racconti » Racconti autobiografici » I cani da caccia del Bepi
I cani da caccia del Bepi
Mio nonno materno aveva una sola grande passione, un solo grande capriccio. Andare a caccia con i cani. A dire il vero non credo avesse una grande mira, poiché quasi mai egli riusciva a tornare a casa con qualche cosa di degno, dopo una giornata a scarpinare per i campi del Trevigiano, provincia che all'epoca era una delle terre più fertili e ricche di selvaggina, non ancora sconvolta dall'insensato insediamento dei capannoni della piccola e media industria.
L'unica volta che si riuscì a mangiare un fagiano arrosto, che, a detta del nonno, lui stesso aveva sforacchiato, la nonna brontolò contrariata per essersi trovata in bocca " un balìn da s-ciòpo" , che per poco non gli faceva saltare un molare.
In effetti in famiglia , nessuno prendeva sul serio questa sua velleità. Credo che alla fine mio nonno fosse più innamorato del fucile da caccia, che teneva sopra l'armadio in camera da letto, misteriosamente chiuso in una custodia e che io credo d'aver visto una sola volta, nonché dei cani da caccia, che si ostinava a voler allevare e addestrare lui, con l'esito che il Pointer non puntava affatto, il Bracco andava naso a terra per i fatti suoi e il Setter aveva la brutta abitudine di mangiarsi la preda.
In casa c'era sopra un comò ottocentesco una statuina di Capodimonte, raffigurante un cacciatore in posa, contornato da lepri e da fagiani, con il cane da caccia a coda tesa. Mio zio, che all'epoca era un ragazzetto, mi diceva che quella era la statuina del nonno e il cane era l'eroico Full, il primo della serie.
Provai un immenso dispiacere quando la donna delle pulizie, nello spolverare un po' furiosamente ( la casa era grande e bisognava che tutte le faccende domestiche fossero finite per l'ora di pranzo, poiché mio nonno non voleva vedere scope o aspira polveri in giro) ebbe a far cadere la porcellana. Si riuscì a salvare solo la testa di Full che mio zio raccattò e custodì per svariati anni, sino acchè il coccio non gli ferì un dito e allora decise di buttarlo.
Prima di ritornare ai cani, va pure detto che il nonno ci teneva moltissimo a vestirsi da cacciatore.
Lui, che s ne stava quasi tutto l'anno dentro l'umile vestaglia da pastaio color cappuccino, quando doveva andare a caccia, tirava fuori un guardaroba di prim' ordine, da Lord inglese pronto alla caccia al cervo. Giacca in loden verde coi i revers in velluto marrone, cappello con piumetta svettante di gallo cedrone, camicia scozzese intonata, gilet alla cacciatora con non so quante tasche e taschini. Braghe in fustagno, scarponcini e galosce, cartucciera doppia mimetica, robusto canestro a tracolla, intrecciato, per riporvi la selvaggina, guanti in pelle. Così vestito, me lo ricordo che si ammirava compiaciuto allo specchio dell'ingresso e faceva una espressione sua tipica di contentezza : arricciava il labbro superiore ornato di sottili baffi.
Dove andasse a caccia, da Venezia, non lo so. Credo che con amici si recasse dalle parti del Piave trevigiano, ma con precisione non saprei dire. So che partiva prestissimo ( solo ora mi viene da sorridere nell'immaginarlo all'alba camminare per la fondamenta a Venezia, vestito da caccia...) e tornava a sera, del medesimi giorno.
Tornando ai cani, due li ricordo bene perché accadde che verso i 70 anni, i miei nonni, stanchi di fare pasta e creme e vendere cibarie, si ritirarono a finire i loro anni in un paesino della bassa friulana, da dov'era nativa la nonna. Preciso che la nonna era trilingue: parlava un discreto italiano con " i foresti" ( ossia la gente non veneta) , mentre con noi discorreva egualmente in veneziano e in friulano, a seconda dell'umore.
In questa casa in campagna, una vera casona in sasso, c'era un bel giardino con un più modesto vigneto, cosicchè il nonno aveva allestito un ampio recinto dove teneva i suoi amati due cani.
Qualche volta li liberava, ma se ne pentiva subito perché i due animali correvano come matti e scavavano enormi buche, rovinando l'orto e calpestando gli ortaggi. Era molto difficile riprenderli soprattutto quando infilavano la porta della cucina e scorazzavano uggiolando per casa.
Mia nonna alzava la voce : Bepi ciàma i cani, ciàma i cani che i fa un desìo ( Bepi chiama i cani che fanno un disastro).
Sull'addestramento, il nonno aveva le sue idee. Penso anche consultasse dei libri, sicuramente era abbonato alla rivista La Caccia che gli arrivava puntualmente e dove si leggeva di ardimentose gesta di cacciatori italiani, dotati di cani eccellenti e fucili grandiosi.
La " fissa " di mio nonno comunque erano i fagiani e le lepri, altre prede non lo interessavano.
Con i cani aveva un rapporto quasi paterno. Andava a portare loro il cibo, stava con loro, li portava fuori a scatenarsi, preparava la ciotola e parlava loro mentre questi ingurgitavano tutto con le lunghe orecchie dentro al recipiente.
Già da cucciolotti cominciavano a capire cosa dovessero fare e che cosa ci si aspettasse da loro. O meglio cosa il Bepi sperava avrebbero fatto.
La scena era la seguente: in giardino da un lato Bepi, munito di una lunga canna dalla cui estremità si dipartiva un filo di parecchi metri, cui era attaccata una specie di palla di stracci; dall'altro, con aria sospettosa o del tutto innocente, il cagnolone.
Il cane doveva imparare a scovare il fantoccino, puntarlo e riportarlo a comando. Spesso accadeva che il cane si accaniva sul groppo di stracci e, sicuramente per gioco, lo sventrava. Questo era un pessimo segno, per Bepi.
Non di rado, quando per le vacanze estive passavo qualche giorno con i nonni, sentivo Bepi rientrare dal cortile incazzato e scaraventare la canna e il fantoccino dentro un armadio detto " degli intrighi". Per quel giorno il cane disobbediente veniva chiuso nel recinto, lasciato solo a uggiolare.
Alla fine, insisti insisti, qualche cosa questi cani imparavano e quindi finalmente potevano andare alla sortita di caccia, all'apertura della stagione venatoria.
In una di queste stagioni di caccia si aggiunse un particolare imprevisto : il terzo cane di mio nonno.
Una nuora del nonno, una tipa un poco snob, aveva acquistato un vivacissimo barboncino nano, nero come il carbone, tutto riccio, con un " tartufo" simpatico piantato in mezzo a due occhi lucidi e vivi. Recatasi in ferie alla casa di campagna, verso la fine dell'estate, con il cagnolino, di nome Miki, la signora s'era avveduta che l'animale era un poco inselvatichito e non voleva più fare il cane da compagnia. In verità MIki aveva scoperto la sua vera natura di cane, curiosa di odori, e appena poteva scappava dalla padrona per aggirarsi per le strade del paese. Dopo dieci giorni di soggiorno friulano, Miki stava fuori dalla mattina alla sera e rientrava a ore tarde, affamatissimo di tutti gli avanzi, ottimi avanzi, che mio nonno gli rifilava.
Al momento del rientro in città, Miki non si fece trovare. Venne cercato dappertutto, dalla soffitta alla cantina, nel granaio e nelle latrine, nelle conigliere persino.
" Senti Clara - disse mio nonno alla nuora - el Miki non se trova, làssimelo qua... el se farà vivo co el vol e te lo portarò a Venèssia".
La nuora accettò ( e forse s'era stufata del cane irriconoscibile) e se ne partì con il primo treno acellerato Udine-Venezia.
Miki, più arruffato che mai, si ripresentò a casa, a ore 22. 00. con la linguetta fuori che pareva un pezzetto di panno rosa.
Iniziò così la vita campagnola di Miki, cane ex barboncino, parallela a quella degli altri due cani. A differenza dei suoi compagni, il cagnetto era sempre libero e girava per casa. Ogni tanto scompariva e rincasava tardi.
Intanto il pelo ricciuto cresceva e non glielo tagliava nessuno. Nei fitti ricci c'erano persino farfalle intrappolate e fiori di campo. Col tempo, il cane perse anche il vezzoso collare.
Accadde che un pomeriggio, già buttato verso metà settembre, il nonno decise per una passeggiata per i campi, assieme a Miki.
Non lo portava mai fuori assieme agli altri due cani, perché Miki era talmente vivace che i due cani da caccia cominciavano ad inseguirlo per gioco e tutti e tre andavano ad infrattarsi e a sporcarsi nei fossi, ficcandosi pericolose spighe negli orecchi.
Il nonno, quella volta, scoprì un cosa eccezionale : il barboncino afferrava i fagiani con le zampe anteriori e non li mollava più.
Al ritorno a casa dalla passeggiata, Bepi esordì a tutti noi dicendo che il Miki era una cane da caccia di primissimo ordine. Raccontò che mentre trotterellava al suo fianco, il cane aveva visto un movimento furtivo tra le pannocchie ed era partito a razzo. Il nonno dietro al cane, pure lui. Inoltrato nel campo, Bepi aveva visto il Miki che s'era buttato su di una femmina di fagiano e, piccolo come era, la teneva stretta con le zampe. L'uccello, per liberarsi, lo aveva beccato violentemente tra gli orecchi e Miki mostrava a noi curiosi una ferita proprio tra i riccetti del cranio.
Mutamento di scena: finalmente si aprì la stagione di caccia. Un mattino, quasi all'alba in una leggera nebbiolina da caldo, mio nonno armato e vestito di tutto punto, s'incamminava coi due cani verso la piana dove correvano anche i canali di irrigazione. I due cani, ancora legati al lungo guinzaglio, lo strattonavano con violenza per sensi opposti. A malapena egli riusciva a tenere il cappello calcato in testa.
Il gruppetto non era ancora sparito alla vista della casa, dietro la curva, che dal cancello sul lato del giardino usciva a tutta velocità quel diavolo nero del Miki. Una palla di pelo con un codino a fungo arruffato. Raggiunto il padrone, il cagnetto cominciò a spiccare dei salti di gioia contro di lui e a girare intorno agli altri due cani che si erano non poco agitati. Il nonno, esausto, liberò i guinzagli e i tre cani si diedero alla macchia con un abbaiare furibondo, nel quale spiccava il bau bau acuto del barboncino.
La nonna alla finestra gridava : Bepi, Bepi varda che xè scampà Miki...
Quella sera mio nonno portò a casa per la prima volta " el lièvro ", il lepre, catturato da Miki con l'ausilio, ma mooolto tempo dopo, del Setter.
1234
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
2 recensioni:
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0