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Nyarlathotep
pagine: 12
Nyarlathotep : il caos strisciante. Io sono l'ultimo, e parlerò al vuoto in ascolto.
Non ricordo quando la cosa ebbe inizio. Mesi or sono? Anni? So che a un periodo di sconvolgimenti politici e sociali s'andava aggiungendo la strana e cupa apprensione di un orrendo pericolo fisico; un pericolo diffuso che comprendeva tutto, un pericolo quale può essere immaginato solo nei più atroci incubi notturni. Ricordo che la gente si aggirava con facce pallide e preoccupate, sussurrando avvertimenti e profezie che nessuno osava poi consapevolmente ripetere o riconoscere di aver udito. Un mostruoso senso di colpa gravava sulle città della terra, e dagli abissi interstellari sembravano giungere fredde correnti che facevano rabbrividire chi si trovava in posti bui e solitari. Vi era una diabolica alterazione nel corso delle stagioni, e da noi un caldo autunno indugiava paurosamente, dando l'impressione che il mondo - forse l'universo - fosse sfuggito al controllo delle divinità note e delle forze conosciute.
Fu allora che un'incarnazione di Nyarlathotep uscì dall'Egitto. Chi fosse nessuno poteva dire, ma era del più antico sangue indigeno e aveva sembianze di faraone. I fellah si inginocchiavano al suo cospetto senza saperne il motivo. Diceva di essere emerso dal buio di ventisette secoli e di aver udito messaggi venuti da luoghi estranei al nostro pianeta. Olivastro, snello e sinistro, egli venne nei paesi della civiltà e, dove egli arrivava, la quiete svaniva e le ore notturne erano lacerate dagli urli degli incubi.
Ricordo quando giunse nella mia città, la grande, vecchia, terribile città dai crimini infiniti. Perdurava, innaturale, il caldissimo autunno e fu in quel caldo soffocante, con una grande moltitudine di gente inquieta, che io andai da lui. Camminammo, interminabilmente, nell'interminabile crepuscolo. Raggiungemmo l'altissimo edificio di pietra. Salimmo per scalinate senza fine. In alto, egli ci attendeva in una sala vuota. Lo guardammo, ma egli non ci guardò. Ci preparammo ad ascoltarlo, ma egli non parlò. Udimmo solo un gorgoglio indistinto, mentre il vuoto intorno a noi si popolava delle oscure immagini delle sue profezie. Vedemmo forme incappucciate tra rovine. Vedemmo facce mostruose che si contorcevano, scrutandoci da antiche soglie o spuntando da dietro i monumenti caduti. Una voce che non veniva da nessun luogo ci avvertì che ora le profezie si stavano avverando. Guardammo ancora, e vedemmo il mondo lottare contro le tenebre, contro le onde rovinose venute dall'estremo spazio, in un disperato e vorticoso ribollire del sole che si oscurava e perdeva calore.
Pensai: ora? Pensai: in questo caldo autunno? Risi, e altri risero con me, e tutti, allora, ci spingemmo fuori, giù per le scale vertiginose, nelle umide e calde e deserte strade di mezzanotte. Urlai forte che non avevo paura, che mai avrei avuto paura, e gli altri gridarono con me per confortarsi. Ci assicurammo l'un l'altro che la città era rimasta la stessa, insopprimibile e viva.
Poi, quando di colpo tutte le luci delle strade si spensero, ci fermammo a lanciare divertite ingiurie contro la compagnia elettrica. Ma io credo che allora sentimmo qualcosa calare dalla luna verdastra: perché, quando cominciammo a rivederci l'un l'altro al suo chiarore, come per una tacita intesa ci dividemmo in curiose formazioni di marcia e ci parve di conoscere le nostre mete, anche se non osavamo rappresentarcele.
Ad un certo punto, qualcuno nel nostro gruppo gridò di guardare il selciato e, guardando, vedemmo le lastre smosse e scostate dall'erba. Solo una traccia di metallo arrugginito mostrava l'antico percorso dei tram. Vedemmo pure una vettura malconcia, senza vetri, rovesciata su un fianco. Quando volgemmo lo sguardo all'orizzonte, non ci riuscì di trovare la terza torre presso il fiume; notammo invece che la sagoma della seconda torre era sbrecciata sulla cima, Allora ci dividemmo in più piccoli gruppi, e subito ciascuno di questi fu trascinato in una direzione diversa: uno scomparve in una stretta via sulla sinistra, lasciando dietro di sé appena l'eco di un gemito; un altro s'inabissò in un'entrata della metropolitana ostruita dalle erbacce, ridendo di un riso fragoroso e pazzo; il mio gruppo fu risucchiato verso l'aperta campagna.
Ora sentivamo un gelo che era anche, ma non era soltanto, quello dello sgomento e del terrore. Infatti, avanzando ancora, scorgemmo d'un tratto intorno a noi l'infernale luccichio della neve, Inesplicabile neve, intatta, spazzata in un'unica direzione: verso un nero abisso, che appariva ancora più nero per contrasto con le sue pareti scintillanti. Io ero l'ultimo del mio gruppo, e vidi gli altri scomparire ad uno ad uno nel baratro. Sull'orlo indugiai ancora, o mi parve di indugiare. Il nero crepaccio, tra le nevose pareti dai riflessi verdastri, era orrendo, ma non mi fu possibile protrarre quell'illusione di sosta. Come chiamato da quelli che erano andati avanti, e insieme sospinto da titaniche raffiche di neve, mi gettai nel vortice cieco dell'inimmaginabile.
Se caddi con un urlo inconsapevole oppure in un muto delirio, soltanto gli dei che furono potrebbero dire. Io non sono più che l'ombra, ormai, di un'ombra che si contorce in mani che non sono mani, che rotea cieca oltre le spettrali notti di una creazione putrescente, tra cadaveri dì mondi morti, con piaghe che furono città, venti sepolcrali che spazzano pallide stelle e ne attenuano il chiarore e, oltre i mondi, vaghi fantasmi di cose mostruose: templi nefandi dalle gigantesche colonne che poggiano su rocce senza nome al di sotto dello spazio e che raggiungono vuoti vertiginosi al di sopra delle sfere di luce e di buio e, onnipresente, incessante, in questo ripugnante cimitero dell'universo, il sordo rullio dei tamburi e il monotono lamento dei flauti blasfemi che qualcuno suona ancora in inconcepibili stanze senza luce, al di là del tempo, e al cui ritmo danzano goffi, tenebrosi e giganteschi, gli ultimi dei: i ciechi muti stolidi mostri la cui anima è Nyarlathotep.
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