“lei è già stato innamorato, non è vero? Più di una volta, non è vero?
Si, si, ma non sa ancora cosa sia l’amore. Non lo sa, le dico. Una volta magari avrà pianto per tutta una notte? E dormito male per un mese intero? Magari avrà scritto delle poesie e una volta o l’altra avrà giocato un pochino con l’idea del suicidio? Si lo so com’é. Ma questo non è amore, sa. L’amore è un'altra cosa.”
Hermann Hesse; “sull’amore”, pagina 85
1
Notte, piove.
Gocce pesanti battono forti sull’unica finestra dell’appartamento al quinto piano di un fatiscente palazzo. Sto appoggiato al vetro, oltre vedo tutto il golfo di Palermo, le luci delle navi ormeggiate oscillano con paurosi rollii sotto i colpi delle onde che sconvolgono il mare. Grandi, cinte da creste di spuma bianca che s’alzano con spettacolari spruzzi verso il cielo nero quando impattano sui moli deserti. In lontananza risplende la luce intermittente di un faro.
- Non riesci a dormire?… guarda che domani dobbiamo lavorare, cerca di riposare.
La voce assonnata di Saverio si diffonde ovattata nell’ambiente saturo del rumore continuo della pioggia; rimane invisibile nel buio della stanza. Ritorno sul tavolino dove ho smontato il mio fucile, anche al buio ne riconosco ogni sua parte spigolosa, un odore particolare, semplici sfumature come la vita.
- Lo sapevo, tornare dopo tanto tempo ha risvegliato qualche ricordo, vero?
- Si.
Saverio ora è in piedi. Si avvicina al piccolo frigo che sta nell’angolo tra l’armadio e il muro, tira fuori una birra che svuota con lunghe sorsate, poi lo sguardo va oltre la vetrata. La zona nord della città è una lingua di terra circondata dal mare, fanno senso i palazzi del litorale illuminati come giganteschi alberi di natale in cemento armato, le strade immerse nel traffico. Una nostrana, squinternata, Las Vegas che incurante della tempesta sembra voler cercare uno svago ad ogni costo.
- Anche la sera in cui siamo partiti c’era una tempesta, pioggia, vento e rimorso; non dirmi che ci pensi ancora?
Non gli rispondo. Lui fa finta di nulla e torna a sdraiarsi, ci mette un attimo per addormentarsi. Neppure il fragore dei tuoni sembra infastidirlo. Io invece non lo sopporto: come invidio la sua beatitudine! Questo posto risveglia in me troppi ricordi, un giuramento che tengo chiuso nel profondo del mio animo, nel suo angolo più oscuro, un debito non ancora risolto. Rimonto tutti i pezzi del fucile e lo ripongo in una borsa metallica rosso che sa tanto di inoffensiva cassetta degli attrezzi. M’infilo nel letto, chiudo gli occhi, ascolto il suono della pioggia, dei tuoni, del vento. Come un’antica ninna nana, mi addormento sperando di non sognare.
Un autobus in movimento, due file di sedili, i compagni della 1° A. Sono nuovamente in questo luogo.
- Lasciami in pace, non ti voglio!
Nelle orecchie rimbalza ancora quella voce, dura, carica di rancore; fa male sempre allo stesso modo. S’aggiungano poi gli sbeffeggiamenti dei compagni di classe, non sanno quanto le loro parole diano furore alla tempesta di emozioni che mi sta sconvolgendo. Il sunto ultimo di quel turbine emotivo è uno solo: odio. Non pensavo che un sentimento tanto diverso potesse essere forte e devastante quanto l’amore, né che avrei potuto odiare qualcuno con tanta forza, cosi determinato da poterne desiderarne la morte, ora, immediata, e provarne godimento. Bastava guardarla abbracciata con un altro, tre sedili più avanti a me. Si stringevano, baciavano, bocca nella bocca, lingua su lingua. Lei sorride divertita rivolta verso di me, come a prendendosi gioco del mio dolore. Dentro l’odio crebbe ancora, divenne una da supplicare a Dio, o il Diavolo, chiunque potesse esaudire il mio desiderio di morte.
- Guardate Marco, che faccia!
- Ti piacerebbe essere al posto di Giorgio, vero?
- Invece stai qua a roderti mentre loro sì divertono…
Scostai tutti e tre con una spallata, uno di loro ruzzolò a terra nello stretto corridoio ricavato tra le due fila di sedili. Protestarono ma io già non ascoltavo più le loro voci, sentivo solo il fuoco dell’odio, “Devono morire tutti!”. Mi diressi verso la parte anteriore dell’autobus, percorrevamo sulla strada litoranea, il sole scendeva a picco sul mare calmo, con i suoi colori smorti. Sembrava una fantastica cartolina pubblicitaria, di quelle che si propinano ai novelli sposini in viaggio di nozze. Il volto di Mario, l’autista, non aveva poi tanto di così romantico, colorato da quei toni, appariva più simile ad un novello Caronte che guida la sua barca carica d’anime dannate. Nei sedili accanto la prof. Mania dorme stressata dal viaggio… buffo nome il suo, vero?
- Che cosa succede Marco, guido troppo veloce?
- No, mi piace la velocità.
- Vedo che la dietro i tuoi compagni si stanno divertendo!
Tirò su lo sguardo allo specchietto laterale che inquadrava parte dei sedili posteriori. Giorgio e Silvia che si baciavano avvinghiati. Dietro ancora i tre i volti beffardi che mi prendevano in giro, sbeffeggiavano il mio dolore. Ridevano di me!
- Marco dovresti stare anche tu la dietro a divertirti, non hai la ragazza?
- No.
Bastò poco. Non avrei mai creduto che potesse essere così facile, bastava seguire la voce dell’odio e tutto avvenne, senza tanti tentennamenti. Diedi uno spintone al braccio destro di Mario, il volante fece quasi un giro prima di fermarsi. Mario mi fissò con occhi grandi e increduli, quasi cercasse di quantificare la realtà di quel gesto attraverso la mia immagine, uno sguardo che esprimeva stupore e paura, incredulità e disperazione… bellissimo! Ricordo che gli sorrisi prima dello schianto.
2
Il mattino.
Sally fissò preoccupata la rampa di scale che scendeva verso la strada: tre scalini larghi ma ancora coperti da un fine patina d’acqua piovana. Sospirò, con un preciso movimento delle braccia puntellò le stampelle in modo da far poggiare sul gradino prima la gamba destra e poi quella sinistra. Nel medesimo modo, bilanciando attentamente i sui movimenti, scese sul secondo gradino.
( Non sembrava così difficile... prima ), pensò mordicchiandosi il labbro inferiore. Barbara le stava accanto seguendo con apprensione ogni movimento. Avrebbe desiderato prenderla sotto braccio ed aiutarla a scendere con calma, ma le rimbalzava in testa il severo rimprovero che s’era presa la prima volata che aveva provato ad aiutare l’amica. Sally non voleva l’aiuto di nessuno, si aspettava di essere trattata esattamente come prima di subire l’incidente, non intendeva ridiscutere in futuro quella decisione. Anche il terzo gradino fu saltato in un attimo; Sally guardò raggiante l’amica.
- Andiamo?-, chiese sorridendo Barbara nascondendo la sua apprensione.
- Certo!
Lentamente iniziarono a percorrere Via Roma. Il fresco dei suoi portici e il viale alberato, che divideva i due sensi di circolazione, erano ancora più godibile in quell’Agosto caldo che stava soffocando Palermo. Nel cielo limpidissimo il sole risplendeva alto e forte, non rimaneva alcun segno della paurosa tempesta della sera prima tranne che per il profumo pungente di terra bagnata che il docile vento di scirocco spargeva per aria. Le strade del centro erano invase da passanti e biciclette, per la seconda domenica consecutiva il sindaco aveva ordinato il blocco della circolazione di tutte le autovetture per fare abbassare il livello dell’ozono nell’aria, la città così aveva guadagnato in vivibilità come mai prima. Le due amiche camminavano parlando e ridendo delle ultime storie della loro vita, degli amici, i pettegolezzi su questo o quel divo. Da uno dei portici un elegante uomo scese verso un BMW 320 nero, vi salì sopra e per qualche attimo gli sguardi s’incrociarono perplessi. Il cellulare dello sconosciuto squillò e gli sguardi si lasciarono, una la sgradevole sensazione di dejà-vu tubò Sally; la macchina era identica a quella che l’aveva investita.
- Ieri avrei giurato che la pioggia sarebbe scesa per un mese intero è invece guarda che splendida giornata. Questa sera andiamo al mare?
- Sally, ma fino a poco fa dicevi di non voler andare da nessuna parte.
- Il mio umore è diventato variabile come il tempo. Scusami, ma spesso non riesco a capire cosa mi vada o no.
- Credo che non deve essere facile per te riabituarti a vivere normalmente.
- Sai a cosa non riesco veramente ad abituarmi? Alla gente, al suo volermi aiutare in qualsiasi cosa faccia. Voglio dire, prima sé ne fregavano tutti di cosa volevo o no, ora basta che provi a fare un passo che tutti corrono a chiedermi: “ti serve aiuto?”; “aspetta, lascia fare a me”. Sono per me diventate frasi di uso comune come “buon giorno” o “buona sera.
- Almeno ti aiutano ad affrontare i problemi.
- La loro è solo ipocrisia che non mi serve.
Barbara abbozzò un sorriso sentendosi a disagio. Sally aveva dentro una rabbia che sembrava distorcergli la realtà, temeva che questa sua testardaggine avrebbe potuto fargli molto male. Parlargliene però non era facile, rischiava di scatenare un nuovo litigio, forse era meglio non insistere e riportare il discorso sul mare e gli amici.
- Credo che sta sera al mare saremo in tanti, oltre a Sandra e Luana, verranno pure Giacomo e tutta la sua banda. Vedrai che ci divertiremmo!
- Bene…
- Non sembri particolarmente contenta.
- Il modo con cui mi guarda quella gente non mi piace. Mi fissano sempre le cicatrici sulle gambe mettendomi a disagio. Mi sembra quasi di essere un mostro! Anche Giacomo…
Sally si bloccò come se stesse per dire uno sproposito di cui s’era subito pentita.
- Io credevo che vuoi due stesse insieme.
- Ti sbagli!
- Ricordo che veniva spesso a trovarti all’ospedale, e i suoi atteggiamenti sembravano ben più che quelli di un semplice amico. Vi frequentavate anche prima …
- Come fai ad essere così ipocrita?! Vorrei che lui mi volesse bene, ma non accetterò mai la sua compassione mascherata d’amore!
Mentre urlava rivedeva mentalmente le immagini di quel giorno maledetto. Il loro litigio, lei che fuggiva, la macchina che compariva dal nulla investendola. Era sicura: Giacomo fingeva di amarla solo per maschere i suoi sensi di colpa. Lasciò cadere le stampelle a terra e portò le mani al volto, piangeva, barcollava, si lasciò cadere e Barbara la prese al volo con uno scatto prodigioso. Le lacrime gli solcavano le guance pallide.
- Pensi che sia bello vivere così? Accudita da tutti perché sei una storpia. Avrei preferito che quella maledetta macchina mi avesse uccisa invece che lasciarmi in questo stato di totale inutilità. Mi sento così fragile e insicura!
Barbara recuperò un fazzoletto dalla borsetta a tracolla e asciugò delicatamente dal viso dell’amica quelle lacrime disperate. L’altra serrò ancora l’abbraccio, lasciandosi andare a sfogare una frustrazione che si teneva dentro da chissà quanto tempo.
- Vuoi sapere cosa penso? Io credo che il suo sia un sentimento genuino, e non sarà certo la tua gamba o le stampelle a cancellarlo, né i sensi di colpa a confonderlo. Devi dargli fiducia, a te e a lui, avere il coraggio di credere nei sentimenti altrimenti, lo perderai e rimarrai davvero sola con le tue paure.
- Non… non credo di sentirmi abbastanza forte…
- Io credo che in questo caso sia più utile lasciarsi guidare dai sentimenti, parlargli con il cuore in mano. Vedrai, sarà più facile di quanto tu possa credere.
Quel confidarsi era basto a tranquillizzarla; Sally tornò a sorridere ringraziando l’amica per il prezioso aiuto. Recuperarono le stampelle e ripresero a camminare. Sentivo le loro voci affievolirsi man mano che s’avvicinavano alla piazza centrale, per poi confondersi con il chiassoso degli altri giovani che lì le aspettavano. Sotto i portici, immobile nel mondo d’ombra in cui sono immerso, cerco di capire le emozioni di quelle ragazze. Mi domando cosa sarei oggi se anche io, a suo tempo, avessi avuto un amico capace di aiutarmi nei momenti difficili.
- Mark, che diavolo fai lì impalato?! Muoviti che è già tardi!
Saverio mi aspetta in macchina, si sbraccia dal portello aperto del suo adorato BMW. Ripone frettolosamente il cellulare in tasca e, chiuso lo sportello, accende il motore che romba potente.
- Dai, sbrighiamoci che siamo in ritardo!
- Saverio oggi c’è il blocco della circolazione. Non credi che qualche pattuglia potrebbe fermarci e scoprire qualcosa.
- Tranquillo, vedi quel distintivo giallo sul parabrezza?
- Si!
- Bene quello è il nostro lasciapassare, possiamo andare dove vogliamo senza alcuna limitazione; ora però salta su che stiamo perdendo tempo.
Mi decido a salire sull’auto ponendo la cassetta degli attrezzi rossa sul sedile posteriore; un attimo dopo la macchina parte. Dopo qualche vicolo deserto ci troviamo immersi nel traffico, molto più caotico del solito.
- Accidenti al maledetto blocco della circolazione… guarda che caos, come si fa a mantenere l’ordine in una città con tutto sto casino!
Saverio è teso. Avverte anche lui quella sensazione di pesantezza e ansia che da un po’ di tempo pare soffocare l’ambiente.
- Sta per scoppiare una nuova guerra tra le famiglie; è noi ne saremmo la scintilla!
- Già.
Lo dice forzando un tono scanzonato, quasi non gli importasse nulla di ciò che accadrà dopo. Il semaforo diventa rosso costringendoci a fermarci. Davanti a noi scorrono decine di persone, nei loro sguardi si riflette la routine quotidiana, guardandole provo ad immedesimarmi in loro, pensieri, sogni, aspirazioni. Riesco quasi a leggergli l’anima ma quello che ci trovo non è bello, sa di tristezza e solitudine, abbandono e rimpianto. L’altro sentimento predominate è il rammarico per qualcosa di perso, ma il più forte riamane l’odio e l’invidia. Qualche volta però mi capito di trovare qualcosa di buono, una luce nel buio, come in quelle due ragazze di poco fa, nel loro animo ho percepito speranza.
- Per uccidere un uomo la mente deve stare libera è concentrata!
Saverio si è accorto subito del mio stato di confusione, non posso proprio nascondergli nulla, forse anche lui riesce a leggere l’anima umana. Devo cancellare i dubbio, annullare la realtà. Quando il semaforo scatta sul verde, sono nuovamente io.
3
La sera.
Sopra il portone di noce nera finemente intarsiato, troneggia la gigantesca immagine di S. Giovanni Battista, patrono della chiesa dell’Annunziata Redenzione. La funzione delle 17 si è appena conclusa, i pochi fedeli attraversano il portone e con calma, scendono la bianca scalinata che porta alla piazza del santo. Per ultimo esce lui: Salvatore Manto, boss della famiglia Carmine.
Si avvolge con cura nell’elegante giaccone color amaranto, si sistema il capello e dà un’occhiata d’intesa alle quattro guardie del corpo che gli stanno attorno; O. K. si può andare. Scendono la gradinata senza fretta, con passi calcolati e l’aria guardinga, pronti a scattare per ogni evenienza. Le guardie gli stanno addosso, le loro giacche sono lisce e irrigidite dai giubbetti antiproiettile mentre le pistole sporgono vistosamente dalla cintola dei pantaloni ostentando una presuntuosa sicurezza. Attraverso il viale, un pesante Mercedes Kompressor avanza a velocità ridotta. L’auto fa un giro di ricognizione attorno alla piazza per fermarsi nel punto più vicino alle scale, mantenendo il motore acceso; l’uomo seduto accanto al guidatore scende ad aspettare il boss vicino al portello posteriore. La testa di Salvatore oscilla al centro del mirino, appare e scompare dietro le sagome dei gorilla, per quanto possono essere dei professionisti abituati a convivere con lo spettro della morte percepisco chiaramente nei loro occhi i segni della paura. Nessuno di loro, per quanto ben pagato, ora vorrebbe trovarsi lì a rischiare di prendere una palla in fronte, sanno bene che io sono nascosto da qualche parte nell’ombra, e colpirò quando meno se lo aspettano.
- Riesci a sparargli?
Salvatore ha finito le scale, appena duecento metri lo separano dal Mercedes blindato; l’uomo accanto all’auto apre lo sportello guardandosi attorno.
- I gorilla lo coprono bene, non riesco a centrarlo.
Saverio sta alla seconda finestra accanto alla mia. Guarda teso con il binocolo stretto nelle mani, suda copiosamente, le mie parole lo irrigidiscono ancora di più. Mi piace tenerlo sulle spine!
- Mark, sai cosa ci fa la famiglia se non lo uccidiamo?
- Si... ma sparare ora è troppo rischioso, potrei mancarlo.
Salvatore intanto attraversa lentamente la piazza, ora abbozza un timido sorriso convinto di avercela fatta, anche oggi.
- Ho piena fiducia in te ma assicurami che puoi colpirlo!
La macchina è raggiunta. I gorilla si spostano per fare entrare il boss, Salvatore appare raggiante, quasi a dire: è bella la vita!
- Mark?
- Si!
Tiro il grilletto e nonostante il silenziatore, il “tunf” del colpo che esplode mi lacera le orecchie. Attraverso le lenti del mirino vedo la scena svolgersi in un battito di ciglia, precisa a come l’avevo calcolata. Il proiettile colpisce Manto sul destro della tempia, la testa gli esplode in una bolla liquida rossastra, brandelli d’ossa e cervello si spargono come un enorme gavettone, imbrattando le guardie immobili attorno a lui.
- Madonna! ?", Commenta sbigottito Saverio osservando gli effetti del proiettile esplosivo. - Dovevo immaginarlo che era il tuo solito giocare al gatto con il topo, avresti potuto farlo secco in qualsiasi momento, vero?
- Si.
- Miseria! Non riuscirò mai ad abituarmi a questa tua mania! Ora però smonta tutto e filiamocela da qui.
Saverio ora ride facendo svolazzare per aria il binocolo con ampi gesti delle mani. Recupero il bossolo del proiettile e smonto il fucile, riponendo entrambi nella cassetta degli attrezzi. Saverio intanto perlustra l’andito.
- La via è libera, possiamo andare!
Chiudo la porta segnata N°10 badando di non lasciare impronte, da fuori risuonano l’eco delle sirene di polizia e ambulanze che sopraggiungono. Seguo la sagoma di Saverio attraverso l’andito, diretto verso l’uscita d’emergenza che dà sui vicoli nel retro del palazzo; la nostra via di fuga.
4
Altrove.
Dopo aver tanto camminato dentro un oscuro sentiero ricavato dall’intreccio d’intricati rovi aguzzi e verdi rampicanti contorti, ecco che l’improvvisa luce del sole quasi mi acceca; per qualche attimo sono costretto a proteggermi gli occhi con la mano. Appena la vista si abitua alle nuove condizioni luminose mi trovo ad ammirare, sbalordito, la valle che si stende dinanzi. I caldi colori dei prati fioriti e i fitti frutteti, pur dall’alto della collina su cui mi trovo mi sembra quasi di poterne sentire il profumo dei fiori. Il sentiero prosegue alla mia destra immergendosi nuovamente in quell’assurda gabbia che pare sprofondare nelle viscere della terra; per abbandonarlo questo è l’unico punto libero, non mi rimane che decidermi.
Scendere non è facile, le rocce che formano i margini della collina sono larghe ma invase dai rovi, colano giù dal sentiero come una cascata verde, le spine pungono dolorosamente strappandomi i vestiti, quasi vogliono persuadermi nel desistere. Con grande fatica raggiungo la valle, subito il profumo dei prati mi avvolge, soave proprio come m’sembra da lassù. Guardandomi attorno scopro d’esser penetrato in un enorme giardino, più in là scorgo che i frutteti sono carichi d’enormi frutti maturi dall’aria appetitosa. Mi avvicino voglioso di assaggiarne uno accorgendomi però di essere sceso in una particolare parte del giardino che dall’alto della rupe non avevo notato. Tutto attorno a me svettano decine di pietre verticali, alte all’incirca un metro e parzialmente ricoperti dalla vegetazione. Ci cammino in mezzo con la stesa angoscia con cui ricordo le mie visite al cimitero, quei monoliti bianchi sembrano proprio una distesa d’anonime lapidi. Avvicinandomi mi pare di scorgere delle immagini, ovali con visi sbiaditi dal tempo. Sfiorandone la superficie con le mani sento nei polpastrelli delle finissime incisioni, caratteri tanto contorti e consumati che sono ormai incomprensibili. Quelle lapidi sembrano siano state disposte da qualche pazzo becchino, divertitosi a sparpagliarle qua e là. L’agitazione cresce in me, così come in qualsiasi altro cimitero, abbandonarlo diventa una priorità che spinge le mie gambe a correre lontano.
Il frutteto che avevo visto prima è svanito come un miraggio, per ora basta allontanarmi da quelle pietre e dalle sgradevoli sensazioni che sprigionano, lascio che sia la bellezza del luogo a cancellare ogni mia perplessità. Ci sono molti corsi d’acqua, in uno di questi mi fermo ad ammirare dei cigni che sembrano rincorrersi, accanto ad un enorme scafo, inclinato su di un fianco. Lo guardo sbalordito, le sue assi nere sembrano testimoniare un’antichità ancestrale, ne rimango affascinato dall’assurda idea che può essere nientemeno che la mitica l’Arca di Noè; da dove mi venga poi questa sensazione non lo so. La sua sagoma contrasta in maniera stridente con i colori dei prati e l’azzurro di un cielo splendente come mai visto, le nuvole di un bianco che all’orizzonte sembrano fondersi con il chiarore del cielo, ed esso con i prati che si muovono lievi sotto le carezze del vento. L’erba sembra danzare con tale armonia da ricordare, nei movimenti, l’ondeggiare placido del mare… mi piaceva tantissimo il mare. Forse perché ci andavo con Silvia, credo che sia da allora che ho iniziato ad amarla. Abitava a non più di venti metri da me, sin da bambini eravamo affiatati ed ogni scusa era buona per stare insieme. Ricordo che le domeniche d’estate prendevamo l’autobus delle 8. 30, passavamo al mare tutta la giornata. Giocare sulla spiaggia, tra le onde che c’investivano spumeggianti, lasciandoci rotolare sulla sabbia bagnata. Mi siedo in quell’ipotetico bagnasciuga e chiudendo gli occhi, nel buio della mente, rivivo quel momento in maniera tanto intensa da riuscire quasi a sentire il rumore del mare, il suo sciabordare sulla riva e l’odore forte della salsedine salire su nelle narici. La nostra promessa.
- Staremmo sempre insieme?
- Si.
Alle superiori quel rapporto così speciale mutò, lei cambiò in maniera imprevedibile… voleva che io la odiassi, perché? Le cose sono andate sempre peggio, non avrei mai immaginato d’arrivare a provocare l’incidente per spezzare quel terribile dolore. Ancora lo sento torcesi dentro, come una bestia in fondo all’anima affamata ma incapace di sfamarsi. Non voglio rimanere solo ma neppure riprovare le stesse terribili sensazioni.
Riapro gli occhi, attorno a me il mondo è nuovamente mutato. Sembra di stare in uno di quegli strambi film di fantascienza degli anni cinquanta sulle dimensioni parallele e altre balle simili, robe assurde, se non mi ci trovassi intrappolato dentro magari potrei anche riderci su. Pur riuscendoci però smetterei immediatamente per non disturbare una donna vestita di nero accanto ad un’alta quercia, a circa trecento metri da me. Riesco a distinguere sul suo viso il luccichio delle lacrime, piange. Alzandomi in piedi provo un senso di disagio, impaurito dalla stranezza di tutto ciò, perché dovrebbe essermi impossibile vedere le lacrime che gli bagnano il viso se lei mi da le spalle. In che razza di posto sono finito? Le paure svaniscono spazzate vie da una folata di vento che mi schiaffeggia il viso, scompigliandomi i capelli, penso solo alle lacrime sul suo viso e l’improvviso desiderio di raggiungerla diventa una necessità impellente, come se la sua presenza fosse in qualche modo determinate per stabilire il mio destino. Con quella convinzione inizio a camminare. Passo dopo passo le stranezze continuano, attorno a me il paesaggio sembra non cambiare mai, quasi mi ruotasse lentamente attorno, poi in un attimo la distanza è colmata, il cuore mi salta in gola trovandomi improvvisamente dinanzi a lei. La prima impressione è sconcertante: mi sembra di conoscere questa donna! Indossa uno strano vestito nero, lo stile ricorda gli abiti del periodo Vittoriano visti in vecchi disegni sui libri di storia, la sua sagoma si muove appena dinnanzi alla “lapide”. Movimenti leggeri, sufficienti a scorgere una piccole porzioni della pietra, compresa la nitida immagine al suo centro: il ritratto di una giovane ragazza dai capelli rossi.
- Ciao!
La mia voce squilla inopportunamente festosa, sorprende entrambi. Lei si volta lentamente stupita di non essere più sola, il suo sguardo ha una forza che incute paura, mi da un brivido indescrivibile.
- Ciao... cosa fai qui?
- Non lo so, sono sceso da quella collina laggiù...
Mi volto per indicargliela, ma dietro di me c’è solo pianura a perdita d’occhio. Lei inclinò il capo e sorrise maliziosamente come se sapesse chissà cosa; un sorriso bellissimo.
- Sei uno “nuovo”, non ricordo d’averti preso, sarà stato uno degli altri. In questo luogo è facile perdersi; posso guidarti io se non ti faccio troppa paura.
- Non ho paura di te!
Quella risposta la stupì, come se avessi detto chissà cosa.
- Dovresti… non sai chi sono?
- Una bellissima ragazza!
Sorpresi entrambi per la seconda volta. Non capivo come mi fosse sfuggita quella frase cosi esplicitamente spontanea, tutto mi sembrava così maledettamente semplice, come se la conoscessi da sempre.
- Scusami, non volevo essere invadente, è questo posto che mi mette a disagio.
- Questione di gusti.
Lei si avvicinò tenendo lo sguardo basso a fissare ancora la pietra, la sua piccola immagine. Quando si voltò verso di me il suo sguardo era tornato gelido e distante, direi quasi diffidente.
- In ogni caso nessuno, a parte “noi”, può restare in questo luogo, dovrò riportarti indietro.
- Devi proprio?
- Si.
Con la mano mi fece un cenno per seguirla. Camminavamo uno al fianco dell’altro, in silenzio. Diceva di volermi riportare indietro ma in realtà stavamo andando verso un altra parte.
- Vivi sola qui?
- La solitudine è l’ultimo dei miei problemi.
- Ecco… io non riesco a decidermi sul cosa sia peggio: la solitudine o soffrire per colpa degli altri.
- Temo che il tuo tormento sia inutile. Nonostante ti ostini a sforzarti non potrai mai capire pienamente l’altro, seppur involontariamente prima o poi lo ferirai e alla fine sarà la solitudine l’unico loro dolore. Tanto vale abituarsi a questo stato.
- Quindi pensi che anche io possa ferirti?
- Certo! Ho molta più esperienza di te. Apparire agli occhi degli altri come una persona sensibile e gentile è quanto di più facile ci sai nella vita, invece vivere credendo veramente in quello che si fa non è roba da tutti. Tu non puoi certo essere diverso dagli altri.
Pronunciò quella frase con un’espressione dura e spietata. In quel momento pensai che il suo ragionamento non era sbagliato, se io non mi fossi esposto con Silvia non avrei sofferto, facile come teoria, anche se dentro di me sentivo che ciò era sbagliato.
- Scusami, vorrei capirti. In fondo tutti noi cerchiamo qualcuno in cui credere, che ci dia forza e aiuto a colmare la solitudine. Se questo è solo un bisogno fisico che senso bisogna dare alla vita.
- Nessuno. Dimmi la verità: sei riuscito a trovare una persona speciale che non ti faccia sentire solo?
Il suo viso si colorò di un interesse vivo, mi guarda come se si aspettasse da me chissà quale risposta.
- Si… ma poi ci siamo persi.
- Ti ha fatto soffrire?
- Tantissimo…
- Nella vita non esistono regole, ognuno può fare come vuole senza rispetto per l’altro. Ora che sei rimasto solo immagino che cercherai un’altra compagna, ma come credi che andrà a finire? Soffrirai ancora provando e riprovando, finché non ti stancherai di soffrire e allora ti accontenterai di chiunque altro pur di non trascorrere il resto della vita solo. Chiameresti quella misera convivenza amore? No, è solo un palliativo per illudersi di non aver paura della morte.
Quelle parole mi colpirono con una forza dirompente mandando per aria tutte le mie residue illusioni.
- Capisci ora che razza di bugia sia l’amore, un inganno inventato dagli uomini per sentirsi meglio. L’anima che un essere umano ama di più è sempre se stesso. Un sano, pratico egoismo.
Non aggiunse altro né io ribadii alcun concetto. Benché il nostro dolore apparisse così simile da far sembrare il nostro incontro tutto tranne una casualità, continuai per la mia strada, deciso in quella nuova convinzione. Ritornai nel buio da cui ero venuto.
5
I vicoli.
Le braccia incrociate sul petto, il corpo lievemente inclinato su di un lato, il fianco destro appoggiato al muro, lo sguardo serio fisso su di me, come se il mondo attorno a noi non esistesse più.
- Era tutto un sogno?
La voce di Saverio e carica d’emozione. Aveva ascoltato il mio racconto in silenzio, parola dopo parola, quasi l’avesse vissuto in prima persona.
- Credo di si, è l’unica cosa che ricordo di quegli anni passati in coma; allora avevo quattordici anni.
Non capisco questo bisogno di raccontargli quella vecchia storia di Silvia e dell’incidente in autobus, lui è un signor nessuno come qualsiasi altro.
- Poi cosa successe?
- Morì.
Lo stupore colora il suo viso di una tonalità indefinibile, mi guarda come avesse dinanzi un miracolato.
- Al terzo anno di coma i dottori notarono una lieve ripresa, ma insufficiente per permettermi di risvegliarmi. Dopo aver ottenuto il consenso dei miei genitori decisero di effettuare una difficile operazione. Purtroppo durante l’intervento si verificò una complicazione, per quasi un minuto il mio cuore si fermò. Alla fine superai la crisi, ma per i dottori si trattò di un vero e proprio miracolo.
- Incredibile…
- I compagni della 1° A morirono per mano mia, nessuno l’ha mai scoperto e io tutt’oggi non mi sento in colpa per ciò… l’unico rammarico è di non essere morto assieme a loro. Dato che la morte non mi volle decisi che sarei stato un suo emissario, disprezzando i deboli e i sentimenti, ignorando ciò che gli altri chiamavano amore come una verità assoluta.
- Da allora non ti sei più innamorato?
- No.
Saverio inclina all’indietro il capo, poggiandolo al muro, fissando la luce che pioveva dal cielo tra i palazzi.
- Io rinunciai all’amore a diciassette anni, ma non ci fu nulla di mistico in quella scelta. La mia famiglia fa questo mestiere da generazioni, le sparatorie da noi sono la regola, così spesso ci scappa il morto. Non potevo accettare l’idea che la sua vita poteva essere determinata dalle mie scelte, così decisi che era meglio per entrambi rinunciare. Ancor oggi, ripensandoci, la sento come la scelta più difficile di tutta la mia vita.
Ora mi guarda dritto negli occhi, quasi cercasse conferme nella mia faccia delle sue paure.
- Dimmi la verità: sei diventato un killer perché non temi il nulla dell’animo?
- Si.
- T’invidio. Io non ho mai avuto la possibilità di scegliere, la morte mi spaventa. Vorrei illudermi che prima o poi possa avere un’occasione di riscatto e vivere come uno qualsiasi. Sarebbe bello avere una seconda possibilità, no?
- Forse.
Il telefonino di Saverio squilla, spezzando quella strana atmosfera d’intimità che si era creata attorno a noi. Apre la linea e parla al cellulare, la sua voce s’incrina incupendosi progressivamente. Lo osservo mentre un altro ricordo sale dal profondo dell’anima, chiudo gli occhi e le immagini mi scorrono dinanzi come la pellicola di un film.
6
Fermata dell’autobus n°31.
Il grande vaso di marmo grigio, stonava per eleganza e bellezza, rispetto alla rachitica pianticella che qualcuno vi aveva interrato dentro, incurante forse dell’indicibile confronto. Sul suo bordo, ornato da una fascia argentata, siede la minuta figura di una ragazza. Lo sguardo è rivolto verso il basso, perso in un attimo di disperazione, i capelli neri mossi, ondulati anch’essi verso il basso. Tra i ciuffi, il brillare improvviso delle lacrime che gli scorrono veloci sulle guance pallide; il suo viso si alza, fissandomi carico d’incredulità.
- Perché mi respingi, non capisci che ti amo!
Resto immobile, dinanzi alla porta aperta dell’autobus, incapace di capire cosa mi trattenesse ancora lì ad ascoltare la sua dichiarazione d’amore.
- Lasciami in pace!
Stroncai così quella discussione. Senza aggiungere altro salì sull’autobus, dietro di me i portelli pneumatici si chiusero con un sibilo ma sentivo ancora il suo sguardo gravarmi sopra, forse sperava in un mio ripensamento. Mi voltai e gli risi in faccia, volevo spezzargli definitivamente il cuore, volevo che mi odiasse, che capisse quale bugia è l’amore. Invece i suoi occhi, le sue lacrime, la sua espressione, mi colpirono alzando il dubbio in me. Tutti a scuola mi conoscevano come il più schivo, un solitario incapace di stringere una qualsiasi forma di relazione sociale con chiunque, eppure quella ragazza aveva scelto me, l’ultimo di quel liceo. Era davvero molto bella, anche così scompigliata in quella momentanea oscura disperazione, avrebbe potuto scegliere chiunque altro e riuscire a conquistarlo facilmente, invece lei preferiva me. Preferiva me. Forse era sincera ed io uno stupido testardo, magari il suo amore avrebbe riscattato la mia felicità, in fondo mi chiedeva soltanto di crederci e dargli una possibilità. Non dovevo fare chissà che cosa, bastava scendere dal bus e correre ad abbracciarla, lei non mi avrebbe respinto. Con un sorriso si sarebbe stretta a me e io sarei stato felice. Happy End.
Mi sono ritrovato in piedi, con la mano stretta sul comando d’apertura d’emergenza della porta posteriore, pronto e determinato a tirarla. Guardai il mio riflesso sullo specchio della porta, avevo stampato in faccia un sorriso da ebete come mai avevo visto. Ripensai a come avrei potuto perderla in qualsiasi momento, soffrire ancora, e ciò mi terrorizzò. La paura d’amare cancellò ogni voglia di provare a dirgli “Mi piaci”, divennero parole da non pronunciare mai più. L’autobus partì, allontanandomi da lei. Dal sedile posteriore in cui ricadi la vidi affondare la faccia nelle mani protese per sorreggerne la testa, e scoppiare in lacrime, da non so dove sbucò un’altra ragazza che l’abbracciò cercando di consolarla. Stupida! I sentimenti sono inutili, ti danno solo dolore e sofferenza, non ha senso vivere così, questa lezione t’insegnerà ha non commettere più questi errori. Le lacrime m’invasero gli occhi ugualmente, socchiudendoli appoggiai il capo al gelido vetro, dentro di me sentì il suo dolore diventare il mio e imprecai perché nonostante tutto era ricaduto nel medesimo errore. Decisi che avrei dimenticato tutto, cancellato come se non avessi mai provato niente. L’amore; che sentimento inutile.
7
I vicoli.
Riapro gli occhi lentamente. Il ricordo di Monica è già sparito, non voglio raccontare a Saverio anche questo, non voglio dirgli che io la mia seconda possibilità ho preferito bruciarla.
- Bene, bene, bene. Finalmente vi abbiamo trovati.
- Che diavolo succede? Sono più di venti minuti che stiamo qui fermi ad aspettarvi, Don Mancuso non è contento per questo ritardo!
- Si calmerà, vedrai…
I tre tipi hanno l’aria molto pericolosa, trasmettono uno sgradevole senso di morte che anche Saverio pare percepire, forse perché sono emissari della famiglia Manto, avrà paura di un loro ripensamento e neppure io sono tranquillo. Lo spilungone poi mi guarda ghignate come di chi ne sa una più del diavolo.
- I patti erano chiari, noi facevamo fuori il vostro capo così ora la frangia dei Giamazzi potrà prendere il sopravento e unirsi alla nostra nella guerra contro le altre famiglie.
- Certo Saverio, tutti sanno che i Belli e i Gautieri volevano Manto morto da parecchio ma per sancire l’alleanza le famiglie chiesero a Don Mancuso un atto di, come possiamo chiamarlo… fiducia!
Saverio capisce subito come stanno andando le cose, riesce a camuffare bene la sua apprensione con quella faccia da spaccone che si ritrova, ma quando i due tizzi dietro lo spilungone tirano fuori le loro pistole…
- Siamo stati venduti?
- Un patto di sangue richiede sempre un poco del medesimo. Il vostro poi è il migliore… certo non mi aspettavo che Don Mancuso accettasse cosi facilmente alla richiesta, evidentemente vuoi due non siete insostituibili. Avanti tu, scendi da quel cassonetto e getta le armi qui, ai miei piedi!
Lo spilungone ghigna trionfante, aspetta un minimo pretesto per impallinarci a dovere. Scendo dal cassone con cautela, mi avvicino lentamente al gruppo, Saverio sta alla mia destra, non serve neppure guardarci per intenderci. Lo spilungone al centro e gli altri due sui lai, il primo ghigna meglio di Joker e gli altri si guardano annoiati attorno in cerca d’eventuali curiosi; perfetto!
Basta un attimo e scattiamo all’unisono estraendo le pistole, sappiamo che non c’è scampo ma che anche nella morte ci vuole onore, almeno c’è né porteremmo dietro il più possibile. Ora tutto sembra svolgersi al rallentatore, come le scene di un film dagli innumerevoli ciak ripetuti. Gli uomini con le pistole alzano le armi e iniziano a sparare, considerando il vantaggio che avevano su di noi hanno una mira ridicola, non riuscirebbero a colpire un furgone neanche standogli di fronte. Saverio becca l’uomo a destra, tre proiettili tutti sparsi dal collo al volto. Il Mio lo prendo sul petto, sorpreso di tanta rapidità… ma Joker dove è finito?
- Dietro il cassone dei rifiuti, sulla destra! Sulla destra!
Urla Saverio mentre spara. Mi volto cercando di dargli un minimo di copertura, vedo Joker sbucare da dietro il cassone, ride ancora, stringe tra le mani un lungo oggetto scuro, lo alza contro di noi e fa partire una raffica accecante… ha un fucile mitragliatore! La prima falciata disegna un arco di fuoco bianco per aria, la seconda e ben più letale, avverto i proiettili caldi mentre mi colpiscono sul fianco sinistro, non posso fare ameno di cadere a terra. La terza raffica me l’aspettavo in pieno volto, il classico colpo finale, invece parte verso tutt’altra direzione, il suo bersaglio ora è Saverio. Alzo la Beretta e sparo tutti i proiettili rimasti nel caricatore contro Joker. Ora silenzio.
8
I vicoli, dieci anni prima.
La faccia di Saverio ha sempre un’espressione imbronciata quando pesta qualcuno, come se gli dispiacesse menare la gente. Almeno così mi sembrò la prima volta che lo vidi a “lavoro”, mentre scaricava violentissimi calci al corpo riverso ai suoi piedi.
- Non lo farò più, dillo a Don Mancuso: restituirò tutto lo giuro!
Il ragazzo a terra vomitava sangue mentre supplicava pietà, strisciando tra le immondizie, non mi faceva compassione né pena benché fosse la prima volta che assisteva ad un simile spettacolo. Ricordo l’adrenalina che saliva a mille mentre Saverio mi guardava dicendomi: finiscilo tu! Mi diede una pistola e osservo il mio comportamento, era bella la sensazione che dava il freddo metallo stretto in mano, il dondolio del mirino che oscillava, alzandosi, verso la testa di Mariano riverso a terra.
- Ti prego, non uccidermi!
Non ebbi esitazioni, il colpo fu simile ad una cannonata, da quella distanza ravvicinata la testa di Mariano esplose come un cocomero cascato da un carrettino. La mia prima volta, sette anni fa in questi stessi vicoli, fu allora che capì come avrei vissuto il resto della mia vita.
9
Ancora vivo.
Respiro faticosamente con il lezzo delle immondizie che sale su per il naso. Stringo i denti per il dolore portando le mani sul fianco sinistro nel tentativo di arginare quel fuoco che vi divampa. Mi giro, guardo il sangue caldo che cola copioso macchiandomi mani e vestiti, scioccamente cerco di tamponarlo con un fazzoletto raggomitolato. Alzandomi le gambe tremano maledettamente come fossi ubriaco, respiro piano cercando di recuperare lucidità ma non ne ho il tempo, con un filo di voce Saverio mi chiama.
- Mark…
Dolorosamente mi avvicino al suo corpo steso a terra. Pochi metri oltre ecco Joker, anche da morto continua bellamente a ghignare con il mitragliatore fumante stretta ancora in pugno. Saverio è immerso in una piccola pozzanghera di sangue che si allarga velocemente sotto di lui.
- Ti ha colpito?
- Si, sul fianco.
- Cose che capitano nel nostro mestiere.
Sorride, il viso stranamente felice, ma forse sono io che mi sento strano a guardarlo in quella posizione.
- Mark, per me sei sempre stato più di un amico. Sin dal primo giorno che Don Mancuso ti affidò a me… ormai sono stanco di questa vita, stanco di uccidere e rischiare, meglio morire, devi fuggire prima che arrivino gli altri. Ti ricordi dove è la macchina?
- Si.
- Sotto il sedile del guidatore troverai la mia agenda, dentro c’è un indirizzo, Laura Sogliano, ti aiuterà a nasconderti e a curarti. Ora vai!
Lasciarlo così mi fa ancora più male della ferita, è una sensazione straziante, desidero solo allontanarmi, correre via urlando perché non capisco cosa stia succedendo al mio mondo.
10
Mia madre.
All’ultimo anno delle superiori la mamma fu convocata a conferire con il mio insegnante di filosofia, un tale di nome Ovidio Summa. Il prof gli parlò della mia incapacità di comunicare con gli altri compagni, gli raccontò anche di cosa era accaduto il giorno prima alla fermata del bus con Monica. Solo dopo scoprì come poteva sapere del fatto: lui era il padre. Al rientro da quel colloquio fui costretto anche io ad affrontarne uno che non mi piacque. Stavamo nella sala da pranzo, la luce filtrava sbilenca dalla finestra che dava sul giardino affollato di piante di nespola. Lei stava seduta, il suo sguardo andava dalla tovaglia rossa alla mia figura immobile, in piedi davanti al televisore spento. Lei non si era neppure cambiata dopo essere rientrata a casa.
- Sei gay?
Mi sorprese, ma lo stupore sparì in una sonora risata.
- Ti preoccupi di questo, di cosa possa pensare la gente; sei ridicola!
- Rispondimi!
Sbatté con violenza la mano sul tavolo. Il suo viso era cupo, livido dalla rabbia e dalla vergogna di chi sa d’essere stata catturata in fallo.
- No, se questo ti fa sentire meglio.
- Spiegami allora perché ti sei comportato così male con quella ragazza!
- Non m’interessava.
Lei appariva già stanca di quel discorso che sembrava non portare da nessuna parte. Fece ruotare la testa e lo sguardo verso l’orologio a parete; presto sarebbe dovuta rientrare al suo posto di donna delle pulizie presso il palazzo di giustizia.
- Non pensi che un giorno ti pentirai d’aver rinunciato ai tuoi sentimenti?
- No.
Fece un sospiro, poi rise, una smorfia amara.
- Ancora la maledizione di quell’incidente, è passato tanto tempo ma non sei riuscito a vincerlo. Marco io ti voglio aiutare a non commettere errori di cui un giorno potresti pentirti.
- Che bel gesto! Mi domando però come pretendi di aiutarmi quando nella vita ai fatto tanti di quegli errori che ancora ti porti dietro il rimorso. Come il matrimonio con papà!
Rimase di sasso, ammutolita, immobile come una statua di cera.
- Sei riuscita ad ucciderlo con la tua freddezza… costretto a cercare l’amore che gli negavi in altre donne, finché la sua sincerità verso di te gli è stata fatale. Lui ti amava; è questo genere d’errore che vuoi impedirmi di compiere?
- Basta! Finiscila!
- Ma certo! Vuoi insegnarmi tutti i trucchi del mestiere, come ingannare e raggirare perché alla fine i sentimenti possono essere utilissimi anche per campare alle spalle degli altri.
- BASTAAAA!!!
Quell’urlo fu il segno della mia vittoria, rappresentavano la fine di un rapporto che ormai nessuno di noi riusciva più a sopportare. Specialmente io.
- Infangare la memoria di tuo padre con simili menzogne non ti rende certo migliore di lui.
- Dicono che gli errori dei genitori ricadono sui figli.
- Noi allora in cosa abbiamo sbagliato?
- Forse nel mettermi al mondo.
- Forse.
Lei si alzò dal tavolo tenendo lo sguardo basso in un volto devastato dal rimorso e dal disgusto, quando tornò a guardarmi negli occhi brillava una nuova luce.
- Domattina, quando torno, non voglio più vedere la tua brutta faccia, vattene fuori di casa mia!
Non aggiunse altro, uscì convinta di avermi messo in difficoltà, convinta che così avrei abbassato la testa, alla stessa maniera di mio padre, ma ancora si sbagliava. Lasciai quella casa con un motto di pura gioia, finalmente libero, a sentirsi sconfitta questa volta fu lei.
11
Ancora vivo
La luce del sole filtra sbilenca tra i caseggiati, sembra anch’essa sporca e oleosa, o forse é l’affanno per la corsa che mi fa apparire tutto più brutto. Guardo verso i mie piedi immersi in ogni sorta d’immondizia, li fisso mentre ascolto il rantolo del mio respiro. Nel fianco sinistro un fuoco mi divora le carni concedendomi fitte di dolore sempre più forti. Avvolgendo la giacca attorno alla ferita ho tentato di praticarmi una fasciatura di fortuna ma il sangue continua a scendere inzuppandomi i vestiti, così come le mani. Le guardo tremare scosse dalla paura mentre sto appoggiato ad un lercio bidone dei rifiuti. Dai vicoli dietro di me il rumore di spari, due colpi secchi, sicuramente il resto degli uomini di Joker hanno trovato il povero Saverio, concedendogli finalmente il colpo di grazia. Non gli sarà difficile trovarmi, gli basterà seguire la scia di sangue che mi sto lasciando dietro e la partita sarà chiusa. Faticosamente mi tiro su, da qualche parte ci deve esser il passaggio per i parcheggi ma questi vicoli mi sembrano tutti uguali. Imbocco una viuzza alla mia destra scegliendola a caso, fortunatamente si rivela giusta, vengo fuori da quel maledetto labirinto e dinnanzi mi si stende l’enorme parcheggio dove Saverio ha lasciato la macchina. Barcollo, muovendomi tra le macchine, su di una mi appoggiato per non cascare a terra lasciandoci una bellissima impronta della mia mano destra imbrattata di sangue. Cerco di orientarmi ma nella penombra del crepuscolo le macchine sembrano tutte uguali, occorrono parecchi minuti per trovare il BMW di Saverio.
- Le chiavi? Le aveva Saverio…
Colto dal furore sferro una violentissima gomitata sul finestrino del lato guida mandandolo in frantumi, l’allarme comincia ad urlare doloroso. Saverio tiene una chiave di riserva, gli avrò detto almeno cento volte che nel portaoggetti non serviva a nulla; se perdeva l’originale poi come l’apriva la macchina? Fortunatamente non ha mai voluto darmi retta. La infilo girandola con forza, il motore s’avvia con un rombo quasi volesse esplodermi sotto il cofano. Innesto la prima e le ruote girano a mille stridulando sull’asfalto, emanano fumo acre di plastica bruciata che invade l’abitacolo. Cerco di guidare con calma, il traffico scarso mi permette di evitare troppi giri, ogni movimento mi provoca fitte ancora più forti. Due semafori dopo riesco ad imboccare la strada costiera.
12
Via Zara, 16.
Il campanello all’ingresso suonò con uno squillo acuto e forte che si propagò per tutta la casa. Sally fissò la porta perplessa di trovarsi già lì, probabilmente aveva sceso le scale fantasticando sull’incontro con il suo bel Giacomo, ormai era un chiodo fisso. Sorrise compiacendosi di come alla fine era riuscita a seguire il consiglio di Barbara. La sua amica aveva ragione su tutto, era stata così stupida nel ostinarsi a non credere nella bontà dei suoi sentimenti. L’odio che provava per il mondo che era cambiato l’aveva spinta ad isolarsi, convincendola che gli altri la guardassero con disprezzo. Ciò era vero ma non per la sua menomazione fisica bensì per l’atteggiamento ostile che teneva, presa finalmente coscienza di ciò gli fu facile ritrovare se stessa, riguadagnarsi la fiducia degli amici e l’amore di Giacomo. Il campanello suonò ancora.
- Si, arrivo!
Camminando veloce verso la porta, incrocio distrattamente lo sguardo del suo riflesso sullo specchio a parete accanto all’ingresso; si bloccò colpita dal fatto che in questo non portava più le stampelle. Tornò allo specchio al quanto perplessa, l’immagine non mutò; solo allora s’accorse che non stava più usando le stampelle per camminare. Lo shock fu forte, fissava incredula quel riflesso assurdo, che lo divenne ancora di più quando apparve, dietro di se, il riflesso di una figura femminile vestita di nero. Si voltò di scatto ancor più spaventata.
- Lei chi è?
- Mi spiace, Sally, sono venuta a prenderti.
- Cosa?! Io non capisco...
Fissava la sconosciuta e si chiedeva cosa fare. Pensava a mille cose, dietro la porta c’era Giacomo, poteva urlare o tentare di uscire ma... poi vide cosa c’era per terra, disteso dietro la donna in nero. Alla base della scala il suo corpo inerme stava sdraiato scompostamente sul pavimento, le stampelle lontane, lo sguardo sbarrato che fissava inespressivo il soffitto. Il respiro assente.
- Sono morta?
- Si. Scendendo dalle scale sei caduta. Tua madre è nel giardino, rientrerà tra un minuto trovandoti lì. Credo sia meglio che tu venga con me ora, così potrai risparmierai almeno quest’altro dolore.
Il campanello suonò per la quarta volta.
- No… non voglio! Ti prego lasciami stare, io l’amo... voglio stare con lui, non puoi dirmi che devo lasciarlo proprio ora che mi sento felice!
- Io non posso fare nulla. Mi dispiace piccola, non vorrei separavi ma devo.
- No, non è giusto.
Lo sguardo di Sally si fece cupo, andava irrequieto dalla donna alla porta. Lacrime argentate solcarono il suo viso pallido di bambina indifesa ormai rassegnata. Dietro la porta Giacomo si faceva insistente.
- Sally perché non apri? Ho sentito un colpo.
Dal giardino vicino giunsero altri rumori. La mamma annaffiava le rose, incuriosita da tutto quel trambusto, stava per rientrare, vedeva già la sua sagoma in controluce nella porta vetrata che dava sul retro. Per un attimo provò ad immaginare la sua reazione, quella di Giacomo o di Barbara e non riuscì a sostenere quel pensiero.
- Ti prego portami via.
Prese la mano della donna in nero e svanì.
13
Al tramonto.
La macchina fila veloce nella strada deserta passando dalla luce di un lampione al buio che lo separa dall’altro, una monotonia rotta solo dal rombo del motore. La ferita al fianco continua a dare dolori fortissimi, il tampone che gli premo contro é ormai inutile, il sangue scendere caldo e appiccicoso anche se meno copioso di prima. Sorrido, ho perso troppo sangue e sento il corpo farsi debole, la testa stordita continua a propormi le parole di Saverio e vecchi ricordi. Ora non so dire chi avesse ragione: io o mia madre? Con tutti gli errori che commettiamo in vita sarà normale ripensare alle scelte fatte in punto di morte? Dovrò chiedere perdono a Dio? Forse è colpa del destino, quell’eterno burlone che gioca con le nostre vite. Ora mi ritrovo su questa strada, non è un caso che sia la stessa che quattordici anni fa segnò la vita dei miei compagni e la mia. Azzardando un confronto m’è difficile dire chi tra tutti noi sia stato più fortunato, forse loro. Ormai sono troppo confuso, non riesco più a distinguere cosa sia la realtà e quale il ricordo, la paura, il sogno. La strada mi si stende dinanzi ma non la vedo quasi più; c’è una curva là davanti?
Il BMW perde stabilità pochi metri prima della curva. Sbanda a desta, poi a sinistra, andando a sbattere contro le protezioni che lo separano dalla carreggiata opposta. L’urto violentissimo disintegrano il muso dell’auto, frammenti di carrozzeria e parti del radiatore vanno per aria, cristalli di vetro si spargono ovunque. L’automobile compie due piroette su se stessa prima di fermarsi. Pochi istanti ed un’esplosione trasforma il rottame in una palla di fuoco che si alza maestosa nel cielo. Le fiamme, gialle, alte, danzano sulla strada illuminando il litorale.
14
Altrove.
Piangeva. Ancora lacrime, scivolano calde sulle mani che coprono il viso, copiose come il dolore che nel cuore la fa sentire male, rimpiangendo di aver accettato quel patto scellerato con Lui.
- Capisco il tuo dolore.
Alzò il viso riconoscendo quella voce. Si voltò e vide un uomo vestito di un aderente abito nero vicino a se, appoggiato alla grande quercia. Avvertì dentro come un fuoco che trasformò in un attimo il dolore in rabbia.
- Sei venuto a godere della mia sofferenza!
- Io ho voluto solo darti una seconda possibilità.
- Per farmi cadere addosso tutto l’odio degli uomini?
Ormai era l’ira a guidare i movimenti della donna, l'aspetto mutò assumendo le sembianze di un grande scheletro avvolto in una mantella sfilacciata, armata di una lunga falce che brandì contro il suo interlocutore. La falce squarciò l’aria con un sibilo, diretta sul volto dell’uomo, fermandosi incredibilmente a pochi centimetri da lui che rimase impassibile; solo gli occhi esprimevano un profondo dolore.
- Non ho mai detto che sarebbe stato facile essere la Morte.
Lo scheletro s’accorse solo ora della gravità del gesto che stava compiendo e istintivamente lascio la presa della falce che cadde pesantemente sull’erba.
- Perdonami...
- No, sono io che dovrei chiedere perdono, a tutti vuoi.
La riacquistata lucidità la fece lentamente ritornare nella sua forma originale, sconvolta dal dolore si accovacciandosi tremante ai piedi dell’uomo.
- Basta, non c’è la faccio più! Quello che ho provato quando sono andata a prendere quella ragazza mi ha sconvolto. Sono stanca di prendere quelle povere anime e sentirmi responsabile del loro dolore. Ti prego: spezza il patto!
- Non posso.
- Sì che puoi!
- Così facendo la tua anima si perderà vanificando i tuoi sacrifici.
Quell’uomo misterioso sembrava credere veramente in ciò che diceva, una sicurezza che la metteva a disagio, ma al tempo stesso la rendeva ancora più curiosa verso di lui.
- Da quando sono arrivata in questo posto mi sono sforzata di capirti, e stato l’unico motivo per accettare il tuo patto.
- Vorresti capirmi?
- Si, parlami della tua storia… chi sei realmente.
- Quando giunsi al mondo io non conoscevo il Potere, ciò che vuoi umani chiamate amore. Alla mia specie era negata questa forma di vita così, non capendola, noi la disprezzavamo, distruggendo le vite che per lei vivevano. Furono un uomo ed una donna ad insegnarmi il vero valore di ciò che mi mancava, ma quando l’appresi iniziai a cambiare e scatenai l’ira dei Creatori. Per tale peccato fummo esiliati.
- Scacciati dalla vostra casa?
- Peggio, perseguitati e uccisi, odiati come esseri infettati da un male incurabile e contagioso. Io ho dovuto combattere per difendere il mio e il vostro diritto a vivere, e nonostante tutto sono riuscito solo a guadagnare un rinvio sull’inevitabile fine. Le vostre azioni determinare il giudizio finale.
L’uomo in nero si avvicinò alla pietra accarezzandone la superficie levigata. La donna non poté fare a meno di provare un brivido osservando le sue mani, le profonde cicatrici simili a buchi, che le segnavano in maniera indelebile.
- Queste lapidi rappresentano le anime di tutti coloro che si sono persi, incapaci di credere nel Potere. Questi poveretti passano di vita in vita cercando ciò che forse non troveranno mai.
Lo sguardo tornò sulla donna inginocchiata dinanzi a lui.
- Anche tu ti saresti persa. Io sono responsabile della vostra condizione, ma non capisco gli umani che non riescono a credere. Perché non vuoi credere Alicia?
- La mamma, ricordo ancora le sere che litigava col papà. Io stavo nascosta sotto il letto della mia camera, la porta era chiusa, ma sentivo ugualmente le loro urla e avevo paura. Quando la mamma rimaneva sola spesso si ubriacava e parlava del suo dolore, ripeteva sempre la stessa frase: gli uomini sanno solo farti male, l’unica anima che un essere umano ama di più è se stesso.
- Che cosa successe poi.
- L’odio crebbe con me. Non potevo continuare a sopportare i continui tradimenti di mio padre, ma ancora più insopportabile era il perdono che la mamma gli concedeva ogni volta.
- Così reagisti al posto suo…
- Non fu un’azione volontaria, forse la paura, o la rabbia. Quella sera stavano litigando vicino alla rampa delle scale, la mamma lo pregava in ginocchio di non tradirla ancora, che così facendo la stava ammazzando piano… e lui come rispose alle sue suppliche?
- Ridendo!
- Si, rideva e la sbeffeggiava perché era in suo potere, lei l’amava ancora, sperava che prima o poi lui sarebbe cambiato, ma era solo una bugia dettata dalla disperazione.
- Tu lo spingesti giù dalle scale.
- Forse una bambina di dieci anni non può concepire una simile mostruosità. Semplicemente accade. In qualche maniera mio nonno sistemò le cose con la polizia, era stato un tragico incidente, nulla di più. La mamma però era li, vide tutto e da allora cambiò atteggiamento nei miei riguardi, come se io fossi la causa di tutto il suo dolore. Con il passare degli anni, il peso accusatorio del suo sguardo, ma ancor più doloroso era il mutismo perpetuo in cui s’era rinchiusa, mi seppellirono nel dolore.
Alicia vedeva l’uomo nero nell’ottica distorta, tremolante, delle lacrime. Era sempre difficile parlargli di quelle cose e riuscire a sostenere il suo sguardo, così come sempre lo abbassava, a guardare le lacrime che cadevano ai suoi piedi.
- L’unico amore che desideravo era quello di mia madre ma lei non volle più aprirmi il cuore… odiavo gli uomini che l’avevano fatta soffrire, odiavo quell’inganno chiamato amore e per paura di tutto ciò diventai una suicida. Dante a quale girone mi avrebbe mandato? Alla fine sono qui per aver infranto le tue regole. Sai solo riempirti la bocca di belle parole o dietro tutto questo c’è un senso ben più alto.
Lo fissò con un motto di puro disprezzo, non per quello che era bensì per la figura che rappresentava: gli uomini.
- Avete costruito un mondo fatto di valori e priorità persino nell’amore, stabilendo cosa sia bene o male, e per giustificare le vostre scelte vi siete convinti che così fosse il volere di Dio.
- Ci sbagliavamo?
- Si, io non ho mai stabilito alcuna regola, avete dimenticato il significato del Potere e creato questa prigione. Posso solo chiedere agli smarriti come te di fare un patto, diventando un emissario della morte, perché questa è la via più veloce per salvarsi. Per quanto riguarda Dante non so bene dove sia ora.
L’uomo in nero sfiorò il viso della donna con un movimento leggero della mano, gli sorrise cercando di trasmettergli un po’ di serenità.
- Vuoi umani pensate d’essere soli, materialmente forse lo siete, ma spiritualmente io non vi ho mai perso di vista, purtroppo non c’è modo che vuoi possiate sapere queste cose. Io non ho il potere di comunicarvele. Non posso tendevi le braccia, ne parlarvi… ma vuoi potete! Potete abbattere ogni distanza se ci crederete veramente perché nessuno su questa terra può vivere da solo. Io, nonostante tutto, rimango uno spettatore, incapace di influenzare gli eventi, ma vuoi potete cambiare tutto in qualsiasi momento. Basta crederci.
Silenziosamente com’era arrivato l’uomo nero svanì, dietro la quercia, lasciandola sola. Rimanevano però nell’aria ancora le sue parole, leggere come un soffio di vento.
- Quando arriverà il momento credi nel Potere, solo allora sarete liberi.
15
Eden.
Cammino. L’erba grigia scricchiola sinistramente sotto i miei piedi come fossero fili di plastica bruciata. Mi blocco dinanzi a tanta desolazione, all’orizzonte il cielo in tinte viola è solcato da nubi nere, si confonde oscenamente con la terra bruciata facendo apparire tutto terribilmente simile ad un incubo. Ricordo la macchina che correva seguendo la strada, la debolezza, l’incapacità di riuscire a rimanere sveglio… ma ora dove sono? In lontananza scorgo una figura scura appena distinguibile nel grigiore generale, tra le mani le brilla la lama sinuosa di una lunga argentea falce. La Morte, in un attimo mi è dianzi. Avverto il suo alito caldo e dolciastro soffiarmi in volto, terrorizzerebbe chiunque sovrastandolo con la sua enorme mole, io invece mi ritrovo confuso, stupito da pensieri che non riesco a capire. Emozioni, paure, sogni. Alzo lo sguardo, fisso perplesso le sue orbite vuote nel bianco screpolato di quel teschio indecifrabile, gli strani pensieri non mi danno tregua, mi martellano oscenamente la testa come volessero rivelarmi non so cosa. Forse una traccia, un indizio perso nel tempo, il ricordo di quella donna vestita di nero che piangeva, forse dovrei fare come lei, piangere e supplicare pietà.
- Sono la morte, ne sogno né visione, semplicemente la morte. Tu mi conosci bene, ma capisco che come gli altri fingi che io non esista.
La sua voce mi scuote come il boato di un tuono lasciandomi esterrefatto.
- Non hai paura di me?
Quella domanda risuona familiare.
- No.
- Non temi il nulla?
- Tutta la mia vita è stata nulla, il tuo non può essere peggiore.
Attimi di silenzio, stiamo semplicemente uno dinanzi all’altro. Un vento inesistente scuote la sua mantella nera facendo ballare per aria brandelli sfilacciati di stoffa.
- Rispetto la tua serenità, almeno non mi hai lagnata con inutili suppliche di pietà; faremo in fretta.
La falce dondolò tra le sue mani, alzandosi nell’aria con maestosa imponenza, ora è perpendicolarmente sopra la mia testa, pronta a calarmi addosso.
- Vuoi esprimere un ultimo desiderio?
- Si, vorrei rivedere lei.
- Lei chi?
- La donna vestita di nero che piangeva.
- Cosa vorresti dirgli?
- Che io la amo.
Rimase immobile in quella scomoda posizione, colpita in pieno dalle mie parole, percepì il dubbio nel suo volto osseo, mentre i miei ricordi divenivano sempre più chiari e la convinzione in loro più solida.
- Come fai a dire una cosa simile, proprio tu che hai sempre rifiutato l’amore?
- Non lo so, o meglio è un sensazione che mi tengo dentro da sempre, come un fuoco tenue ma vivo. Anche quando la incontrai la prima volta sentivo la stessa cosa ma per codardia non volli convincerla dei miei sentimenti.
- Certo, avevi paura di soffrire ancora.
- No, avevo più paura di ferirla, perché prima o poi, anche involontariamente, l’avrei in qualche modo ferita, e per questo avrei sofferto anche io. Ma anche così so d’averla fatta soffrire…
- Basta con queste stupidaggini! Calando la falce su di te scenderà il giudizio per le colpe di cui ti sei macchiato in vita!
La figura scura si mosse rapida senza esitazioni. La falce dondolò all’indietro, prese il giusto slancio, e calò in avanti fendendo velocissima l’aria, calandomi addosso. Non so dire a cosa pensassi di preciso in quel momento, non m’importava gran che della falce, del giudizio o di quant’altro, ma sentivo chiaramente il desiderio di rivedere quella donna. Era come una voce sconosciuta che mi urlava dentro, così come allora, la convinzione che il nostro incontro avrebbe determinato il futuro di entrambi. La falce si conficcò in profondità tra l’erba scura davanti ai miei piedi senza scalfirmi minimamente. La Morte lasciò la presa, il manico della falce vibrava energicamente per il contraccolpo, lei si mosse stupita vedendomi intatto nonostante la lama mi avesse in pratica tranciato in due. Incredula cadde in ginocchio dinanzi a me, portando le mani ossee sul viso.
- Io sento i tuoi sentimenti, sono gli stessi di allora, ora capisco: la falce non può giudicarti.
- Non so cosa stia succedendo, sento solo il desiderio di vederla ancora, e non capisco per quale motivo, perciò ti prego: se sai dove sia conducimi da lei.
Le lacrime m’invasero gli occhi, per quanto ricordo non avevo mai pianto per qualcuno, ora cercare di contenerle era impossibile, non so per quale motivo ma il pensiero corse subito a Monica, sarei fuggito ancora? No, questa volta voglio andare fino in fondo, sono pronto ad affrontare tutto, anche quest’orribile scheletro se sarà necessario, ma non voglio più aver paura di ciò che provo. Mai più. Per quanto incredibile non ci fu bisogno di combattere o d’altre discussioni, vidi nelle orbite vuote di quel teschio screpolato dal tempo, il luccicare di una lacrima. La seguì mentre si muoveva lentamente scendendo giù dagli alti zigomi, attraverso la lunga mandibola per fermarsi sull’appuntato mento osseo, come indecisa se fermarsi o cadere. Solo un attimo per spiccare il volo, poi giù, attraverso l’aria rarefatta fino a raggiungere e sparire tra l’erba nera, frammentandosi in decine di piccole perle argentate.
PLINK!
Ero sbalordito, dinanzi mi ritrovai non più la morte, né la donna in nero che piangeva, ma una nuova figura. Un candido vestito bianco l’avvolgeva seguendo docilmente le linee del suo corpo. I capelli rossi sciolti, appena mossi, il viso lungo di un rosa caldo, i suoi occhi neri ammantati di lacrime che mi fissavano, increduli. Era la stessa ragazza che avevo incontrato nella valle ma al tempo stesso non lo era, ma forse in questo luogo tutti noi assumiamo una forma ogni volta diversa. Anche il mondo attorno a noi era radicalmente mutato, ora nuovamente la vallata fiorita, l’Arca, la luce dolce di una splendida scala di cristallo che saliva, scomparendo nel lontano chiarore del cielo.
- Non è un sogno, vero?!
Lei pronunciò quelle parole con un filo di voce, quasi avesse paura che un tono tropo alto potesse risvegliarla in una realtà diversa.
- No.
Gli tesi la mano per aiutarla ad alzarsi e ancora mi persi a contemplarla, mi appariva così bella è fragile.
- Lui mi ha sempre detto che sarebbe bastato credere, seguire la voce del cuore, per essere liberi, ma non avrei mai creduto in nulla di così facile.
- Ora che né facciamo di questa libertà, non possiamo vivere qui?
- No, non possiamo, ma la scala…
Entrambi guardammo la lunga gradinata di cristallo, appariva luminosa come un raggio di sole di primo mattino.
- Dove porta quella scala?
- In un luogo dove si avverano i sogni; vorresti venirci con me?
- Si.
Nello slanci del momento le nostre labbra si unirono, cogliendo finalmente quel bacio che avevo sempre desiderato. Nel silenzio di quel luogo ci avvicinammo alla luce della scala di cristallo che sembrava chiamarci, come se ci aspettasse da sempre. Passo dopo passo percorremmo tutti gli scalini finché anche noi non diventammo parte della luce.
16
Eden.
L’uomo vestito di nero stava immobile accanto all’alta quercia, fissava la lapide bianca con un sorriso di piacere. Nella nuda roccia l’immagine di una donna dai capelli rossi lentamente scomparve.
- Grazie per aver creduto alle mie parole, ora siete liberi.
Era felice, altri due spiriti s’erano incontrati raggiungendo il giardino celeste. Guardando la scala si domandava se il suo potere sarebbe bastato, se gli uomini avevano la forza sufficiente per credere o se si fossero persi ignorando il richiamo del cuore. La valle era disseminata di centinaia di lapidi, anime smarrite il cui numero preciso neanche lui conosceva, temeva troppe. La sua felicità fu soffocata dallo sconforto e gli occhi si riempirono di lacrime.
- Non puoi piangere per tutti gli uomini. Persino Dio si disinteressa di loro ormai, e tu non puoi certo prenderne il posto.
Alzò lo sguardo stupito. Da un fitto frutteto alla sua destra vide emergere la figura di un altro uomo, biondo, dall’aderente abito bianco simile al suo; se non fosse per questi particolari sarebbero stati due perfetti gemelli. Gli si avvicinò sorridendo, cordiale come un amico benché il loro ultimo incontro si fosse concluso in una furibonda lite. L’uomo in nero lo guardava incredulo di ciò che i suoi occhi gli facevano vedere. L’altro guardò compiaciuto le immensità della vallata, i suoi frutteti, la sagoma nera della grande arca, ma ciò che ammirava maggiormente era la splendente scala di luce. Forse riusciva anche a sentire nelle parole del vento il canto delle anime, il suono della loro felicità, e anche lui parve felice di ciò.
- Ti ricordi quando siamo arrivati?
- Si. Avevamo un compito semplice, eseguito migliaia di volte.
- Non potevano presentarsi delle complicazioni, gli umani sono tutti uguali, sembrano fatti con lo stampino. Quando però ti rifiutasti di distruggerli, io non riuscivo a capirti il motivo della tua scelta.
Non sembra cambiato, almeno nell’aspetto, forse e venuto qua per attaccarmi e prendersi la sua rivincita, ma negli occhi i sentimenti che rispecchiano sono totalmente l’opposto dell’odio. Il viso contratto in una smorfia sembra quasi esprimere un pentimento profondo, come di chi sa d’aver sbagliato.
- Dopo la nostra lite mi incuriosì sulle cause del tuo cambiamento. Nelle profondità della terra, dove mi avevi scaraventato, incontravo molte anime perse, venivano da me a cercare delle risposte sul Potere, sul come uscire da quel limbo di solitudine. Io però non capendoli ero incapace di rispondergli…
Il suo sguardo era carico di dolore, fissava la scala di luce, ma i suoi pensieri parevano indecifrabili.
- Finché un giorno sei sceso tra gli uomini per vivere, soffrire ed amare come loro. Pensa che sacrificando la tua vita per dargli una speranza tu fossi impazzito del tutto. Quel tuo gesto però mi aprì la mente, iniziai a cambiare e molto tempo dopo anche io scesi sulla terra per vivere come umano.
- Tu sei arrivato a tanto?
- Ti dirò di più, l’ho fatto più volte di quanto credi, solo così sono riuscito finalmente a capire il significato del Potere. Ora per questo ti dico grazie.
- Lucifer; fratello mio.
Si abbracciarono, lasciandosi trasportare dalle emozioni, dalle lacrime, dalla gioia. Dal giorno dell’esilio non avevano più avuto contatti, l’uno contro l’altro, per millenni, ora tutto ciò era finito.
- Presto giungerà il giorno dell’unificazione, i Creatori dovranno accentare il Potere, ciò che persero per divenire Dio. Quel giorno finalmente Padre, Figlio e Spirito si riuniranno.
- Sai Lucifer, non ho paura di ciò. Anche se tutti noi saremo distrutti per causa delle nostre scelte, so che da qualche parte nell’universo altri uomini continueranno a credere nel potere.
- Fino a quando sarà cosi noi avremo ragione.
Rimasero in silenzio guardando la valle. I movimenti dei prati scossi dalla brezza del vento, il risuonare dei canti, le risate di felicità che dalla scala di luce si propagavano in ogni dove, cercando di arrivare, sulle ali di quella brezza, sino al cuore degli uomini, sulla lontana Terra.
Dedicato a Monica. Un grazie ovunque tu sia.
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