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Come nasce e muore una passione 2°
E cominciò la passione vera. Si, d'accordo, i parà sono gradassi, forse anche un po' stronzetti, ma a me che m'importava? Anzi, un motivo in più, per dimostrare che non proprio tutti lo erano. Non che io non fossi vanesio eh, lo ero e lo sono, eccome, ma non mi piace dare spettacolo delle mie passioni. L'ho già detto, non sono esibizionista.
Primo, non m'è mai importato niente di diventare "troppo" bravo, né m'importa tuttora. Secondo: fisico, età e malizia erano già allora al di là della tentazione. Faccio del mio meglio per non ingrassare, ma sono comunque quasi sempre 5-10 anche 15 kg oltre il mio peso forma, e non c'è verso, ormai l'ho capito. Tuttavia non sono poi così male e soprattutto non demordo. Solo che, una volta deciso... non sapevo da dove incominciare. O meglio, ricominciare.
Quando sei fuori da un'attività o da un giro, è come se quel giro, per te, non esistesse. Non c'è, non lo vedi, forse proprio perché non t'interessa. Un'attività come quella, poi, di per sé già naturalmente elitaria e pure costosa, peggio ancora! Ma io sono di Verona, e a Verona, pur piccola e bellissima, non manca niente. Men che mai un aeroporto civile con un rinomatissimo centro di paracadutismo (e volo a vela). Tra l'altro pure con un nome bellissimo: Boscomantico. Come si fa a resistere a un nome così?
Però sembrava il posto più dimenticato del mondo, quel febbraio 1996 di cui sto narrando. Oggi molto meno, ma allora, se ci andavi negli orari di chiusura, sembrava addirittura abbandonato. C'era una casupola di legno con imposte sempre chiuse vicino ad un capannoncino con su scritto "scuola di paracadutismo" su un cartello arrugginito. Poco altro. Oltre le reti, gli hangar dell'aeroporto militare, ormai dismesso da molto, dall'altra parte gli hangar di quello civile, con bar-ristorante annesso, ma anche quello quasi sempre chiuso.
Il fatto è che ci passavo nelle ore sbagliate, durante i giorni di lavoro, quando riuscivo a inserirlo in uno dei miei complicati giri. Ed ogni volta mi sembrava un presagio di dissuasione. Un po' come se il centro, deserto, mi dicesse:- Lascia stare, di cosa vai in cerca? Il passato è passato e adesso sei sposato, per la seconda volta tra l'altro, ed hai un figlio piccolo, un'altra figlia "di primo letto" (che però vive con te e di te ha bisogno) e un lavoro che più in bilico di così non si può ... ti serviranno mica altre menate, no?-
Ma alla fine entrai. Nel bar, nel centro e nel paracadutismo. Quello vero, civile e sportivo, che è sempre pericoloso, vero, ma molto più divertente e organizzato. Quasi in tutta sicurezza direi, se non fosse che l'incidente è sempre in agguato, quasi sempre figlio di un eccessivo azzardo, e più frequente di quel che son disposti ad ammettere i responsabili dei centri.
Cominciai da zero, col metodo vecchia scuola, come un vecchio parà militare poteva e doveva fare. C'erano già allora i lanci in tandem e i corsi aff, ma erano roba per sfigati, donne o "pieni de schei", quindi non per veri "duri". Io, neanche a dirlo, mi feci tutta la trafila: corso teorico e lanci vincolati, poi apertura comandata, poi, infine, gradualmente, lo sballo: la tanto agognata discesa libera. E ritrovai così una mia vecchia amica: la paura.
Contrariamente a quello che si pensa, il paracadutista, almeno quello che non è un super esperto, vive di paura. Dell'adrenalina che accumula e scarica durante il lancio e della soddisfazione, o gioia pura, che ne deriva. Avete presente la quiete dopo la tempesta? Moltiplicatela per cento, per mille e ne avrete un'idea! Chi non ha paura mente o non è normale. E allora, in ogni caso, è pericoloso. Non dura e non fa durare gli altri. La paura è indispensabile, perché, anche dopo centinaia di lanci, ti fa fare le cose per bene, sia nei ripiegamenti, sia nei controlli, che col tempo diventano sempre più noiosi, sia nell'esecuzione dei lanci vera e propria. Poi, col tempo, viene sostituita dalla preoccupazione e infine dalla concentrazione, ma non deve mai mancare, perché, una volta saltati dall'aereo, ciò che è fatto è fatto. E qualsiasi errore si paga caro. Molto caro.
Io ho avuto paura almeno fino ai trenta, quaranta, cinquanta lanci; e la cosa curiosa era che, almeno nei primissimi, diciamo fino ai quindici-venti, la paura non accennava diminuire, ma aumentava. Prima perché avevo paura di non far bene l'uscita e aggrovigliarmi nella fune di vincolo. Poi, quando la fune non c'era più, perché avevo paura di non trovare la maniglia al primo colpo e andare in agitazione e sbagliare l'apertura.
Uno dice: possibile che tu avessi paura di non trovare una maniglia appesa a un fianco? Possibile, possibile! Quando si salta da un aereo, mica si salta nel vuoto, come magari si crede, ma in un vortice d'aria che viaggia a 100-150 km/ora. Uscire male e perdere l'assetto non è così improbabile. Poi vi voglio vedere, a trovare la maniglia, quando siete magari a testa in giù! Infine, quando avevo ormai imparato bene l'apertura comandata, dovetti imparare a non aprire, e nemmeno questo fu semplice.
Ricapitoliamo: porta aperta, seduti gambe fuori, mano interna che spinge e mano esterna che prende l'aria e, subito dopo, corre alla maniglia. La tira, il paracadute si apre e uno respira! Bene, il più è fatto, ora portiamo a casa la pelle! Questo è il ragionamento innato di chi non è abituato alla discesa libera. Ed è istinto di sopravvivenza puro e semplice! Impedire alla mano destra di andare a cercar la maniglia, e tirarla, non è così facile. Tra l'altro, fin che uno non l'ha provata, la discesa libera, non sa che cosa sia. Nemmeno se è un parà che fa lanci ad apertura comandata da mille anni! Anzi, da più tempo li fa, peggio è.
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