È soffio ineffabile da benedire,
e dono di cui tramortire
il peso lacerante del decomporsi,
questa voce a cui Dio concesse,
d'entrare in un leggiadro corpo d'ebano;
illudono, le luci del palcoscenico,
ti fanno possedere l'affetto del mondo,
nello spazio sfuggente di uno sguardo,
poi ti abbandonano
in un angolo di strada accecato dal buio;
lo star system
che mi volle figlia da coccolare
e poi figliastra da ripudiare,
tutto lesse di me,
tutto, sì,
tranne quel libro inacidito e traditore,
che si componeva
indiavolato eppur silenzioso,
negli abissi inesplorati della mia anima,
il volume stritolante della depressione:
cantare era la liberazione suprema,
dai vincoli di questo nostro trascorrere,
non udii mai
la sua velenosa metamorfosi,
mentre mi comunicava che una sola droga,
uccide davvero l'esistenza,
la droga impalpabile e meschina dell'indifferenza.
Non gemete,
dischi che mi foste padri e figli,
incisioni prima imperiose e dopo stanche,
che foste forse soltanto
i miei autentici nascondigli,
da una vita di cui percepivo,
la violenza inscalfibile di un suono;
canzoni mie,
che a me vi rivelaste,
conca di tenerezza,
e simulacro di amarezza,
vi lascio la missione di riscaldare
i cuori di chi mi vorrà ascoltare;
riluceranno bagliori nuovi,
che mi vedranno spettatrice dalla luna,
che quelle note che mi fu dato di donarvi,
siano forza per la vostra fortuna;
caro palco,
che cambiasti nome cento, mille volte,
spero tu sappia conservare davvero,
il profumo delle mie emozioni,
così vere e così traballanti;
la vita percorrere mi ha fatto,
quarantotto strade dorate,
su cui ho posato i miei acuti ruggenti,
ma anche l'impronta dei miei fallimenti;
e ora giaccio in questo mare
dove il canto somiglia a una preghiera,
accendete lo stereo e regalatemi un respiro
e ci incontreremo sempre,
nella magia di ogni sera.