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Angeli, diavoli ed incubi
Ero a letto, con Antonio che mi dormiva a fianco, e ripensavo alla mia vita intanto che carezzavo, con movimenti lenti, regolari, quasi impercettibili, il gatto che mi dormiva sulla pancia. Su questa mia enorme pancia, che sembrava, ed era, dura come una botte. Che casino era sempre stata la mia pancia! Chissà come sarebbe stata la vita con una pancia normale. Però, ormai, era andata così e non c'era più molto da fare. Solo tener compagnia a quel povero vecchio che mi dormiva accanto e che, pur di non vivere da solo, s'adattava a far tutti i mestieri di casa, comunque da solo perché io più di tanto non riuscivo a fare.
Sapevo che Antonio non mi amava. Non ne sarebbe stato nemmeno capace. Per persone come lui la stima e la compagnia erano e sono un ottimo surrogato dell'amore, l'unico che riescano ad apprezzare, l'unico che riescano a sopportare. Lo chiamano in genere volersi bene e se mai provassero, anche per un solo e breve istante, il sapore vero dell'amore, la beatitudine e l'inquietudine che provoca e le vette eccelse a cui innalza, proverebbero vertigine e ne rimarrebbero spaventati. Niente di più.
Ma io non avevo mai avuto vie di mezzo. Io ero per l'amore e basta: quello vero, incondizionato e puro. E ignaro, come quello di un bambino. Tale infatti ero rimasta nel corso di tutta la mia pur sofferta e travagliata esistenza: una bambina. Come una bambina avevo affrontato la vita, le sue gioie e i suoi dolori, come una bambina avevo vissuto solo del presente, inconscia se non ignara di passato e futuro, e come una bambina avevo pianto quando mi era capitato qualcosa di brutto e sorriso prima ancora che mi si asciugassero le lacrime. Come una bambina, e non si rida per favore, avevo avuto e avevo ancora il mio angelo custode. E come una bambina, nata amando tutti, tutti amavo ancora.
Ora, per esempio, amavo a tal punto il mio gatto che mi dispiaceva doverlo disturbare per girarmi sul fianco, anche se dovevo farlo perché il peso dell'addome mi appesantiva il respiro. Lo spostai quindi delicatamente e mi girai sul fianco pesantemente. Ora andava meglio, anche se già mi doleva qualcos'altro nel fianco opposto. Oscar invece, il mio gatto, non si era nemmeno svegliato, neppure con il sobbalzo provocato dal mio goffo movimento, ed ora addirittura ronfava, accompagnando così, come un'eco minore, il russare tranquillo e roco del vecchio che mi dormiva accanto. Mancava solo il mio, di russare, quello che io stessa sapevo essere, dei tre, il più forte e sincopato. Il più fastidioso.
Stanotte non c'era verso! Nonostante le venti gocce di ansiolitico e la camomilla, il sonno latitava. Pensai, come mi succedeva spesso negli ultimi tempi, a me stessa bambina. Mi rividi, rosea e rotondetta, nel cortile assolato sotto i due noci secolari, dove tra i rami era tutto un frusciare di foglie e un continuo migrare di nuvole e uccelli. Rividi anche il mio cortile, ch'era un continuo eccitato viavai d'animali e persone. V'erano cani d'ogni taglia, colore e carattere, gatti più o meno belli ma sempre circospetti e reattivi che era difficile avvicinare ed accarezzare, cosa che mi piaceva moltissimo, e poi paperi, oche, anatre, galline e galletti, anch'essi di ogni taglia e colore. Poi, nelle stie, le quaglie, i fagiani, i conigli e quant'altri animali non si poteva lasciar liberi perché sarebbero fuggiti o finiti mangiati, e che io andavo spesso a prendere in braccio ed accarezzare estaticamente. Poi c'erano i grandi, quasi sempre a me indifferenti, e gli altri bambini, fratelli, sorelle e vicini, coi quali giocavo a qualsiasi gioco, passiva e felice.
Ero stata una bambina felice, io, e avevo sempre guardato con meraviglia ed affetto ogni cosa, animale e persona che avevo avuto davanti. Tutto avrei voluto baciare e stringere al petto e tutto baciavo e stringevo! I miei occhi sorridevano perpetuamente, entusiasti e ilari, anche quando nessuno si curava di me ed anche se le attenzioni dei miei genitori non andavano quasi mai al di là di un frettoloso sguardo di controllo o di minaccia. Lo stesso, del resto, che avevano per le mucche, i cavalli e i loro stessi altri figli e fratelli e sorelle. Ma io di questo non soffrivo, né m'importava. Io ero incapace di provare qualcosa di diverso dall'amore estatico - ipnotico e fine a se stesso. Anche nei confronti di chi si mostrava infastidito, o magari mi rimproverava o mi picchiava, io non facevo la minima piega, né faceva per me differenza. Anche le grida e le botte facevano parte della vita e quindi erano amore. Rimanevo dunque sempre e comunque grata e felice. Così allora e così, nel bene e nel male, ancora adesso. Nel pochissimo bene e nel tantissimo male.
C'erano certo momenti in cui anch'io perdevo le staffe, ma erano così pochi e talmente rari da ricordarmeli a stento, tra l'uno e l'altro, e accantonarli in un angolo della mia mente come fossero sogni. In quei momenti era come se un'altra persona entrasse dentro di me, a me sostituendosi e riordinando memorie e pensieri secondo un senso e una logica del tutto diversa da quella a me solita. Allora, almeno così mi dicevano, avevo il diavolo in corpo, nel senso che mi arrabbiavo davvero, buttando fuori in pochi minuti tutto quello che m'aveva ferita in precedenza. Tutto quello di cui, quand'ero nel mio stato normale, non mi accorgevo neppure. Solo che dopo, per me, era come sentirmi raccontare una storia, perché non ricordavo mai nulla.
Da quando ero anziana poi, e ormai lo ero come fisico se non come età, durante quegli accessi di rabbia mi riducevo quasi in fin di vita, perché il mio cuore ormai stanco e sfibrato impazziva e bisognava calmarlo con le gocce perché non mi scoppiasse nel petto. Allora, e solo allora, sentivo veramente la mancanza di tutti quegli organi che non mi funzionavano più e che mi avevano operato, aggiustato o levato, nel corso degli anni: un rene, ovaie ed utero, cuore, tiroide, milza, cisti varie ed altre cose ancora che adesso nemmeno ricordo più bene.
Questa era stata appunto una di quelle volte, una di quelle sere, ed io ero ancora sconvolta, scombussolata, perché, come mi succedeva in quei momenti, avevo detto o fatto cose che non pensavo nemmeno di poter o saper fare. Cose di cui dopo mi pentivo e mi vergognavo moltissimo. Stavolta poi era stata anche peggio del solito, perché quella "cosa" era entrata dentro di me furiosa come non mai, come mai era successo prima, buttandomi all'aria tutto, affetti, convinzioni e priorità, in un modo in cui ancora non aveva mai fatto. Ed io avevo assistito impotente allo scempio, al rovesciamento e alla distruzione di ogni mio ordine prestabilito e di ogni mio punto di riferimento.
Di più, ero stata io stessa sballottata qua e là come una qualsiasi altra cosa o suppellettile, in completa balìa di quella furia estranea che poi, com'era venuta, se n'era anche andata. Solo che questa volta non mi aveva lasciato solo nausea, rimorso e spossatezza, ma anche una sottile soddisfazione, oltre a una strana promessa di tornare qualora io, proprio io, ne avessi ancora avuto bisogno. E questo era strano, molto strano, così strano che adesso non riuscivo a dormire.
Avevo sempre considerato questa cosa, quest'altra cosa, un po' come un diavolo, anzi non come, proprio un vero diavolo! Tenendo la cosa per me, chiaramente, perché non volevo esser derisa, ma non considerandola poi così grave né rara: di diavoli era pieno il mondo come del resto anche di angeli e io avevo il mio, tutto qui. E poi il mio non era nemmeno un diavolo tanto cattivo, ma piuttosto un demoniaccio errante che entrava nel mio corpo spinto dal caso o dalla sua sbadatezza, magari favorito in ciò dalla disattenzione o dalla momentanea assenza del mio angelo custode. Un buon diavolo tutto sommato, e che comunque ben presto se ne andava, o perché trovava il mio corpo non di suo completo gradimento o perché magari ritornava il mio angelo.
Però quello che era successo quella sera non era normale: io avevo provato quasi piacere per il suo arrivo e, nonostante quello che poi era successo, sollievo e quasi soddisfazione per la promessa d'un suo eventuale ritorno. Infine, quando già se n'era andato, quasi rimpianto. "Com'era possibile - mi chiesi - quello era pur sempre un diavolo! E di un diavolo come si può aver bisogno o, peggio ancora, voglia?" e poi "Ma, un momento: e se quello non fosse un diavolo? Se invece il vero diavolo fosse quello che io avevo sempre creduto, fino ad ora almeno, un angelo? Se il vero diavolo fosse quello che finora si era sempre spacciato per angelo custode?"
Ripensai ai momenti cruciali della mia vita, quelli in cui, recitando infinite preghiere, avevo chiesto una grazia speciale o un'intercessione o anche una semplice protezione al mio angelo custode. Ebbene, cosa ne avevo ricavato? Disgrazie, disgrazie e ancora disgrazie! Lutti e sofferenze, ecco quel che ne avevo ricavato! Ma quante avemarie, salveregine e paternostri avevo recitato io, ogni qualvolta si avvicinava il momento del parto, in un crescendo di paura e agitazione che ogni volta aumentava, così come aumentavano i miei lutti? E cosa ne avevo ricavato? Altri lutti ed altro dolore, ecco cosa ne avevo ricavato! Ma quale vero angelo custode avrebbe mai permesso tutto ciò?
A questo punto il mio cuore batteva davvero a mille, e non mi restò che alzarmi, andare in cucina e prendere altre gocce di ansiolitico. Poi, messo sulla stufa il caffè, decaffeinato per carità, mio ultimo e innocuo vizio, mi misi silenziosamente a piangere.
"Non era possibile, non era possibile, non proprio a me!"
E invece si, proprio a me era successo! Un diavolo travestito da angelo custode! Un falso angelo custode che mi aveva sempre consigliata, anzi obbligata, ad essere buona e gentile, anche con chi mi faceva del male, senza mai lasciarmi reagire, e aveva poi permesso, se non addirittura provocato, quel che poi mi era veramente successo! Quattro figli morti, quattro, perdio! Uno più bello dell'altro, uno più sano dell'altro! Un diavolo era, quello, altro che angelo! L'angelo vero era dunque quell'altro, quello che veniva da me solo ogni tanto e che, in verità, anche se mi spingeva fuori dal seminato facendomi reagire magari in eccesso (ma poi perché in eccesso?) in realtà non mi aveva, quello si, mai fatto del male!
Piansi, piansi di quel pianto che non diventa mai sfogo, né consolazione, ma sempre e solo sconfitta e rassegnazione! Piansi finchè non si appisolai, ritrovandomi ancora una volta dentro il mio solito incubo, una volta frequente e ora meno, ma che avevo già avuto troppe volte e con infinite varianti ma sempre lo stesso finale. E che ogni volta partiva come un sogno e finiva in tragedia, come la mia vita stessa.
Iniziava con me nel fiore degli anni che continuavo ad aver figli, tutti maschi e così belli e così sani, che tutti me li guardavano con ammirazione ed invidia. Ed io ero al settimo cielo. Poi però qualcuno non si limitava a guardarli. A volte un uomo, più spesso una donna, o un uomo e una donna insieme, tristi perché di figli non ne avevano nessuno, mi chiedevano di potersene prendere uno. E io rispondevo raggiante che certo, si, se lo potevano anche prendere e portar via, tanto io potevo averne quanti altri ne volevo! Anzi, ero felice io, di far felici loro! E allora anche un altro, o un'altra, o un'altra coppia, si faceva a sua volta avanti, ed io, sempre sorridente, annuivo e guardavo i miei figli andarsene via, felici, mentre mio marito, appoggiato alla finestra aperta, fumava guardando fuori.
Quindi ne donavo un altro e poi un altro e poi un altro ancora, fin che alla fine tutti i miei figli, da tanti che erano, scomparivano. Tutti tranne uno, un esserino minuscolo più piccolo e strano di tutti gli altri, un fagottino che, a guardarlo bene, non mi sembrava nemmeno figlio mio, né fratello degli altri. Rimasta sola lo prendevo in braccio e, con crescente agitazione, mi accorgevo che non era né maschio né sano. Quindi non mio, non mio, non mio! Allora mi mettevo a gridare fortissimo finchè l'ostetrica non arrivava e, con aria indifferente, mi diceva "Beh, meglio una che niente, no?" Poi arrivava anche il medico che, sempre alla stessa maniera, mi diceva che no, che non mi stessi a lamentare e pensassi piuttosto a crescere quella, perché mi era successo qualcosa di brutto e non potevo più avere figli. A quel punto mi svegliavo, affannata, con gli occhi di fuori e il cuore che batteva a mille.
Anche adesso mi svegliai allo stesso modo, mentre la caffettiera sputava le ultime gocce di un caffè ormai bruciato sulla piastra già tutta annerita della stufa. Certo, pensai quando mi fui calmata sorseggiando il caffè rimasto: quello non era che un sogno, anzi un incubo, ma non è che la realtà fosse stata poi tanto diversa. Certo io non avevo regalato nessun figlio, ma era anche vero che poi di tanti che avevo avuto non me ne era rimasto nemmeno uno da allattare. Nessuno da crescere. Nessuno tranne quell'unica, primogenita figlia che, a detta degli stessi dottori, era stata la causa indiretta della morte di tutti gli altri. E che, da allora in avanti, sembrava godere nel farmi soffrire.
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