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Cromosomi
Sabato notte fui avvicinato dai turchi. Odio vendere droga ai turchi perché quelli se ne intendono. Esaminano, tasteggiano, annusano rumorosamente con il naso. Fanno alla svelta ad accorgersene che vendo aghi di pino. Al compratore, a volte dico che lo faccio esclusivamente per il suo avvenire, mentre mi minaccia impugnando con entrambe le mani ogni sorta d'oggetto in grado di sventrarmi.
-Foglia d'acero? Non scherzare amico, quale foglia d'acero. Questa è marijuana purissima!-
-Figlio di puttana! Mangerò la tua carne cruda, dopo che sarai accasciato a terra privo di sensi!-
-Ah Istanbul. Ricordi? Il Gran Bazar, quando ero un bimbo passavo i pomeriggi contando i sandali che scorrevano e marciavano a milioni in quel grande mercato! Che fantastici momenti. E quando tornavo alla piccola bottega affollata dove mia madre cuciva e mi chiedeva quante calzature avessi contato quel giorno. Forse ci siamo già incontrati per quelle vie senza neppure saperlo. Pensa, così simili e ora tu vorresti uccidermi per una foglia d'acero. Non è strano? Forse conosci persino mia madre. Ho qua giusto una foto. Te la mostro-
Ma non funzionò. Erano in quattro, e con la loro furia animalesca mi comprimevano contro la serranda d'un garage. Non feci nemmeno in tempo a portare la mano alla tasca dove tenevo l'immagine in bianco e nero, consumata, d'una vecchia donna estranea e mutilata che spacciavo all'evenienza per mia madre.
Infilai lentamente la mano in tasca.
-Ha un arma! Bianco figlio di puttana!-così urlò il più peloso, che spaventato, alzò una mazza da baseball di metallo, la teneva salda tra due braccia brune e nerborute, si morse la punta della lingua per concentrarsi meglio sul punto da colpire, e con forza brutale, mi schiantò la mazza contro la tempia destra. L'impatto la fece rimbalzare a terra, provocando un gran chiasso e tutti e quattro i turchi se la diedero a gambe. Mi accasciai un istante e mi rizzai immediatamente. Quelli che avevano le mazze o i tubi di ferro per qualche motivo erano tutti mancini, percui la mia parte destra del volto era completamente piana e callosa, come se per un intera vita avessi dormito con il volto poggiato dallo stesso lato di un cuscino in granito. Mi sgranchii i muscoli del volto e mi incamminai verso casa. Arrivai alla grande pineta. Risucchiava l'intera luce elettrica tanto era folta. Dovevo superarla per arrivare a casa. Passai sotto quegli alberi imponenti, che vennero scossi da un pesante soffio di vento. Gli aghi di pino scrosciarono come pioggia sull'asfalto quella notte. Bastava raccoglierli senza nemmeno allungare la mano ad un ramo. Ma quel sabato non lo feci. Ero stufo. La gente diventava sempre meno stupida. E prima o poi lo avrei trovato un battitore destro. Così mi tolsi dal business degli aghi di pino. Conoscevo Francisco, un messicano. A casa aveva una parrucca mora color legno marcio. Aveva dei deliziosi tratti femminili. Vedendogli indossare la parrucca, guardandogli il volto me ne ero innamorato. Lo avrei valutato sessanta per una mezz'ora tanto era intrigante. Così decisi di mettermi in società con Francisco.
Si era depilato. Aveva indossato la sua parrucca e dopo avergli procurato il piccione entrambi ce la saremmo data a gambe. I clienti di battone li credevo la categoria più idiota. La puttana dal costo spropositato mente platealmente di avere l'orgasmo e loro orgogliosi mostrano i muscoli e fanno un sorriso ebete. Tornai al garage e mi appoggiai in attesa alla saracinesca, mentre Francisco ben truccato e raffazzonato stava in una piazzola nascosta dietro un lato del garage. Mi accesi una sigaretta. Sentivo Francisco sistemarsi e spalmarsi di trucco canticchiando. Non resistetti. Gettai la sigaretta e lo raggiunsi. Lì lo sbattei contro il muro, gli alzai lo straccio di gonna rosa che era riuscito a procurare e lo penetrai. Sentivo la lieve ricrescita dei suoi peli pungermi mentre lo sbattevo tappandogli la bocca con una mano. Quando finii gli morsi il lobo dell'orecchio, intanto che lui risistemava la parrucca. Gli diedi una sigaretta, tornai davanti al garage, convinto che l'odore, il corpo di Francisco, valessero quel che avevo immaginato. Passarono dieci minuti, fumando e contando i battiti dei tacchi smussati di Francisco che teneva il tempo di una vecchia canzone. Come tante altre notti, in quello sprazzo di nulla in periferia, passava ben poca gente. Poi, da lontano mi venne incontro un tizio. Un giovane, non più di diciassette anni, incappucciato e ricurvo, indossava una felpa blu.
Mi si fermo davanti, cominciando a flettere le ginocchia, strofinando il naso con un dito.
-Fumo amico, fumo amico, ne hai fumo amico? Quello dell'altra volta però amico. Quello dell'altra volta era fantastico amico-
-No "amico". Marijuana non ne vendo più. Ma con qualche soldo in più, ti puoi fare una scopata fantastica-
-Di che parli amico?-
-Qua dietro. Una ragazza stupenda.-
-Ma suda molto quando scopa? No perché sai amico io per le donne che sudano molto vado matto. Allora suda molto amico?-
-Certo! È messicana. Mmh pelle bruna. Il sudore accende!-
-Ci sto allora. Allora che devo fare?-
-Non essere nervoso. Vuoi sprecare i tuoi soldi?-
-Chi nervoso, io amico? Scherzi?-
-Bene. Dammi quaranta e vai a divertirti-
Dietro il ragazzo che ciondolava comparvero due abbaglianti. Inizialmente non mi destarono alcun sospetto.
-Venti e venti Amico? Allora amico?-
I fari restavano fissi sulla schiena del ragazzo dalla felpa blu.
-Dietro l'angolo-dissi,-Qua dietro-
Guardai quelle luci qualche secondo. Osservai sopra i fari apparire una luce blu ruotante. Misi i soldi in tasca. Diedi uno strattone al ragazzo che cadde in terra.
-Francisco! Chica, Policia!-
Fuggii correndo. Mi voltai. Francisco mi precedeva di qualche metro, portando i tacchi alti e consumati in una mano. Gettò la sua parrucca in un bidone. Sentivo nel buio alle mie spalle l'affanno dei poliziotti. Si davano coordinate su dove credevano fossimo. Francisco che stava ancora dietro li sentiva più vicini. Senza quella parrucca, con il suo incedere mascolino, i suoi lamenti nell'affanno, era soltanto un povero e orribile messicano. Sapevo che se i poliziotti avessero acciuffato Francisco non si sarebbero presi la briga di cercare anche l'altro fuggiasco e quindi avrebbero abbandonato le mie ricerche. Ma Francisco era un animale impaurito. I suoi piedi ora scattavano più veloce sul terreno e alla fine riuscì a raggiungermi.
-Che facciamo?- chiesi
-A destra!-
Svoltammo in un vicolo di acciottolato grigio. La strada era anonima, ben illuminata e stretta.
-Nel vicolo!- urlò uno dei poliziotti con il respiro strozzato.
Erano soltanto voci, non li riuscivo a scorgere dietro.
Ma anche se solo voci, quegli sbirri ci avrebbero ucciso, per il solo fatto che li avevamo fatti correre invece di lasciarli a pizzicarsi i testicoli annoiati nella volante.
Ero esausto. Mi voltai verso Francisco. Perdeva rigagnoli di trucco turchese mischiato al sudore. I baffi gli ricrescevano, scuri, spudorati. Con le ultime forze feci uno scatto e tornai avanti di due o tre metri. Poi lo sentii smettere di correre. Mi girai. Si era fermato davanti ad un portone largo, giallognolo e malmesso. Francisco bussò.
-Muévete!-
Così lo raggiunsi.
Qualcuno da dentro apri il portone e restò nascosto dietro la soglia spalancata. Io e Francisco facemmo un balzo ed entrammo, chiudendo delicatamente la porta alle nostre spalle. Guardai l'interno di quel posto e mi arrestai. Era un locale enorme, dal parquet marrone scuro, dalle luci calme, pulito, non proveniva il minimo rumore. Tutte attorno donne. Giovani donne bionde e more, divise in base al colore dei capelli. Stavano sedute a dei tavolini di finto legno, quadrati, che ingombravano l'ampio spazio. Sopra quei tavoli si raffreddavano i caffè, con in cima un cumulo di panna squagliata, e che nessuna teneva tra le dita. Erano completamente silenziose, tutte respiravano a bocca chiusa. Insieme a Francisco, un po' imbarazzato, mi sedetti a un tavolo libero. Le giovani sedute vicine presero a fissarmi. Sorridevano, sembravano di cera, se non per le labbra che respiravano. Ne ero compiaciuto, ma intanto tendevo un orecchio alla porta ora distante. Aspettavo l'irruzione dei poliziotti, mentre il sudore mi rinfrescava la fronte. Si avvicinò il barista. Il cavallo dei suoi calzoni che strusciava sembrava assordante in quel silenzio. Con un bisbiglio io e Francis ordinammo una birra ciascuno. Il barista se ne andò facendo un gran chiasso, e fissai una stupenda ragazza seduta alla mia destra. Portava delle lenti a contatto azzurre, che ritraevano la terra vista dallo spazio, capelli scuri e folti addomesticati con la spuma, un piccolo naso, e generosa con il sorriso scintillante e con quegli strani occhi. Mi parve fin troppo generosa. Abbassai lo sguardo imbarazzato. Sul mio tavolino il barista aveva lasciato la penna con cui segnava le ordinazioni. La presi, afferrai qualche tovagliolo di carta, cominciai a segnarci sopra degli scarabocchi. Dovevo ammazzare il tempo. Scrissi dei turchi, degli aghi di pino, di Francisco, degli sbirri, di questo posto. Rispuntò il barista. Si avvicinava insinuandosi tra i vari tavoli con il vassoio alto sopra la spalla. Lasciò le due birre. Continuai a scrivere per qualche minuto.
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- bello e coinvolgente. Complimenti!
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