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Un'eroina d'altri tempi
Il sole sul filo dell'orizzonte era diventato un disco di fuoco e pennellava il cielo a varie tinte.
Una luce fioca e rossastra filtrava tra gli arbusti, come se avessero acceso un falò in lontananza.
Dal terreno si innalzava un caldo vapore profumato di muschio e di legna marcia.
Bisognava affrettarsi; presto sarebbe sceso il buio nel bosco.
Dina, dopo una lunga giornata di luce sfavillante, era sfinita dalla fatica, nella discesa abbandonava il suo corpo alla forza di gravità che la spingeva a valle.
Non riusciva a controllare le gambe, non le sentiva più sue, e le braccia pendolavano libere assicurando un equilibrio instabile.
Arrivata a valle, in un piccolo spiazzo, prese dalla cinta un pezzo di stoffa, lo arrotolò intorno alla mano sinistra, se lo pose sul capo come un cuscinetto.
Poi si inginocchiò innanzi all'ultimo fascio di legna, lo afferrò con entrambi le mani, tirò un profondo respiro per raccogliere le ultime forze, e se lo sollevò sulla testa.
Saliva piano, annaspando, con i piedi che non volevano saperne di sollevarsi a dovere.
Si impigliava tra i rovi, scivolava sull'erba e sul terreno polveroso; la legna ogni tanto urtava vicino agli arbusti e le dava uno scossone.
I capelli scompigliati le si attaccavano sulla fronte, sul volto, sugli occhi.
Il sudore scorreva a rivoli; i suoi occhi erano ormai appannati come da un velo e procedeva a tentoni, con le vesti che si appiccicavano addosso e le impedivano i movimenti.
Borbottava la povera giovane, prendendosela ora con questo ora con quello, ma più ancora con la sorte nera che non ha pietà e paura dei poveri, che sovente si accanisce con essi come se ci trovasse gusto.
La sorte era per Dina una entità personificata debole con i forti e forte con i deboli.
Arrivata sull'aia, dove era in preparazione il "catuozzo" per fare il carbone, buttò il suo peso insieme alla pezzuola che era servita da cuscino, come una liberazione, e fece un lungo respiro.
- Dina!- Si sentì chiamare. Ebbe un sussulto.
- Fano, siete voi? Come mai a quest'ora?
- Sono venuto a prenderti con il cavallo, sei tanto stanca-
Un fuoco le avvampò il viso, le prosciugò il sudore; sentì un brivido per tutte le ossa. Alzò la testa e i loro occhi si incontrarono come in un abbraccio.
- No, signore, vi ringrazio; torno a piedi, da sola-
- Come vuoi, ma asciugati il sudore- e le porse un grande fazzoletto bianco.
Dina si lasciò cadere sul fascio di legna e si asciugò il volto e le braccia, poi istintivamente si rassettò con le dita i neri capelli scindi.
Lui, il sig. Fano, il suo principale, le stava dritto innanzi, bello nella sua sfolgorante gioventù di uomo dabbene.
- Sei bella Dina, scolpita dal sudore e i tuoi occhi brillano come due stelle in una notte senza luna- E si sedette vicino.
- Mangia un tozzo di pane-.
Dina stese la mano, lo prese e si allontanò leggermente.
- Perché ti scosti, Dina, ti faccio paura? Io... io son venuto per dirti che sono pazzo di te; sei bella, sai-
- No! Mio signore, non dite questo, io non sono la donna adatta per voi, io non sono del vostro rango, io... io sono ignorante e povera, sono nata per lavorare come una mula-
- E da oggi non lavorerai più in questo modo, sarai la padrona della mia casa, la mia cerbiatta...- E le poggiò una mano sulla spalla.
Dina non era più in sé, affogava in un guazzabuglio di sentimenti; la sua mente era completamente annichilita, come stordita da un forte trauma. Il suo corpo fremeva incontrollato, come la pelle di un asino quando è molestato dalle mosche.
Nessuno mai le aveva detto parole così dolci, mai aveva visto uno spiraglio di luce alla sua condizione di schiava; mai aveva provato un così intenso fremito della carne, una voluttà istintiva come una cagna in calore.
Si trovava sull'orlo di un abisso... sola... senza forze... senza un appiglio.
Lottava come contro un demone dal quale si faceva ammaliare con ogni, pur involontaria ed inconsapevole movenza.
Il suo corpo era sempre più appetitoso per Fano, parlava un linguaggio che strideva con le sue parole e il suo volere.
- Fano- infine disse con un sospiro - vi prego non mi confondete... non mi ingannate; sono una vostra operaia; i nostri destini...-
- Uniti sono i nostri destini, anche mio padre era un operaio, anch'io lo ero, nero di carbone. Poi la guerra, la miseria... ed io che avevo qualche lira ho cominciato a commerciare; ad acquistare e vendere legna... a fare il carbone con gli operai; non sono mica un nobile io...-
- La stirpe non è quella, ma voi siete ormai entrato a far parte dei nobili, non vi chiamano ancora don Fano ma tutti i nobili vi considerano loro pari-
E mentre parlava, Fano le aveva preso la mano nella sua e con l'atra le accarezzava la spalla, i capelli...
Dina era confusa, impotente, non sentiva quelle mani, non era presente a se stessa; si lasciava cullare come un ramo, divelto dalla tempesta, dall'acqua.
Si fece buio, quando i loro occhi si incontrarono e le labbra si aprirono come un fiore al fresco della sera. Dina ne rimase rapita, le membra completamente intenerite, provava un senso di beatitudine, di sottile piacere nelle carni e nell'animo... Si lascio scivolare piano... entrarono in un casolare, si amarono su un cumulo di paglia...
Quando Dina si riebbe dal sogno, si sentì improvvisamente un'altra: aveva perso la verginità e l'onore.
Era intontita, smarrita, come se fosse approdata in un luogo sconosciuto.
Poi improvviso ebbe un sussulto; come una leonessa infuriata allontanò Fano con una zampata.
-Perché lo hai fatto? Non dovevi!- disse, mentre la voce le moriva nella gola.
-Perché sei bella... perché mi piaci-, le rispose Fano, accarezzandosi il sanguinante avambraccio sinistro, sorpreso da quella reazione felina.
Nelle parole, istintive e sincere di Fano, c'era già un primo passo indietro, un primo tradimento al sogno, alle aspettative di una ragazza inerme. C'era la sicurezza e l'arroganza della conquista.
Il cavallo nitrì ... Fano, da gentiluomo, aiutò Dina a montare sulla sella e si avviarono verso il paese.
Fano camminava a passi svelti, con il capestro in mano, dritto ed impettito come un antico cavaliere che tornava vittorioso dalla battaglia.
Dina si dondolava leggera, dispersa nei suoi pensieri che evaporavano nell'aria quieta della sera.
-Fatemi scendere- disse risoluta, in vista delle prime case.
Fano si arrestò, compiacente, le protese entrambe le mani e Dina balzò come una elastica gazzella.
-Andate più piano, e buona notte. Io vado avanti- ed accelerò il passo verso casa, senza voltarsi.
Sul pianerottolo delle scale, sotto il pergolato, la madre ingannava il tempo sgranocchiando pannocchie in un grande sacco, al chiarore di luna.
-E che non vedevi la strada?- le mormorò quando le fu vicina, alzando appena il capo.
Dina borbottò qualcosa di incomprensibile, masticando le parole. Tanto sua madre non l'avrebbe mai compresa, mai potuta aiutare.
Entrò in fretta, quasi per non farsi guardare, mangiò un boccone di minestra, ormai fredda, seduta vicino al focolare spento; prese una lucerna ad olio e salì sulla soffitta.
Svestì la camicetta e la gonna consunte, spense la lucerna e cadde sul letto di paglia... sfinita nel buio.
Come il bambino lascia il ventre della madre e geme, il suo corpo e la sua anima si separavano da quella casa. Niente più esisteva intorno a lei, ma nella sua anima si apriva una voragine dove il chiarore della luna piena, che filtrava dal tetto, proiettava ombre diafane come le anime dei morti che si diceva uscissero di notte ora per proteggere ora per spaventare.
Quelle ombre si materializzavano anche ad occhi chiusi, assumevano forme di presenze ingombranti... i genitori... il paese... Fano... un groviglio di strade contorte...
Era sola, si sentiva sola... precipitata in un baratro... non poteva tornare indietro... Provava una strana sensazione, un senso di vuoto e di immenso... trasfigurata in qualcos'altro da sé
Il petto le batteva forte, sentiva un gorgoglio come se una pentola d'acqua le bollisse dentro, i pensieri si facevano pressanti, sempre più indistinti, inafferrabili, accecanti come il fumo del focolare.
Avrebbe voluto morire, dissolversi nel nulla. Eppure sentiva nelle carni un qualcosa di misterioso, di piacevole, un languore... un non so che mai prima provato.
Si assopì lentamente e cadde in un sonno profondo.
All'alba la madre la chiamò. Ebbe un sussulto, si stropicciò gli occhi e le sembrò di svegliarsi da un sogno e andò incontro al suo destino.
Il suo signore la lusingò ancora, la possedette con avidità come per ubriacarsi di sesso; ma era quasi violento, freddo, distante.
Lei si lasciava strapazzare, aveva voglia di gioire; ormai non riusciva a frenare il suo desiderio, franava nella discesa come una valanga senza possibilità di fermarsi.
Si sentiva appagata, redenta. Aveva trovato l'amore ma anche un sostegno un sogno un suo Dio.
Un giorno Dina si accorse di essere incinta.
Un'atra doccia fredda la seppellì in un cumulo di pensieri, paure...
Si sentì carica di responsabilità ... corse dal suo Fano con gli occhi lucenti e le braccia tese, con le dita spalancate... e si trovò innanzi ad un'ombra che non si lascia abbracciare... e strinse nel suo cuore una grande disperazione.
Fu un fulmine, un grande tuono che la svegliò da un sogno, sola, delusa, in un vicolo senza spiraglio di luce.
- Nooo, io ho dato parola ad una giovane... puoi abortire... ti procuro una donna-
- Vai satana, serpente ammaliatore che punge a tradimento... vai via dai miei occhi, uomo vile e senza coraggio...- E ritornò nella sua tana.
Quando un giovane commetteva uno sgarro, nel paese c'era l'usanza che doveva riparare. Non era possibile disonorare una ragazza, senza assumersene le conseguenze con un matrimonio riparatore. Tutto il paese condannava il giovane, i familiari della ragazza esigevano, anche con la violenza una sorta di lavacro della dignità perduta.
Ma quando una ragazza restava incinta dalla relazione con un uomo di un rango superiore, era considerata doppiamente colpevole, perché aveva oltrepassato il confine, "non era stata al suo posto", si diceva.
E per tutti era una puttana. E non c'era redenzione. Era un marchio di infamia indelebile sulla fronte.
Anche Dina restò sola scansata come una buca, un escremento che trovi sul cammino.
Ma ogni giorno si sentiva sempre più in compagnia di qualcosa di vivo dentro di lei e si guardava l'ombelico che si innalzava e accarezzava il ventre come per accarezzare i pensieri. Sperava, senza vedere una luce, sperava nel vento che diradasse la nebbia che la avvolgeva.
Dina amava ed odiava il suo Fano, quella follia di amore l'aveva trasfigurata, era un'altra, si sentiva donna.
Fano se lo portava nel ventre come un seme e nacque un fiore, con la pelle tenera, un petalo di rosa.
E lo allevò con cura, e camminava tra la gente mostrandolo orgogliosa.
E con quel fiore tracciò il suo cammino di donna onesta e sprezzante. E lavò il suo peccato d'amore e innaffio il giglio della purezza con il sudore.
La conobbi ormai anziana, come anziane sembravano tutte le donne di un tempo dopo la cinquantina.
Era semplice, povera, dinamica, istintiva e spontanea; parlava senza riflettere, libera da ogni pudore, da ogni ritegno. Parlava usando la logica spiccia ed arguta tipica della società contadina, di chi ha scarpe grosse e cervello fino.
Spesso dava giudizi taglienti, come per togliersi un sassolino per volta dalle scarpe ormai troppo pesanti.
Sulle donne sosteneva:
di nove tipi sono le puttane
ed una filastrocca biascicava.
Ci son quelle che lo han fatto per amore
ed hanno una ferita dentro il cuore;
le donne che lo fanno per diletto
e con ogni uomo vanno a letto;
le donne che lo fanno per denaro
e disdegnano il povero e l'avaro;
le donne che lo fanno per potere
e nobili e preti vogliono avere;
le donne chiuse in un monastero
appagano l'istinto con il clero;
Quivi si inceppava e al nono andava,
il tipo di puttana che odiava.
Vi sono infin le finte santarelle
Perfide donne e mignatte belle
Che di tutti dicono parole amare
Pure quando s'inginocchiano all'altare,
loro hanno un vuoto dentro il cuore
e di nascosto fanno l'amore
poi si ritengono tradite
e vogliono essere pagate e compatite.
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