazza sorridente. Bagnato dalla pioggia, l'asfalto non è solo. Irrigato da mani buone, la terra non è sola. Il cielo ha le sue nuvole, l'acqua le sue creature, la luna le sue stelle. Ma io non ho diritti. Sola, riconduco le mie lacrime sulle guance fredde.
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