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Maracaibo
Scendevo le scalette di pietra con il solito, monotono passo di tutti i sabati pomeriggio; fra poco avrei svoltato a sinistra, al cippo di marmo, poi avrei proseguito per circa 50 passi in leggera salita fino all'arco, sarei passato sotto ed infine, attraversando un varco e salite un paio di ripide rampe di scale in mattoni, sarei giunto sugli spalti, magnifico balcone artificiale che dovevo percorrere prima di approdare davanti alla porta del Bar Maracaibo.
L'insegna era in legno, dipinta con colori a smalto ormai sbiaditi, lettere rosse su fondo verde bottiglia, la scritta terminava addosso ad un rinoceronte, o almeno a quello che le nostre intenzioni avrebbero voluto fosse un rinoceronte. Non era bella, non lo era mai stata ma ora che tutto si confondeva con il grigio del legno corroso dalla pioggia e dal sole, era proprio impresentabile. L'avevamo dipinta circa 15 anni fa Marco ed io, portando da casa i barattoli di vernice ed i pennelli, la tavola di legno l'avevamo rubata dall'Osteria del Poggio, una sera che rimasti in pochi, tutti ubriachi, l'oste più dei clienti, ce ne andammo portandoci appresso uno dei tavolini posti all'esterno, costituito da due piccole botti e dalle sponde di un calesse. Caricammo tutto sulla Dyane di Marco, e ondeggiando più del solito ( la Dyane aveva il volante come tutte le altre auto, ma non serviva per curvare, si utilizzava quale appiglio quando, spostandosi con il corpo si assecondava l'auto a coricarsi su di un lato per affrontare le curve della strada ) riuscimmo ad arrivare dove si trovava il locale che avevamo da poco preso in affitto e dove avevamo intenzione di aprire il nostro locale: per l'appunto il Bar Maracaibo. La sera che dipingemmo l'insegna, io e Marco, 22 e 21 anni, eravamo convinti che quella sarebbe stata la nostra vita per gli anni futuri, e ne eravamo entusiasti.
Scostai un poco la tavola di legno dal muro, quel tanto che bastava per poter prendere la chiave appesa ad un chiodo, e per vedere la scritta apposta su di un angolo, sul retro: 22 Giugno 1980, rubata da Sergio e Marco. Grazie Gustì!.
Infilai la chiave nella serratura, feci tre giri, spinsi l'anta, entrai, scesi i due scalini all'ingresso, accesi la luce, e mi diressi verso il bancone, dietro cui, come tutti i sabati degli ultimi due anni, mi sedetti.
Avevo visto l'annuncio sul quotidiano una mattina di circa 2 anni e mezzo prima, mentre ero seduto al bar centrale intento a gustarmi il consueto latte macchiato e la solita sfogliatella:
- Avviso di pubblico incanto. Immobile sito in via degli Spalti al n. 2 al primo piano, distinto al catasto urbano al foglio n... -
Riconosciuto al volo lo stabile, capito che stavano vendendo il nostro bar, andai in ufficio, mi sedetti alla mia scrivania, chiamai il ragioniere che era nella sua stanza, e gli dissi, anzi gli ordinai di effettuare tutte le pratiche e tutti i documenti necessari per partecipare all'asta ed acquistare l'immobile, e gli consegnai il giornale con l'annuncio sottolineato in rosso. Fui l'unico a partecipare all'asta, che si svolse un grigio mattino di novembre in un'aula del tribunale; non dovetti neppure rilanciare l'offerta, che, giunta al terzo tentativo essendo andati deserti i primi due, era oramai divenuta molto bassa. Insomma mi ero comprato il Bar Maracaibo e ci avevo pure guadagnato!
- Non l'ho certo comprato per tornaconto!- pensavo tra me mentre seduto dietro il bancone osservavo il locale, dove ogni oggetto, ogni angolo conservava un ricordo. Non ne ero perfettamente convinto, e scacciai un pensiero molesto alzandomi in piedi per andare a spostare una panca che mi sembrava fuori posto. Chi l'avesse poi potuta spostare, era un mistero, dato l'ultimo cliente risaliva ormai a tre settimane fa.
Ero entrato in possesso delle chiavi del locale, una volta adempiute tutte le formalità burocratiche, pagato il prezzo pattuito, la sera che entrai per la prima volta dopo almeno dieci anni in quello che era stato il nostro Bar, provai una violenta emozione, che comunque riuscii a controllare bene, come mio solito.
Trascorsi una settimana per rimettere tutto a posto; fortunatamente, tutti gli arredi erano stati conservati, seppur malridotti, ammassati sul retro del locale. Ridipinsi le pareti, riverniciai le panche ed i tavolini, ripulii tutto ed infine appesi di nuovo, sopra la porta di ingresso, la nostra insegna. Quella settimana la trascorsi interamente nel locale che avevo acquistato, ricevendo di quando in quando le telefonate sempre più allarmate del ragioniere, che cercavo inutilmente di tranquillizzare.
Guardai l'orologio: erano le 19. 30, fra poco sarebbe entrato come sempre l'unico cliente che tutti i sabati, a quell'ora veniva a farmi compagnia. Infatti, con un ritardo di circa 90 secondi, vidi la maniglia della porta abbassarsi, aprirsi lentamente la porta, entrare un signore anziano un po' soprappeso che arrivato fino al bancone si sedette ad uno sgabello ed ordinò il solito.
- Ciao papà - dissi mentre mi giravo per prendere la bottiglia di mistrà ed un bicchiere. Gli versai il liquore trasparente con calma, e mio padre con altrettanta calma lo prese e cominciò a sorseggiarlo, guardandosi contemporaneamente intorno con placida soddisfazione. Volse lo sguardo e osservò una serie di nicchie nella parete, si alzò in piedi per poterle toccare e mi disse - Ti ricordi quando le abbiamo costruite? Eravamo io, tu, Marco e Marta, ci abbiamo messo un sabato ed una domenica, ti ricordi? -
Eccome se mi ricordavo. Fui preso da una fortissima nostalgia al sentire nominare il nome di Marta, un fiume di ricordi si riversò in me, ed io fui lieto di venirne travolto. Era la ragazza di Marco, ma non lo era sempre stata, anzi per un lungo periodo Marta, splendida diciottenne, non voleva decidersi tra me e Marco, voglio troppo bene ad entrambi, diceva, e quindi stava un po' con l'uno ed un po' con l'altro, con una meravigliosa e sconcertante leggerezza.
Non vedevo, e sentivo, più Marta e Marco da almeno 10 anni; le ultime notizie che avevo avuto di loro riguardavano un processo subito per tentato furto ad una banca, effettuato per finanziare un loro giornalino rivoluzionario "La voce del proletariato", che era uscito per soli sei mesi, unici probabili lettori noi tre. Me lo facevano avere per posta, accompagnato ogni volta da una lettera; l'ultima che avevo ricevuto, così piena di assurdi richiami alla lotta rivoluzionaria ed al risveglio della coscienza di classe, mi aveva fatto capire che avevano perso il contatto con la realtà. Ricordo che risposi allora a quella lettera con una mia che cominciava pressappoco - dall'Eskimo alle Timberland, dov'è finita la lotta di classe?- cercando di convincerli che l'Italia, quell'Italia, non era più interessata all'ideologia.
Mi avevano risposto, dopo un paio di mesi, con una busta che non conteneva lettere, ma un unico foglio, su cui avevano disegnato un gigantesco pugno chiuso, nero su fondo rosso, con in basso i loro nomi seguiti da puntini. Un messaggio chiaro che allora avevo richiuso in un cassetto, e che avevo ritrovato dopo 10 anni, ripiegato in quattro dentro un libro. Incorniciato lo avevo appeso ad una parete del bar: i puntini, comunque, erano ancora vuoti.
- Se mi ricordo, papà? Come fosse ieri. Tu eri il muratore, Marco, Marta ed io i manovali, e ti facevamo più che altro perdere tempo. Ci avevamo messo due giorni, mamma ci portava il pranzo. Finimmo la domenica sera, esausti, ma contenti, convinti di aver fatto un buon lavoro. Mi ci volle un po' di tempo, però, per capire che quello che per noi era stato un gioco, per te invece era l'anello di congiunzione tra la fine di una faticosa settimana di lavoro e l'inizio un'altra. -
- Guarda, che io l'ho fatto volentieri, così come tante altre volte - mi rispose mio padre, mentre mi guardava con la faccia seria.
- Si papà, lo so, ma non è questo il punto. È che noi giocavamo a fare i rivoluzionari, poi il lunedì tornavamo alle nostre aule dove a vostre spese studiavamo con scarsa convinzione, e voi, che poi contestavamo, tornavate al vostro lavoro, tu alla calce ad ai mattoni, il padre di Marco alle lamiere
ed al ferro, quello di Marta alla catena di montaggio. Troppo facile, papà, troppo facile-
Mio padre mi guardò, poi lentamente mi disse che quella fase della nostra vita era necessaria e la mia presa di coscienza di ora era conseguente. Proseguì citando una frase che aveva letto su di un giornale: - È necessario che voialtri giovani rompiate i vetri con i sassi per consentire a noi vecchi di accorgerci quanto quei vetri fossero sporchi, e quindi fosse giunta l'ora di cambiarli. -
Guardai mio padre con un senso di ammirazione. Quel vecchio muratore, con cui non avevo mai parlato abbastanza, mi stava dando una lezione di vita, ed io gli ero riconoscente.
Mio padre finì di bere il suo mistrà, posò il bicchiere sul bancone, si alzò in piedi e come sempre chiese il conto.
Lo guardai, e come sempre gli risposi - Niente. Offre la casa -. Esauriti i convenevoli, si avviò verso l'uscita. Aperta la porta, si voltò verso di me, e mi disse - sai, Sergio, la mamma l'ultima volta che sono andato a trovarla, mi ha detto che è un pezzo che non ti vede! Avrebbe tanto voglia di parlarti!- .
- Domani vado da Lei, papà. Non ti preoccupare-
- Bravo figlio mio. Vai, domani. Mi raccomando, Vai. - aggiunse uscendo dal locale.
Mamma era morta due anni prima, ed io dal giorno della sepoltura non ero più andato al camposanto. Anche un'ora sola trascorsa lì, mi costava un mese di vita. Da cimiteri e funerali, io giravo al largo, forse cercando in qualche maniera di esorcizzare la morte. Sapevo di non riuscirci, ma facevo finta di crederci.
Guardai di nuovo l'orologio, erano ormai le otto. Mi avvicinai al Juke Box dove avevo conservato tutti i 45 giri di allora, inserii la monetina, composi il codice del brano prescelto, e lentamente il locale fu pervaso dalla bellissima, melanconica melodia di Luci a San Siro di Vecchioni, uno dei dischi più belli che fossero mai usciti in Italia, almeno secondo me. Mi cullai un po' sulle note di quella canzone, poi andai in bagno per rinfrescarmi la faccia lasciando la porta aperta per ascoltare fino in fondo il brano. Mentre osservavo il mio volto nello specchio sopra il lavabo, verificando la comparsa dei segni che testimoniavano inclementi la mia età, la musica lentamente scemava. Quando finì, un lento sonoro applauso si sentì nel locale, lasciandomi interdetto. Velocemente mi asciugai il viso, e mentre stavo posando l'asciugamani sentii le note di un brano reggae a me caro diffondersi per la stanza " No Woman, no Cry" di Bob Marley. Rapidamente, incredulo, mi diressi verso il bancone del bar, e la vidi lì, appoggiata. - Ciao, Sergio - mi disse e fu come se gli ultimi dieci anni fossero trascorsi in un secondo. - Ciao Marta -, risposi. Ci abbracciammo lungamente, felici come dei fanciulli.
Ci guardavamo in faccia a pochi centimetri l'uno dall'altra, e quello che vedevo mi riconduceva indietro nel tempo. Marta non era cambiata affatto, lo sguardo scuro e profondo, il viso ovale perfetto incorniciato dai lunghi capelli neri, sparsi sulle spalle. Ne ero ancora innamorato. Sempre guardandomi negli occhi, si sedette su uno sgabello, allentando la stretta della lunga sciarpa viola che le avvolgeva il collo, mettendo le mani in tasca per cercare qualcosa che non trovò.
Io, intanto, non riuscendo a riordinare i pensieri, in uno stato confusionale totale, mi diressi dietro il bancone, e posto di fronte a Marta, le chiesi se volesse bere qualcosa.
- No, no! Hai del fumo?-
- Certo! - risposi prontamente, aprendo un cassetto del bancone e
prendendo un pacchetto di Luky Strike senza filtro ed una scatola di cerini. Le porsi una sigaretta ed un'altra la presi per me, le accesi entrambi e dopo un paio di ampie boccate, continuando a fissarmi, mi disse:
- Ti sei dato da fare negli ultimi 10 anni, impresa di costruzioni, società immobiliare, villa con piscina in collina... però, chi l'avrebbe detto?-
- Beh, questo che c'entra, ho lavorato non ho mica rubato niente a nessuno!- risposi un po' frastornato con un pizzico di delusione.
- Guarda che non devi giustificarti. Certo non con me!- dichiarò Marta, guardandomi ora con aria un po' divertita.
Decisi allora di cambiare discorso, per evitare una discussione che sapevo poteva portarci allo scontro.
- Non parliamo di me, per favore. È passato tanto tempo. Raccontami di te, di quello che hai fatto, dove sei stata, cosa ti è
capitato! Raccontami di Marco!
- No, parliamo di te, invece!- La voce proveniente dalla porta di ingresso mi fece trasalire. Impegnato nella conversazione, non mi ero accorto della figura maschile che nel frattempo era entrata, ascoltando le nostre frasi.
- Ciao Sergio! - disse un uomo vestito in jeans, lunghi capelli scuri, viso scavato con la barba di alcuni giorni, occhi lucidi, sguardo febbricitante.
Marco! Era lì, la sua sagoma si stagliava sulla porta a vetri, il debole chiarore dell'esterno metteva in risalto una figura filiforme. Marco! Il mio amico Marco!
Il passato, a volte, compie un balzo in avanti, decidendo di venire a trovarci portandosi dietro ricordi, rimpianti, rimorsi, storie che non ricordiamo più ed altre scolpite nella mente che non potremo mai dimenticare. Il mio passato, quel sabato sera, era di fronte a me. Marco e Marta, due delle poche persone che abbia veramente amato nella vita, ora erano lì, e mi stavano giudicando.
Corsi verso di lui. Mi accolse una mano tesa, che prese la mia in una stretta che avrebbe voluto essere energica e che ricambiai con un po' di delusione, speranzoso di più calore.
- Ciao Marco!- risposi guardandolo negli occhi.
Vidi tristezza, ma anche tanta fermezza.
Dopo avermi fissato per alcuni istanti, si diresse verso Marta, e le si sedette accanto. Si guardò intorno, osservando bene ogni angolo, ogni oggetto.
- L'hai rimesso proprio come era una volta, stessi mobili, stessi colori, stessa musica - disse, con un tono un po' ironico. - Perché? -
Io non capii subito la domanda, assorto in pensieri che stavano rievocando il passato.
- Perché l'hai fatto, Sergio?- ripetette la domanda con un tono più duro, quasi aspro.
Disorientato, riportato bruscamente alla realtà, trasalii e risposi meccanicamente:
- Ho fatto cosa? -
- Tu non ci hai mai creduto, dì la verità. Per te era poco più di un gioco, un modo per darsi importanza. Non ci credevi allora, tanto meno oggi. Perciò, ti ripeto, perché hai comprato il bar, l'hai riaperto, e trascorri tutti i sabati sera qui dentro, da solo? Per quale motivo questa sceneggiata?-
Non riuscivo a riprendere contatto con la realtà. Mi stavano giudicando, un vero e proprio processo, ed io dovevo render conto a loro due, che sono stati la parte più importante della mia vita, del perché volevo tenere in vita l'unica cosa che ci legasse. Non li vedevo da più di dieci anni, riabbracciarli era quanto più avevo desiderato, ed ora che potevo farlo, loro mi respingevano, anzi, mi stavano inquisendo.
- Lo stavano vendendo, capite? Vendevano il nostro bar, magari per farci un bilocale, magari un ufficio! Lo volete capire che qui c'è il nostro passato, le nostre speranze, perché no, anche le nostre illusioni? Non vi ricordate quanto era importante per noi, questo posto?-
Così dicendo, mi ero appoggiato al bancone, e terminata l'arringa sferrai un pugno sul piano di legno, assalito dall'angoscia.
- Era importante per noi, certo. Ma il tempo è passato, ci siamo divisi, le nostre vite hanno intrapreso vie divergenti, tra te e noi non c'è più nulla in comune, nessun legame. Era importante anche per noi, ora è importante solo per te. È il tuo alibi, vieni qui una volta a settimana, vi trascorri qualche ora, e ti senti rinfrancato, pronto per ritornare ai tuoi schifosi affari. Questo è il tuo confessionale, Sergio, vieni qui a scaricare la tua coscienza e ne esci sgravato di un carico che, evidentemente ti pesa!-
- Quale carico!?- domandai amorfo, con voce flebile.
- Come se non lo sapesse!- esclamò Marco, rivolgendosi a Marta
- Andiamocene via, te l'avevo detto che non avremmo ottenuto niente da lui, dall'industriale!-
- Aspetta.- disse Marta guardando Marco. Si alzò in piedi, andò verso la porta, la aprì,
uscì fuori, e mi chiamò con voce dolce ma ferma. Io uscii del tutto frastornato, con la faccia di chi stava subendo una tremenda ingiustizia.
- Vieni qui Sergio, vieni a vedere -
Mi avvicinai lentamente. Mi prese le mani e le baciò guardandomi con i suoi occhi da bambina.
- Lo sai quanto ti ho voluto bene, te ne voglio ancora tanto. È che siamo cambiati, non ci capiamo più, tu sei troppo diverso da come eri allora, e noi, forse, non riusciamo a diventare grandi.-
- Non siamo cambiati, Marta. Sono cambiate le nostre vite, ma in fondo siamo ancora noi. Non permettiamo che questo ci divida. Non voglio perdervi di nuovo. -
- Guarda, Sergio, guarda là verso la ciminiera. Lì sotto, proprio attaccata alla vecchia cartiera c'è la casa dove sono nata. Ti ricordi quanto abbiamo giocato davanti, sulla strada? La tua casa, e poi quella di Marco, si trovavano a pochi metri. Ti ricordi quanto erano minuscoli i nostri appartamenti? Due, tre stanze, con il bagno di fuori sul balcone. Noi veniamo da lì, non lo devi dimenticare, mai. -
Terminò la frase con uno sguardo serio, quasi triste.
- Non insistere lo ha già dimenticato; ora deve voltare le spalle alle sue origini, deve guardare a nord per vedere la sua villa, su le colline. Ti ricordi, Sergio, quanto eravamo arrabbiati con quelli lì, quelli che vivevano nelle ville? - Disse da dietro la voce astiosa, quasi ostile di Marco. - Ma non ti fai un po' schifo?-
Egli mi guardava fisso, e per la prima volta quella sera mi accorsi che dietro la sua ostilità apparente si celava il timore, quasi la paura.
Ritornai dentro il locale, mi sedetti di nuovo dietro il bancone e mi accesi un'altra sigaretta. Li vidi rientrare, avvicinarsi e guardarmi di nuovo con uno sguardo indagatore. Decisi allora di reagire, convinto di non meritare quella arringa.
- D'accordo ho un'azienda, che mi rende bene. Vi lavorano una ventina di persone, sono diventato un padrone. Poi ho una bella casa, con la piscina, e la domestica, verso gli alimenti alla mia ex moglie, ho tre automobili, gioco a golf, il mio conto in banca è florido, e di posti come questo ne potrei comprare quanti ne voglio. Ed allora? Cos'è, una colpa? Mica ho rubato, mica sfrutto le persone, le pago regolarmente, verso loro i contributi, li aiuto se ne hanno bisogno. Insomma, che volete da me, devo sentirmi in colpa perché ho avuto successo? Qual è quel carico che dovrebbe pesarmi, eh, qual è? -
Finii il discorso con foga, rivolto a Marco, che mi guardava quasi fossi un rettile. - Diglielo tu - disse rivolgendosi a Marta, e, senza più voltarsi, si diresse verso l'uscita chiudendo dietro di se la porta. Udii i suoi passi allontanarsi ed ebbi la sensazione che non l'avrei più visto. Sgomento, feci per raggiungerlo, ma venni fermato da Marta.
- Aspetta Sergio, lascialo andare. Marco ha bisogno di stare solo! -
La vidi dirigersi verso il quadro con il loro disegno, il pugno nero su fondo rosso, fissarlo a lungo, poi si volse verso di me.
- Marco ti vuole bene, lo hai sempre saputo, ed ora te ne vuole come allora. Solo, si sente tradito, e quando sei offeso da una persona che ami, reagisci anche più duramente, a torto o a ragione. Ti abbiamo spedito il nostro giornale, con la speranza che tu ci potessi stare vicino, non chiedevamo nulla, solo il tuo affetto. Invece ci rispondevi con lettere assurde. Marco diceva che non potevi essere tu, non voleva crederci. Poi ci fu il processo, per quella "rapina". Fatto sta che venimmo condannati entrambi, a due anni. Io non scontai la pena perché incensurata, ma Marco invece finì in prigione. Non era incensurato, capisci? Era renitente alla leva, capisci? Fece sei mesi, che furono un inferno. Ma la pena più grande per lui fu il tuo silenzio, la tua assenza, la tua indifferenza. Capisci Sergio di cosa parlava Marco?-
Marta mi fissava duramente, ed io, con le lacrime agli occhi, avrei voluto che tacesse. Lei, invece, continuò, senza pietà.
- Ci hai abbandonato, Sergio, lo hai abbandonato. Non hai sentito la necessità di stargli vicino, in quei momenti. Hai avuto paura che il tuo buon nome si confondesse con quello di un pregiudicato. È questo il carico di cui vuoi sgravarti. Hai ripudiato il tuo migliore amico. -
Quelle parole risuonarono nella mia testa con il fragore di un cristallo spezzato. Avrei voluto dirle che non era così, che non lo sapevo che era stato in prigione, che se lo avessi saputo non lo avrei lasciato solo. Non dissi niente. L'indifferenza verso chi si ama è la peggiore delle colpe. Lo sapevo e non riuscivo ad assolvermi. Rimasi in silenzio.
Stavo lì, la testa tra le mani, i gomiti appoggiati al bancone. Un silenzio agghiacciante incombeva su di me. Mi ridestai da quella specie di incubo nel quale ero piombato, incerto se avevo sognato tutto o se gli ultimi avvenimenti erano veritieri.
Guardai in giro; Marta se ne era andata, se mai era stata lì; osservai l'orologio, segnava le dieci e trenta. Era ora di chiudere il bar Maracaibo. Spensi la luce, richiusi la porta dietro di me, rimisi al solito posto la chiave, sul chiodo sotto l'insegna, e lentamente, più lentamente del solito, mi allontanai, guardando a sud, verso la vecchia cartiera.
All'interno del bar Maracaibo, su di una parete, il disegno del grande pugno nero su fondo rosso stava al solito posto. In basso, sotto i nomi di Marco e Marta, sopra i puntini, qualcuno con un pennarello aveva scritto il mio nome.
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