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La volta che sono quasi morto
Faccio roccia, tuffi, enduro, sci e paracadutismo. Oppure ho fatto, d'accordo, e mica si può far tutto in una volta del resto! Faccio anche un lavoro itinerante, di cui parlerò magari un'altra volta, e che mi costringe a fare circa centomila km l'anno, tra auto, aereo e treno, da più di trentatre anni, ormai. Fanno più di tre milioni di chilometri con lo sconto. Sono andato e tornato dalla luna più di tre volte, per capirci. E ho avuto i miei begli incidenti stradali, circa dieci/dodici in auto, tra piccoli e grossi, ed altrettanti in moto. Undici in una sola estate, dei quali otto denunciati all'assicurazione, che per questo non mi amava molto, al tempo. Incidenti eh, non cadute, perché con quelle i numeri a due cifre non basterebbero nemmeno!
Ma la volta che sono quasi morto non stavo facendo nulla di tutto questo.
Ero in barca con mio cognato, fedele compagno e collega di quasi tutte queste mie attività, pur con proprie peculiarità, la più pericolosa delle quali è proprio la sua assoluta mancanza di paura e la sua incomparabile presunzione. Insomma, lui è uno di quelli che credono sempre di saper fare tutto e di poter fare tutto, specialità nella quale comunque anch'io non me la cavo male. La vela è una di queste attività che abbiamo condiviso, con risultati quasi sempre inferiori a ogni nostra più nera aspettativa. Però di morire, beh, quello non l'avevamo messo in conto. Invece...
Invece successe che un bel giorno d'estate, al lido di Spina, provincia di Ferrara, attività prevalente produzione di zanzare, di ogni tipo e cilindrata, decidessimo di fare, appunto, un giro con la mia barca a vela. Oddio, barca forse è una parola grossa, un guscio di quattro metri con una vela latina piantata sopra, ecco! Comunque era mia e l'avevo portata fin là sul tetto della mia auto. E non capovolta come farebbe qualsiasi persona di buon senso, ma all'altro verso, così da prendere più aria possibile e fare un po' da ala portante durante il viaggio in autostrada. Ma questo non conta.
Quello che conta è che una domenica mio cognato, ovviamente con mia sorella, venne a trovarci e uscimmo insieme un po' al largo. Io e lui. Il mare era increspato e c'era un discreto venticello, per cui per un po' ci divertimmo, ma né io ne lui siamo marinai, per cui decidemmo, dopo circa un'oretta, di rientrare. Prima però, dissi io, devo fare una sosta. Mi fermai e mi tuffai nell'acqua. Credo sia inutile spiegare quello che dovevo fare e poi non ha molta importanza. Quello che conta è che lui volle farmi uno scherzo.
Tirò la scotta e mi lasciò lì, ovviamente per venire a riprendermi dopo avermi fatto soffrire un po'. Capii quasi subito di esser spacciato. Completamente a digiuno di vela, non ce l'avrebbe mai fatta a venirmi a riprendere! Gli urlai subito dietro, con quanto fiato avevo in gola, i migliori complimenti che conoscevo, ma quasi subito mi dovetti risolvere a pensare a quanto fosse lontana la riva.
Non era lontana, forse due o trecento metri, però io non sono un gran nuotatore. Gli urlai dietro ancora qualcosa ma lui era ormai completamente fuori controllo. Sarebbe stato già tanto se non fosse finito in Croazia, l'allora Jugoslavia! Il vento, infatti, tirava da terra. Uhmm, brutta cosa! Brutta, perché io nuotavo, nuotavo, ma la riva sembrava rimanere comunque sempre troppo lontana. Mi fermai anche un paio di volte a riprendere fiato, ma capii che era controproducente perché la corrente mi riportava al largo. Allora pensai va beh, me la devo cavare da me!
Nuotai...
Nuotai...
Nuotai e ancora nuotai. Ma non ce la facevo più e la riva, pur più vicina era ancora troppo lontana. Mi venne un crampo. Ad una gamba. Rallentai ma continuai. Il crampo cambiò gamba. Poi fu la volta del braccio, poi cambiò braccio e prese un braccio e una gamba allo stesso momento. Non c'era niente da fare. La riva era sempre troppo lontana, il deficiente sulla barca pure. M'incazzai come una jena! Possibile che mi toccasse morire in una maniera così stupida? Sputai anche l'ultima anima e infine mi abbandonai.
Affondai dolcemente, mentre la corrente mi rispediva indietro ma non m'importava. Tanto ero morto!
Addio, mondo di m...
Addio!
Toccai con la punta del piede! C'era una secca. Un po' meno di due metri d'acqua. Una scarica mi percorse per tutto il corpo: l'adrenalina da scampato pericolo! Piano però, non ero ancora in salvo. La riva era ancora lontana. Ma il peggio era passato, potevo prender fiato e risentire le forze tornare. Aspettai un bel po', saltellando in avanti per contrastare la corrente, finchè ad un certo punto mi fermai. Non toccavo più. Presi il coraggio a due mani e mi rimisi a nuotare.
Cinque minuti dopo ero vicino alla riva, con l'acqua ormai alla vita, e fui raggiunto da mio cognato che chissà come era riuscito a rientrare. Gli agguantai la barca e lo rovesciai, e poi gli montai sopra per affogarlo, ma non c'era niente da fare: era grosso quanto me e molto, molto più fresco! Pensammo alla barca, la tirammo in secca e disarmammo l'albero. In spiaggia non c'era più nessuno e imbruniva. Raccogliemmo le nostre cose e raggiungemmo le consorti alla casa del mare.
Mangiammo anguille, quella sera, per giunta malcotte, quasi crude, ma fu il male minore: in quei dieci minuti che eravamo stati in spiaggia erano state le zanzare a mangiare noi. Seduti al tavolo del ristorante eravamo entrambi bitorzoluti come radici di ginseng.
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1 recensioni:
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- ecco questo è un racconto che riesce a trasmettere l'angoscia e il terrore di una probabile morte in alto mare. un tema su cui la letteratura e la cinematografia gioca molto proprio per l'effetto psicologico che plasma la paura di annegare. riesci a trasmetterlo perfettamente e si tira un sospiro di sollievo su quella secca. bravissimo
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