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di lingua madre
"Si adopera l'infinito, il gerundio passivo..."
Poi arrivò anche il gerundivo
insieme con la prima barba
di adolescente.
Ma prima,
quell'aprile
vento di chiesa diroccata di San Vito
sotto un sole deciso
tutti insieme un asparago ciascuno
un mazzetto per il professore
padrone dell'analisi logica
amico di nessuno
principe della storia
dei libri piemontesi
dei libri di sinistra
dei libri,
"Chi parla di Cavour?"
il sole batteva a buccia d'arancia
sulla polvere dell'orto del bidello.
Rimpianto dell'anno scorso
quando tutto era diverso...
Gino dal maglione sporco e portava solo quello
refezione di pasta e patate
padre in Germania e madre sciatta,
non c'era più.
La penna rossa, il cappotto del maestro,
il filo di fumo delle sue "stop"
la sua cravatta dall'odore vero.
Analfabeta di lingua madre,
sognavo portenti
con animo sincero
devoto alla corte dei potenti
assaporavo il mio talento
e presagivo la gloria
come il Castriota alla corte del Sultano.
E invano, invano
il treruote si fermò davanti a casa mia
una breve avaria
forse l'ultima occasione.
I registri in bella grafia
della mia storia
composti con cura di funerale
quella precisione maniacale
di guardie municipali
del Sette dell'Ottocento
sfuggiti alla furia
dei vescovi integralisti
unici scritti
della nostra storia.
Qualcuno diede un calcio ad una ruota
e si fermo' per comperare il pane
non so
il tempo della mia impotenza
avrei voluto
avrei voluto conservare
sapevo che li andavano a buttare
invece solo ebbi modo di leggere
di un uomo preso a calci al basso ventre
da un suo parente
del mietitore morto nel sonno, da riportare a Bari
di uno straniero evirato a carnevale
- un giovane robusto, di passaggio -
figlio di madre,
fra donne sghignazzanti come arpie.
Dissanguato, morto.
Annotazioni asciutte, commentarii.
Frasi riportate a cartacanta
in italiano buono, traduzioni
da un idioma ricco.
Io avrei voluto
c'era spazio
capivo.
Mi fidavo dei grandi, però.
I libri erano cento, forse,
uno per ogni anno.
Vita che non c'è più,
polvere d'orto.
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