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Alba
Otto anni e cinque mesi.
Sono qui da otto anni e cinque mesi.
Sono rinchiuso qui da otto anni e cinque mesi.
Oggi farà molto caldo, me lo sento. Già filtrano i primi raggi di sole dalla finestra semiaperta. I miei vestiti sono zuppi di sudore.
C'è solo quella piccola finestra nella mia stanza. In alto, nella parete vuota. Il mio unico contatto con la realtà esterna.
Le altre pareti sono coperte di fotografie che raffigurano paesaggi, animali, persone. Le persone sono tutte allegre. La mia foto preferita è quella in cui una ragazza sorride mentre mangia un cono gelato, che le sgocciola sul prendisole rosa.
Accanto a lei ci sono altri ragazzi della sua stessa età; uno suona addirittura la chitarra, seduto sul prato, con la schiena appoggiata al tronco di un albero. È l'unico che non sorride.
Ho dato un nome a la ragazza del gelato. L'ho chiamata Alba. Perché l'alba era il momento della giornata che preferivo, e un tempo mi svegliavo presto tutte le mattine apposta per godere di quella visione.
Ora ho quasi dimenticato quella sensazione. Adesso la prima cosa che guardo al mio risveglio è la foto della ragazza che sorride, mentre mangia un cono gelato, che le sgocciola sul prendisole rosa. Alba.
Non so chi abbia scattato quelle foto. Non so a chi appartengono. Forse appartengono a loro o forse le ha scattate qualcun altro. Io le ho trovate sulla parete il primo giorno in cui sono arrivato lì, nella terra di nessuno.
Non so nemmeno perché abbiano attaccato delle foto alle pareti. A quale scopo?
I primi tempi ricordo che le giornate sembravano infinite. Dormivo poco, mangiavo poco; a volte rifiutavo persino il cibo. E poi non c'era nulla da fare. Combattevo la noia con la disperazione, e la disperazione con la noia.
Ogni due settimane, insieme al vassoio con il cibo, che mi perveniva tramite un'apertura in basso situata accanto alla porta, iniziarono a portarmi anche un libro. Per mesi ne ho accumulati decine, senza mai leggerli.
E loro me li lasciavano lì, non se li riprendevano, anche se sapevano di certo che non li leggevo. Probabilmente mi spiavano, tramite telecamere nascoste, di questo ero assolutamente certo.
Poi un giorno ne iniziai a leggere uno. Era Oliver Twist. Lo lessi in pochi giorni. Poi lessi tutti gli altri. Iniziai ad attendere con ansia che il giorno del libro arrivasse; il book day: lo avevo chiamato così, e lo attendevo con la stessa impazienza con cui attendevo il giorno di natale quando ero bambino.
Avevo capito che era inutile piangermi addosso; i libri costituivano un momento di evasione da quella realtà inaccettabile e senza risposta. Dovevo sopravvivere.
Per giorni, i primi tempi, avevo provato a fare domande, urlando, sperando che qualcuno potesse rispondermi, dall'altra parte di quella porta blindata. Ma quella era la terra di nessuno. Nessuno mi rispondeva.
Non avevo più sentito voci umane da quando la mattina di otto anni e cinque mesi prima un uomo mi aveva costretto a salire su un'auto, per condurmi qui.
L'ultima frase umana che ricordo è "entri in macchina e non faccia domande", mentre sulla schiena avvertivo la pressione di una pistola. Quell'uomo era senz'altro un criminale, un balordo. Che però mi dava del lei. Mi ricordo che trovai questo fatto alquanto curioso e strano.
C'era stata poi quella volta, un paio di anni dopo l'inizio della mia prigionia, in cui avevo sentito due uomini parlare, o almeno così mi era sembrato. Sono estremamente convinto di non essermeli sognati. Due uomini parlavano a pochi metri dalla mia stanza.
Quella volta percepii solo un brusio di voci, nulla di più. Non riuscii ad identificare nessuna parola o frase che avesse un senso.
Ad un certo punto ci fu un periodo in cui sperai persino che qualcuno potesse dire anche cose terribili, offese, minacce. Se era questo il prezzo da pagare per tornare a sentire voci umane, allora lo avrei pagato.
Ma nessuno parlava. Nemmeno la natura. A stento sentivo il cinguettio di qualche uccello in lontananza, e a volte neanche quello. L'unica cosa che potevo ascoltare era il rumore del vento, soprattutto in inverno.
Raramente pioveva, ma quando avveniva era qualcosa di sublime. L'odore mi inebriava e cercavo di respirare a pieni polmoni, più che potevo.
Spesso salivo sull'unica sedia della stanza, per avvicinarmi alla finestra in alto. Era davvero troppo piccola. Se solo fosse stata più grande, forse avrei anche potuto accettare meglio quella situazione.
Il panorama che mi trovavo davanti non era altro che un muro di cemento armato, situato a qualche metro di distanza dall' edificio sconosciuto in cui mi trovavo, e sopra di esso riuscivo a malapena a vedere una sottile striscia di cielo.
Ero quasi certo che non ci fossero nemmeno alberi attorno a quel posto, perché non riuscivo mai a sentire il fruscio dei rami e delle foglie.
Una volta sentii il suono di un aereo in lontananza. Poi nient'altro.
Credo di essermi abituato al silenzio dopo circa tre anni. Con il passare del tempo ho perso la voglia di parlare, e anche la capacità di farlo. Prima infatti parlavo, anche se da solo.
Adesso non ricordo più nemmeno il suono della mia voce.
Ho smesso di chiedermi perché sono qui.
Non ho mai fatto del male a nessuno.
Non ho mai avuto nemici.
Non ho mai odiato.
Non ho smesso di sperare. Non ancora.
Otto anni e cinque mesi.
Sono qui da otto anni e cinque mesi.
Sono rinchiuso qui da otto anni e cinque mesi.
Qui, nella terra di nessuno. Sopravvivo.
È ancora l'alba.
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0 recensioni:
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Anonimo il 17/02/2012 16:00
Interessante. A me ha ricordato "Le menzogne della notte" di Bufalino. Bel racconto
- Interessante, sembrerebbe più un incubo che una situazione reale. Angosciante anche perchè non c'è spiegazione. bravo.
- Scritto molto bene, riesci a comunicare la tensione e le sensazioni provate, quel senso claustrofobico di chi ha nostalgia della libertà ma accetta la situazione sperando. Anch'io lo vedo come una metafora di una condizione senza via d'uscita.
Complimenti e benvenuto.
- grazie carla, mi fa piacere che ti sia piaciuto. si infatti, la vedo così, come una metafora di una possibile condizione umana, da cui può essere difficile venire fuori.
Anonimo il 14/09/2011 12:44
bellissimo scritto... io lo vedo come una metafora... come tu dici, della condizione umana... comunque bravo mi è piaciuta molto... carla
ps benvenuto
- beh, che dire se non grazie a tutti! volevo chiarire che il racconto può essere visto da diverse prospettive... può essere visto sia come una condizione reale, quella di una persona che realmente subisce una prigionia, sia come una metafora di una condizione umana, una prigione creata dalla propria mente. in ogni caso si può prestare a diverse interpretazioni. sono d'accordo con bianca e alessandro, la tematica potrebbe essere sviluppata ancora, anche se il racconto lo reputo già in sé compiuto, e sono contento che susciti delle sensazioni che non lasciano indifferente il lettore.
un saluto!
- Come esordio non c'è male... scrivi bene e crei una giusta tensione narrativa... La storia mi ha lasciata un po' sconcertata... succede così quando non si riesce a dare una spiegazione alle cose... Sono d'accordo con Alessandro quando dice che potrebbe essere un buon incipit per un racconto più corposo... Ah, e non dimenticarti di svelarci il finale la prossima volta...
Anonimo il 14/09/2011 08:41
L'impatto, già dalle prime battute, è drammatico e il fatto di non sapere dove e perchè il protagonista del monologo è rinchiuso fa provare un forte ed esasperato senso di claustrofobia accentuato dalle parole del brano. Un racconto intenso, misterioso e carico di angoscia con un forte impatto sul lettore, complimenti!
Anonimo il 13/09/2011 20:25
Stai attento perché è un film di una violenza inaudita ci vuole un po' di stomaco per reggerlo.
- grazie mille. non conosco il film, ma adesso andrò a cercarlo, sono curioso.
leggerò qualcosa di tuo adesso!
a presto
Anonimo il 13/09/2011 20:02
Molto ben scritto mi ha ricordato a tratti un film orientale di nome Old Boy. Comunque potresti continuarlo, sembra un perfetto incipit per qualcosa di più esteso.
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