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La lotteria a Babilonia

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Come tutti gli uomini di Babilonia, sono stato proconsole; come tutti, schiavo; ho conosciuto anche l'onnipotenza, l'obbrobrio, le carceri. Guardino: la mia mano destra è monca dell'indice. Guardino: per questo strappo del mantello si vede sulla mia carne un tatuaggio vermiglio: è il secondo simbolo, Beth. Le notti luna piena, questa lettera mi conferisce potere sugli uomini il cui marchio è Ghimel, ma mi subordina a quelli di Aleph, che nelle notti senza luna debbono obbedienza a quelli di Ghimel. Sul crepuscolo del mattino, in un sotterraneo, ho sgozzato tori sacri dinanzi alla pietra nera. Per tutto un anno della luna, sono stato dichiarato invisibile: gridavo e non mi rispondeva rubavo il pane e non mi decapitavano. Ho conosciuto ciò che ignorano i greci: l'incertezza. In una camera bronzo, davanti al laccio silenzioso dello strangolato ho avuto speranza; nel fiume dei piaceri, paura. Eraclide Pontico riferisce con ammirazione che Pitagora ricordava d'essere stato Pirro, e prima di lui Euforbo e ancor prima un qualche altro mortale; per ricordare vicissitudini analoghe, io non ho bisogno di ricorrere alla morte, né all'impostura.
Debbo questa varietà quasi atroce a un'istituzione che altre repubbliche ignorano, o che opera in esse modo imperfetto e segreto: la lotteria. Non ho indagato la sua storia; so che i maghi che ne ragionano non sono giunti a un accordo; so dei suoi scopi poderosi ciò che può sapere della luna l'uomo non versato in astrologia. Sono di un paese vertiginoso dove la lotteria è parte principale della realtà: fino ad oggi, pensai così poco ad essa come alla condotta degli dèi indecifrabili o del mio cuore. Ora, lontano da Babilonia e dai costumi che amo, penso con qualche stupore alla lotteria, e alle congetture blasfeme che mormorano nel crepuscolo gli uomini velati. Mio padre raccontava che anticamente - anni addietro? secoli? - la lotteria fu a Babilonia un gioco di carattere plebeo. Diceva (se sia vero non so) che i barbieri distribuivano, in cambio di monete di rame, rettangoli d'osso o di pergamena ornati di simboli. Il sorteggio si faceva di giorno: i favoriti ricevevano, senz'altra convalida del caso, delle monete d'argento coniate. Come vedono, il procedimento era elementare. Naturalmente, queste "lotterie" fallirono. La loro virtù morale era nulla. Non si rivolgevano a tutte le facoltà dell'uomo: solo alla sua speranza. Aumentando l'indifferenza del pubblico, gli affaristi che avevano fondato queste lotterie venali cominciarono a perdere il denaro. Qualcuno tentò una riforma: l'interpolazione di poche sorti avverse tra il numero di quelle favorevoli. In virtù di questa riforma, gli acquirenti di rettangoli numerati si mettevano al duplice azzardo di riscuotere un premio e di pagare una multa a volte ingente. Questo tenue rischio (per ogni trenta numeri favorevoli ve n'era uno disgraziato) risvegliò, com'è naturale, l'interesse del pubblico. I babilonesi si dettero massa a questo gioco. Chi non acquistava sorti era considerato un pusillanime, un dappoco. Col tempo, questo disprezzo crebbe a includere non solo quelli che non giocavano, ma anche quelli che avendo giocato, e perduto, si rassegnavano alla conciliazione dell'ammenda. La Compagnia (così si cominciò allora a chiamarla) dovette vegliare sugli interessi dei vincitori, che non potevano riscuotere i premi se mancava nelle casse l'importo quasi totale delle multe. S'intentarono processi ai perditori che non pagavano: il giudice li condannava al pagamento della multa e delle spese, o a qualche giorno di carcere. Tutti, pur di defraudare la Compagnia, optarono per il carcere. Da questa bravata di alcuni nacque l'onnipotenza della Compagnia - il suo valore ecclesiastico, metafisico.

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