Dal grembo scalpitante germogliai,
di due madri
che all'invisibile strisciare della storia,
dignità e linfa sottrassero,
velocità e produzione avevan nome,
e la missione scolpita nel respiro:
affiancare le persone,
oltre le persone andando,
sbuffanti, poderosi marchingegni addestrati
a recitare la laica, stritolante preghiera,
al dio silente e matematico
dell'efficientismo e del mercato.
Mortale fu e sa essere il pensiero
che l'idea del lavorare comprime
a un esile bottone da schiacciare,
mi rivela lo specchio del progresso,
svergognato automa
che a null'altro mai più dovrà pensare,
che a una semplice leva da spostare.
Imprigionato è sempre il mio sudore,
ostaggio inascoltato ormai,
di questa macchina
e del suo accecante, impersonal bagliore,
nel lago avverto di annaspare
abulico e impotente
dell'urlante equilibrismo
d'un malinteso e malimpersonato capitalismo.
Sarà forse questo, caro cuore
il prezzo da dover pagare,
per l'operaio orgoglioso
che umiliato e stanco si ritrova
come il suo vecchio cartellino da timbrare?
Quanto vicino è il pendio traditore
di quel confine tra dignità e non dignità
cui il mio ormai indiretto produrre mi conduce,
l'impronta occultandomi per sempre,
della mia competenza e creatività?
Si rinchiude ombroso il sorriso,
come i cancelli della fabbrica
al ritmo del canto sciabordante della sera,
traccia e strada è quella sola stella
che mi nutre d'empito marxista.
Che il lavoro possa essere poesia,
non ostaggio di una sorda borghesia,
che più non sia un miraggio straordinario,
percepire un equo salario.
La chiameranno forse ideologia,
forse banal sovrastruttura,
ma sempre io la vedrò e concepirò
come spada per trafigger la paura.
Macchinario, mai saprò io maledirti
creatura cesellata
dalla nuova economia,
ma lotterò, star certo tu ne puoi,
perchè il posto mio sempre sia valore,
e non la firma incandescente,
sulla vita d'un uomo
che lento e ignaro muore.