Affamata di vita,
vagavo ferita
tra i rami d'un tramonto.
Sull'esile cerbiatto
lei stava china.
Il suo sguardo severo
arrossì in me
l'ardito pensiero
di potermi
anch'io allattare al suo seno.
Se pur d'un castigo
intuivo la sposa,
lei era: così luminosa, che
non pensai e senza farmi vedere
presi a seguirla lungo la sera.
Sfuggente sparì nella notte
come d'inverso a una luna
che si confonde all'aurora.
Solo dagli occhi di chi vuol
vedere, si lascia guardare.
Io ero: assetata della sua luce
e nella rugiada la seppi trovare.
Dipinta di gocce, ancora dormiva;
il suo letto d'uva pareva un altare.
Mi sdraiai dinnanzi a lei
ed il polso le sollevai
per muta adagiarlo
nell'incavo
del mio pallido fianco.
Il respiro calmo
soffiò via la ferita,
ma mentre il vento
curava, il battito
forgiò una catena.
Con la mano l'accarezzavo:
le cosce, la schiena.
Salii fino alla voglia
che aveva sul collo, poi
i folti capelli tra le mie dita.
Baciai le sue labbra,
non come
si bacia una foglia
per ricordarmi che
una volta, un'alba,
anch'io
ho amato la Vita.