Olezza di rimpianto e ingiustizia,
di cellule che mi hanno tradito,
la cella che schiaffeggiato mi vide,
da un esistere ormai non più esistere.
Perchè tutto questo,
perchè, Silvia e Gaia,
diademi adorati
fioriti nel lago del mio amore
orgoglio del mio procedere
tra riflettori e giornalismo
che poi dovettero inchinarsi
al mio dovere di ritrovare la vita?
Tu, pappagallo simpatico e luminoso,
Portobello dei miei sorrisi e delle mie ironie,
star di quel mercato pazzerello,
di cui qualcuno mi volle padre;
benedico il tempo,
che mi donò a una televisione,
in cui polemiche unte di nefandezza,
sguaiate come latrati di cani inferociti,
restavano impotenti nell'ombra,
e il vero spettacolo respirava.
Ehi, Portobello,
parlerai un giorno,
come mille volte negasti
a mille fischi che intendevano sedurti?
Figlie mie,
ho chiesto a Dio che le vostre pene,
trafiggano i confini dell'insolenza,
che la vita riservò a quest'uomo per bene;
credete,
vi insegnai ad amare quel rispetto e legalità,
che mi voltarono le spalle,
in un attimo di impazzita realtà.
Ecco, vedete,
cosa resta di quel padre che vi adorò?
Solo unti, ipocriti,
velenosi ritagli di giornale,
che cercarono di disegnarne un criminale.
Ricorderete, quando così,
senza clamori nè rumore,
presi le ali e volai via,
morso dai fantasmi di fuoco del tumore;
Portobello, lo so,
un giorno o l'altro parlerai,
e saprai urlare a non finire,
che Enzo Tortora ero,
uomo per bene,
che il cancro di una cieca, deforme giustizia,
scelse di condannare a morire.