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C'era una volta (secondo capitolo)
Dopo la colazione mio padre ci lasciava con mia madre tesa ed indaffarata; aveva sempre qualcosa di cui lamentarsi.
Non ricordo granché di tutti i rituali, ma una immagine è ancora vivida. Dopo vari preliminari si dedicava ai letti, un compito che si ripeteva uguale tutte le mattine.
Innanzitutto svuotava l'orinale che tenevamo sempre nella stanza da letto come un soprammobile, un fondamentale accessorio, forse per la difficoltà a raggiungere il cesso di notte, sebbene fosse a pochi passi nella stanza detta scura per via che era senza finestre. In quel tempo non c'era ancora la luce elettrica e accendere di notte la lucerna ad olio o l'acetilene era un problema.
Il water era un buco tondo in una nicchia scavata nel muro, sfociava in un cunicolo che divideva la nostra casa da quelle vicine. Un cunicolo all'aria aperta.
Mio padre aveva rifinito quel buco con un sedile di legno, che non ti faceva sentire il freddo delle pietre, ed ornato di un coperchio che evitava il reflusso della puzza della cacca specialmente quando fischiava la bora nella "cuntagna".
Poche famiglie si potevano permettere un cesso così. Ed anche tata Michele lo frequentava, puntuale ogni mattina.
Si faceva una grande confusione vicino alla bacinella dell'acqua, fredda e scarsa; io mi sciacquavo gli occhi di nascosto, bagnando l'indice come un sacerdote durante la messa.
La pigrizia, la ritrosia dell'acqua fredda faceva parte di una lunga catena di difetti che dalla nonna alla mamma tutti mi rinfacciavano.
Poi quando tutto si placava, mi incantavo a seguire la guerra che mia madre ingaggiava con le pulci.
Alzava lentamente il lembo delle coperte e le tre dita centrali della sua mano destra piombavo su un malcapitato pidocchio. Un balzo e la pulce si rifugiava nelle trincee della coperta. Spariva ai suoi occhi delusi. La donna non si perdeva d'animo, avanzava nella ricerca, alzando un ulteriore lembo di coperta. Ecco un'altra pulce. La mano partiva e la pulce scattava con un balzo disperato, stavolta atterrava in campo aperto sul bianco lenzuolo e l'assalto ripartiva, veloce, mirato. E la nemesi si abbatteva infine sulla pulce che sfinita cadeva nella trappola. Mia madre la strofinava sul lenzuolo, poi tra il pollice e l'indice, infine la poneva sull'unghia del pollice della mano sinistra e, tac, la schiacciava col pollice della destra.
Soddisfatta, ripartiva. Un'altra e un'altra ancora, fino a sei, otto, dieci pulci per letto.
Era una vera carneficina.
Dopo la battaglia, mia madre scoperchiava i materassi e lasciava che si arieggiassero.
Io guardavo ammirato, ma non potevo intervenire; se però qualche volta davo prova di efficienza mia madre era contenta come una leonessa dopo una ghiotta battuta di caccia con il suo leoncino. Ma era pudica e non si lasciava andare a complimenti e carezze, l'approvazione soddisfatta la leggevi negli occhi; non si mai fermava per godere di un momento, era sempre protesa in avanti, sul dopo.
Gli insetti formavano oggetto dei discorsi che si facevano vicino al focolare e nei crocicchi delle strade. Si raccontava che c'era gente maledettamente povera, povera e sciatta, povera e sporca. Perché la sporcizia e la povertà sono parenti come i malanni e la bocca sdentata.
Non so se anche oggi, nell'era della civiltà, avete mai osservato un povero estremo, i suoi tratti somatici, i suoi capelli, la sua bocca, le rughe profonde come solchi scavati dalla pioggia battente. Anche oggi i poveri stanno attorno a noi, sono soprattutto stranieri che vengono da lontano, eppure non ci facciamo caso se non quando ci siedono accanto con i loro odori penetranti. Ieri stavamo lontani per la sporcizia nella quale prosperavano insetti di ogni tipo, oggi preferiamo evitarli soprattutto perché ci ricordano il passato e ci insinuano dentro la paura dell'avvenire, ci tolgono le tante sicurezze che pensavamo acquisite, ci fanno regredire in uno stadio sociale che pensavamo sepolto dal tempo e dal progresso.
Un tempo i poveri erano tanti, ma c'erano i poveri più poveri, perché in ogni stadio sociale c'è sempre una sfumatura di colori e di situazioni.
Bene, si raccontava tra comari che questi poveri non avevano materassi di lana o di sfoglie di spighe di granturco, ma materassi di paglia. E nella paglia prosperavano le zecche pregne di sangue. Non le ho mai viste le zecche, ma quando me le immaginavo mi veniva il voltastomaco.
Anche tra gli insetti c'è una gerarchia. Le pulci sono meno schifose dei pidocchi, i pidocchi meno delle zecche.
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