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Glauco: prima parte
M'ero alzato, vestito, lavato e scatarrato nel lavandino. Buttata giù una tazza di brodo appena caldo, m'ero infilato dentro l'ascensore alle tre di notte. Poi, mentre guidavo per le strade quasi deserte avevo acceso la prima sigaretta. Una tirata e già tossivo dolorosamente. Aprii il finestrino e scatarrai di nuovo fuori, pensando: "Bella la vita a cinquantasei anni!"
Dopo un po', posteggiata l'auto sotto una tettoia, me ne accesi un'altra, mentre salivo sul camion. Lo misi in moto e tirai un altro paio di boccate assassine. Così tante volte avevo ormai aspirato il fumo della sigaretta mischiato al gas di scarico del camion appena acceso, che ormai mi riusciva quasi piacevole. Finii la sigaretta mentre il motore si scaldava e poi fatta retromarcia, ingranai la prima e partii. Mezz'ora dopo, caricati trentatré quintali di latte fresco, pastorizzato ed omogeneizzato, cominciavo il mio giro.
La città di notte era diversa da quella del giorno e della sera. Ci si muoveva come in una dimensione parallela, quasi sospesa, lugubre e cimiteriale. Poche luci, pochi rumori, quasi nessun movimento, tranne quello del mio camion e di pochi altri veicoli, sempre gli stessi. Cambiavano anche i riferimenti e a volte anche le regole: parcheggi, sensi unici e semafori praticamente non esistevano e si potevano impiegare cinque minuti per un tragitto che di giorno ne avrebbe richiesti trenta o quaranta. Poca gente, sempre la stessa, metronotte, netturbini, qualche pattuglia di poliziotti o carabinieri, fornai, pasticceri e, naturalmente, i miei colleghi di lavoro. Era come un piccolo paese ordinato e metodico che si sostituisse alla grande città convulsa e frenetica delle altre ore del giorno. Ci conoscevamo quasi tutti e spesso ci salutavamo.
Naturalmente questo valeva soltanto per il primo dei miei due giri, quello che concludevo pressappoco alle sette del mattino. Il secondo, più leggero come carico ma più lungo per il traffico e le soste nei bar e nelle latterie ormai aperte, si svolgeva nella solita città che tutti conoscevano. Tra i due giri passavo da casa mia, alle sette e un quarto, sette e mezza, per far colazione con Bianca e i bambini. Quando erano bambini, Adesso, quasi sempre da solo con Bianca. All'una, una e mezza del pomeriggio avevo già finito. Mangiavo, poco, perché ero già pieno di porcherie e tramezzini vari, e andavo a letto un paio d'ore, dalle due alle quattro, quattro e mezza. Poi mi alzavo e vivevo la mia vita fino alle dieci di sera, massimo dieci e mezza - undici. Poi di nuovo a letto.
Era un lavoro che tutto sommato mi piaceva, anche con l'handicap dell'orario, o forse addirittura proprio per quello, perché mi permetteva innanzitutto di avere il pomeriggio relativamente libero e poi un continuo contatto con la gente. Non l'avrei cambiato con molti altri lavori che erano stati, e potevano ancora essere, alla mia portata, anche se era un lavoro comunque pesante e tutto sommato anche rischioso, perché tutti allora pagavano in contanti e io giravo sempre con un sacco di soldi nella tasca anteriore del mio grembiule da lavoro.
Alla fine della giornata, poi, non sempre i conti tornavano. Allora ricontavo i soldi ripercorrendo mentalmente tutta la giornata a ritroso, per tentare di scoprire dove e come, ancora una volta, l'avessi preso in quel posto! Eh, non è che fosse poi così bello, pensare di essersi alzati alle tre della notte e aver lavorato come bestie, per averne non solo presi pochi, ma addirittura rimessi! Quando questo accadeva, mi tornava in mente ciò che diceva il mio povero papà, che faceva quasi il mio stesso mestiere, anche se allora con carro e cavallo invece del camion: "A lavorar come somari - diceva - e a prendere bastonate, son buoni anche gli asini, anzi, soprattutto quelli!" e poi aggiungeva amaro "E noi quelli siamo!"
Naturalmente succedeva anche il contrario, ma, in quel caso, bastava accantonare l'eccedenza e aspettare che l'involontario benefattore si facesse vivo da solo, il giorno dopo o il giorno stesso. E, se non si faceva vivo nessuno, trasformare l'eccedenza in provvidenza. Così almeno avrei dovuto. Invece, il giorno dopo, continuavo a chiedere io stesso a destra e a manca, finchè alla fine qualcuno scopriva l'errore e accettava la restituzione, in genere con gratitudine ma a volte anche con sospetto.
Quelle erano le volte che dopo, rimasto solo, tiravo veramente giù santi e madonne! Ma come, pensavo, non solo non si erano accorti dell'errore, ma quando glielo facevo notare e restituivo loro il denaro, invece di ringraziarmi e magari lasciarmi qualcosa, rimanevano interdetti e insospettiti, quasi come l'avessi fatto apposta, a fregarli, il giorno prima! "Ma brutte teste di cazzo - pensavo allora - vi par che, se vi volevo fregare, il giorno dopo vi ridavo i soldi?!" Ma in realtà non avevo il coraggio di dirglielo: mandavo giù e basta. E la volta seguente ci ricascavo. Era più forte di me: avevo sempre paura che qualcuno mi considerasse furbo o disonesto. Rimanevo perciò qualche volta anche in perdita e se la somma non era granchè non lo dicevo nemmeno a mia moglie, per evitare discussioni e malumori.
C'era anche tanta brava gente a dir la verità, baristi, pasticceri, lattai che, durante il secondo giro, non si facevano certo pregare per offrirmi un bianco, un rosso, una pastina, una polpetta o un tramezzino. Per me, obbligato dalle conseguenze della mia ulcera perforata a pasti piccoli e frequenti, era come andare a nozze. Forse poi era proprio quel mio modo d'essere e di fare che mi aveva portato a farmi benvolere da quella gente che infatti mi trattava come uno di famiglia. Infine economicamente non stavo male, le notti assicurate erano un bello straordinario e in casa mia il latte fresco non mancava mai. Insomma questo lavoro era diventato la mia vita.
Altre cose invece erano e sarebbero diventate la mia morte, e lo sapevo bene. Il fumo ad esempio. Avevo cominciato giovanissimo e non avevo mai smesso, neanche quando m'ero ritrovato all'ospedale quasi completamente cieco (m'era già successo due o tre volte). Perdevo progressivamente la vista finché non ero più in grado di guidare né di far altro, e dovevo essere ricoverato per qualche settimana, evidentemente per disintossicarmi. Fumavo Alfa senza filtro allora, e quand'ero dentro mi facevo lasciare da mio figlio qualcuna di quelle che fumava lui: erano col filtro e non sapevano di niente, ma sempre meglio di... niente, appunto! Solo più tardi, appena qualche anno prima, ero riuscito finalmente ad abituarmi alle MS col filtro, non senza fatica né senza rimpianti, e pensavo che finalmente avrei potuto scroccare da Marco con soddisfazione, qualora fossi finito di nuovo in ospedale e lui fosse venuto ancora a trovarmi. Invece allora non mi fu proprio possibile, perché lui nel frattempo era già passato alle ultraleggere. E da quelle a niente, era veramente meglio niente!
Devo dire comunque che ho sempre fumato almeno un paio di pacchetti al giorno, nonostante tutti i guai che il fumo mi aveva e mi ha causato. Né ho mai tentato veramente di smettere, e non lo farò neppure adesso. La vita è già abbastanza triste così, no? Se non si può più nemmeno fumare allora... che vita è? O magari non ho mai smesso perché non ne ho mai avuto la forza, può darsi.
La seconda cosa che non avrei dovuto fare era bere. Sempre per via dei guai avuti da giovane: il tifo e la peritonite mi avevano lasciato strascichi anche al fegato, così mi avevano detto. Ed era vero, visto che non ricordo di aver mai più mangiato con vero piacere né digerito con facilità. Non che sia mai stato un ubriacone, eh, quello lo era stato già abbastanza mio padre, e non solo quello in verità, ma un bicchiere mi è sempre piaciuto, sono sincero! Questo, col mio lavoro, era un problema, perché bevevo praticamente prima e durante i pasti, se non dopo, visto che dopo andavo a letto. Anzi, bevevo sicuramente più prima che durante, se è vero che quando mangiavo ho sempre tenuto il fiasco, o la bottiglia, non sopra la tavola, ma vicino al muro accanto al frigo. Quando dovevo bere mi alzavo, riempivo il bicchiere rimettendo la bottiglia a posto, e poi mi rimettevo a sedere, bevendo e poi continuando a mangiare. Quindi non credo di aver mai bevuto più di uno o due bicchieri, a tavola.
Ma mia moglie sapeva, così come sapeva che mangiavo sempre poco perché dalle nove a mezzogiorno, quando finito il giro rientravo in centrale con le casse vuote, era tutto un continuo: la polpetta, l'olivetta, il tramezzino, il sottaceto, mangiavo praticamente di tutto, tanto col mezzo intestino che avevo non c'era pericolo di metter su chili. Sempre stato un figurino, io, casomai anche troppo!
Credo però che i danni più grossi mi siano venuti dal mio carattere chiuso e introverso che non mi ha mai permesso di sfogare alcunché. Ho sempre tenuto tutto dentro, soprattutto ciò che più mi feriva. La mia ignoranza, ad esempio: ero appena capace di leggere e scrivere, e a far di conto avevo imparato per forza. Ci misi sei anni ad arrivare in terza elementare, l'ultimo anno non stavo nemmeno più nel banco! E non ho mai letto un libro, ma solo il giornale, a differenza di Bianca che invece leggeva anche gli elenchi del telefono.
E poi il mio complesso d'inferiorità. Dicono che io sia sempre stato bello, ad esempio, ma a me non è mai parso. Io non mi sono mai piaciuto, fragile e insicuro com'ero da giovane e debole e insicuro come era ora che ero quasi vecchio. E in ogni caso remissivo, perdente. Mai capito da dove venisse la stima e la considerazione che ho sempre riscosso. Dicono che avessi anche altre doti, non sempre in verità, prime fra tutte la voglia di lavorare e la specchiata onestà. A parte il fatto di quel che mi era successo e che non mi va di raccontare, io ho sempre pensato che l'onestà fosse solo una delle mie debolezze. Ci vuol coraggio anche per rubare e io non l'ho quasi mai avuto.
Senza contare poi il fatto di mio fratello.
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