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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte (9)

Cadevo dal pullman appena arrivati alla stazione di Barletta per dirigermi verso la coincidenza, osservando finalmente allontanarsi quelle strane forme di vita. Mi prendevo il posto più solitario che ci fosse, ideale se era vuoto tutto il vagone, e correvo col treno fino a Bari, fissando lo sguardo fuori dal finestrino per scorgere il mare che di tanto in tanto si mostrava con l'immortale istinto selvaggio a dispetto delle nostre morenti vite.
Appena respirata l'aria di Bari la sensazione di un non prima annunciato prolasso anale prendeva a deformarmi il corpo con una depravazione mai vista. Scendevo i tre gradini del treno entrando in un paradosso esistenziale inestricabile: allungare il passo alla ricerca di un cesso più degno di quelli del treno avrebbe significato fare il gioco della peristalsi, ma passeggiare con moderazione con un parto imminente tra le gambe non era in alcun modo possibile. Sceglievo sempre di correre verso un cesso. A volte i disonorevoli crampi mi stringevano lo stomaco in maniera atroce. Sudavo freddo, vedevo la città tenermi gli occhi addosso e mi perdevo nella mia disperazione. Facce, capelli al vento, ombrelli portati non si sa mai, biglietti del treno per strada, mendicanti e cerca sigarette, tutto lo scenario attorno si diluiva in un vortice opprimente che mi intimava a mantenere il contegno, ma il corpo mi suggeriva con un sussurro rauco di rompere gli argini e abbassarmi i pantaloni senza alcun ritegno. Mi piegavo su me stesso agli angoli dei palazzi. Stringevo il culo, così si dice, strizzando gli occhi. Poi passava, ma dal petto in giù tutto brontolava.
Riprendevo il passo fingendo serietà. Mi veniva da ridere, ma non c'era niente per cui farlo. Le distanze erano sempre insuperabili, ossessive, che decidessi di tirare dritto verso l'Ateneo o che scegliessi di fare tappa nel paradiso dei culi al McDonald. E poi divoravo le scale, pregavo che non ci fosse nessuno in attesa e irrompevo nelle piccole stanze con la certezza che avrei dato il giusto spessore ad un cesso di città.
Ecco, ecco, cosa siamo. Non le aziende, né gli Atenei e nemmeno le cattedrali saranno i miei templi. Questo è il mio altare e questa la sacra funzione, i cessi di tutto il mondo raccolgono ogni mia vocazione!
Ogni mattina tutte queste sofferenze per ficcarmi in una classe quanto quella di un liceo in compagnia di altre duecento persone. Adesso andavo all'università. Lettere moderne per la precisione.
Prima ora di lezione: latino, aula cinque. C'era gente davanti alla porta, gente spalmata sui muri come carta da parati, gente accampata sotto la cattedra. Tutti fingevano di essere estremamente interessati a come Cicerone pronunciasse la C. Io avevo sonno. Il professore se ne stava con una mano nell'altra poggiate sulla cattedra, felice del suo sapere e dell'orda di ignoranti prostrata ai suoi piedi. Ricamava elogi al latino, si beava dei dettagli di pronuncia e specificava che anche se era un corso di lettere moderne era imprescindibile la conoscenza della sua materia. Ognuno voleva la sua importanza. Avevo scelto quel corso proprio perché prevedeva un solo esame di latino. Non è che lo odiassi o lo reputassi inutile. Non mi andava di studiarlo e, della vita, mi piaceva troppo la possibilità che si potesse scegliere.

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