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Le Iliadi dell'Odissea
Intitoliamo così i numerosi passi dell'Odissea che rievocano le vicende del conflitto troiano. Generalmente è Ulisse che le racconta ai suoi interlocutori, ma per lo più egli tiene nascosta all'interlocutore la sua vera identità e il suo racconto appare naturalmente non del tutto veritiero se non proprio inventato. Ma anche i bellissimi Apologhi ad Alcinoo, con le fantastiche storie di Circe, Polifemo, Tiresia non si sottraggono a questa valutazione: direi che Omero ha scelto di proposito di porli sulla bocca stessa del suo eroe, quasi a sottrarsi all'accusa di inverisimiglianza.
Iniziamo con il racconto che il vecchio Nestore fa a Telemaco, giunto a Pilo in cerca di notizie sul padre, ricordando che una tradizione ripresa dagli autori medievali Benoît de Sainte-Maure e Guido delle Colonne fa di lui giovane un argonauta che con Giasone, Eracle e Peleo avrebbe partecipato alla prima distruzione di Troia, contro Laomedonte, il padre di Priamo. Il racconto di Nestore prosegue con la storia di Oreste, che sarà poi argomento della tragedia attica.
III 96-417 (γ 69-312)
γ 69 "Interrogare or gli ospiti si addice,
Che il cibo ha confortato: O forestieri,
Chi siete, onde venite e qual vi spinse 95
Bisogno a traversar l'equoree vie?
Od ite a caso per lo mar raminghi
Come pirati che la vita a rischio
Pongon per depredar l'estranee genti?"
γ 75 Di sé fatto sicuro, gli rispose 100
Il prudente garzon, ché nuovo ardire
Posto gli ebbe nell'animo Minerva,
Acciò del padre assente al Re dimandi
Ed a sé gloria appo le genti acquisti:
γ 79 "O Nèstore Nelide! inclito vanto 105
Degli Argivi, ti piacque interrogarne
Chi siamo ed ecco a dìrloti son presto.
D'Ìtaca che del Nèio siede alle falde
Or qua giungiam; parlar d'una faccenda
Privata, non già pubblica, ti deggio. 110
Vengo, se aver poss'io qualche contezza,
L'ampia del padre mio fama seguendo,
Del magnanimo Ulisse che già teco
Combattendo, com'è pubblico grido,
L'Ìlie mura atterrò. De' guerrier tutti 115
Che co' Tèucri pugnar, per noi si seppe
Dove ciascun di ria morte cadéo;
Ma di Saturno il figlio anche la morte
Ci nasconde d'Ulisse. Alcun sin'ora
Non ci chiarì dov'ei finìa: se giacque 120
De' nemici per man sul continente,
O d'Anfitrite se 'l domâro i flutti.
A te dunque ricorro e le ginocchia
T'abbraccio, perché a me del genitore
Narri la morte dispietata (o l'abbi 125
Con gli occhi propri vista, o qualche errante
Riferta l'abbia a te), ché soprammodo
Infelice la madre il partorìa.
Né di farmi dolente alcun riguardo
Ti prenda, né pietà nulla ti tocchi, 130
Ma quanto sai, deh! dìllomi, te n' prego,
Se di consiglio o d'opra a te promessa,
Ti giovò il padre mio, l'egregio Ulisse,
Là tra le Ilìache genti, ove cotante
Sventure, o Dànai, tolleraste. Ah! questo 135
Rammèntati ed il vér nudo mi svela."
γ 102 "Figlio - rispose il Cavalier Nelide -,
Tu mi fai rammentar quanti infortuni
Appo il nemico popolo patimmo,
Noi gagliardìa de' Greci, invitta prole; 140
Sia che sul negro mar co' legni errando
Di preda in traccia ci guidasse Achille,
Sia che di Prìamo Re sotto alla vasta
Città per noi si combattesse, dove
Gl'incliti nostri eroi cadean trafitti: 145
Là giacque il Marzio Aiace e là il Pelide,
Là Pàtroclo nel senno emolo a' Numi,
Là il caro figliuol mio, l'esimio e forte
Antìloco, del par veloce al corso
E prode battaglier; ben altre molte 150
Disventure ci oppressero. Chi mai
Potrìa tutte ridìrtele? Se cinque
E sei qui t'indugiassi anni, chiedendo
Quanti guai soffrîr là d'Èllade i prodi,
Fastidito al natìo suol rediresti, 155
Prima che a fin traessi il mio racconto.
Nov'anni interi, macchinando offese
Con tutti ingegni, noi li circuimmo;
Allor Giove recò l'impresa a fine.
Col divo Ulisse gareggiar di senno 160
Non volle alcun lì mai, perocché tutti
Negl'inventi e le astute arti vincea,
Col padre tuo... Certo, gli sei tu figlio;
Meraviglia mi assal, mentr'io ti guardo,
Ché simiglianti a' suoi sono i tuoi detti, 165
Ned a quel dell'eroe così conforme,
Creder potrìasi il dir d'un giovinetto.
Finché si guerreggiò, là non avemmo,
Né in parlamento, mai, ned in concilio
Due diversi pareri Ulisse ed io; 170
Ma unanimi aprivam quel saggio avviso
Che degli Argivi a pro tornar dovea.
L'alta città di Prìamo rovesciata,
Quando le navi salivamo, un Dio
Disperse l'oste Achea; da quel momento 175
Funesto in mente macchinò il ritorno
Agli Achivi l'Olìmpio, ché non tutti
Prudenti eran, né giusti, anzi un rio fato
Molti colpì per la terribil ira
Della possente Dea dal guardo azzurro, 180
Inclita prole d'un possente Iddio,
Che fra gli Atridi aspra eccitò contesa.
Convocâr dissennati a parlamento
Contro l'usanza, a Sol caduto, i Greci
Che trasser, di Lièo molto gravati, 185
Ad ascoltar ciò che sponean que' duci.
Menelao là ingiungeva ai Dànai tutti,
A far sul dorso ampio del mar ritorno;
Ma forte disgradì quella proposta
All'Atride maggior che fermo avea 190
Di rattener le schiere ed immolando
Sacre ecatombe, l'ira violenta
Della diva placar: stolto! né vide
Che d'allenirla si studiava indarno;
Ché di leggier non càngiasi la mente 195
Degl'Immortali. Mentre con alterni
Acerbi detti altercano gli Atridi;
Surser, levando alto rumor, gli Achei,
Per contrario voler tra sé divisi.
Pernottammo così, gli uni agitando 200
Contro gli altri pensier tetri e funesti;
Ché Giove ci apprestava orridi guai.
Come l'alba apparì, nel mar le navi
Varammo e molte sopra v'imponemmo
Dovizie e donne d'elegante cinto; 205
Mezza l'oste restò là presso il duce
Di genti Agamennón; l'altra, ov'io salsi,
Ne' remi diè; correvano veloci
Le navi, ché tranquille a noi davanti
L'onde adeguò del mar pescoso un Dio. 210
A Tènedo approdati, ostie votive
A' Numi offrimmo, pur de' tetti nostri
Desiderosi. Ma non piacque a Giove
Consentirci il redir, che, dispietato!
Fiera di nuovo la discordia accese, 215
Ché Ulisse, accorto e saggio Re, ritorse
Co' suoi compagni delle navi il corso,
Gratificar volendo al sommo Atride.
Ma io co' molti legni che seguîrmi,
Fuggìa, presago de' disastri gravi 220
Che a nostro danno meditava un Nume.
Animando i compagni, anch'ei fuggìa,
Di Tidèo 'l figlio bellicoso. Tardo
Il biondo Menelao ci aggiunse in Lesbo;
Che del viaggio faticoso e lungo 225
Consultavam: se navigar di sopra
A Chio petrosa, Psirìa costeggiando,
E lasciàndola a manca, o sotto Chio
Veleggiar lungo il ventoso Mimante.
Giove pregammo d'un prodigio; e 'l Nume 230
Il ci mostrò; poi fendere nel mezzo
Il pelago ove Eubèa sorge c'indisse,
Per condùrci in gran fretta a salvamento.
Prospero allor soffiò vento stridente
Da cui le navi, oltra sospinte, ratto 235
Le vie pescose percorreano, tanto
Che notturne sorgean sovra Gerèsto.
Molte colà a Nettuno anche di tori,
Misurato gran mar, per noi fûr arse.
Splendeva il quarto dì, quando i compagni 240
Del pro' Tidide ritornâro in Argo;
Vèr Pilo il corso io tenni e quel propizio
Vento che un Nume c'inviò da prima,
Non mai si estinse. Di tal guisa, o amato
Figlio, ignaro giuns'io, né degli Achei 245
Seppi quali campâr, quali perîro.
Ciò poi che accolto ne' miei tetti udìa,
Schietto, come si addice, or ti appaleso.
È fama che ritorno ebber felice
Gli esperti d'asta Tèssali guerrieri 250
Che l'inclito guidò figlio d'Achille;
L'esimia prole di Peànte ancora,
Filottete, il sortì del par felice.
Tutti i compagni rimenava in Creta,
Che sfuggîro alla guerra, Idomenèo: 255
Né 'l mar alcun gli tranghiottì. Già udiste,
Benché lontani, voi medesmi, come
Agamennón se n' venne e come Egisto
Ria morte gli tramò. Ma costui pure
Condegna al suo fallir pena sostenne. 260
Oh! felice l'eroe che un animoso
Figlio dopo di sé, vindice lascia!
Tal si fu Oreste; che traea dal vile
Del suo gran padre ucciditor vendetta.
Tu pur, diletto mio, (ché bello e grande 265
Soprammodo ti veggio) al par sii prode,
Acciò il tuo nome alle future genti,
Lodato di virtù splendida, voli."
γ 201 "O Nèstore Nelide, inclita luce
Delle Argòliche genti, Oreste a pieno 270
Si vendicò! Celebreran gli Argivi
L'alta sua gloria e volerà nel canto
Delle future età l'inclito nome.
O Nèstore Nelide, il vér mi narra:
Come perì l'Atride ampio-regnante
Agamennóne? Menelao dov'era?
Come il perfido Egisto una tal morte 330
Macchinò, ch'uom di sé tanto più forte
Trucidava? Lontan forse era d'Argo
Acaica Menelao? Forse egli errava
Fra estranee genti, sì che, la paura
Scossa dal petto, il traditor l'uccise?" 335
γ 253 "Figlio - il Nelide soggiungea -, sincero
Tutto il vér ti dirò. Ben ti se' apposto:
Ciò stesso avvenne. Se reverso d'Ìlio,
Sorpreso avesse il biondo Menelao
Nel palagio d'Atride Egisto vivo, 340
Conspersa la costui spoglia non fôra
Pur d'un pugno di terra, ma disteso
Lungi dalla città, sarìa in un campo
Pasto d'augei, di cani, né Achea donna
Sparso sovr'esso avrìa stilla di pianto, 345
Tanto ria scelleraggine commise!
Là sott'Ìlio per noi molte battaglie
Fornìvansi, ma queto egli nel fondo
Del fertil Argo con soavi accenti
Del grande Atride la moglier blandìa. 350
Dal turpe fallo rifuggì da prima
La nobil Clitennestra, ché nel petto
Adorna di virtù l'alma chiudea.
Stàvale inoltre il chiaro vate accanto,
Cui diè 'l carco in partendo il sommo Atride, 355
Di servargli la sposa intemerata.
Ma quando Egisto dal destin de' Numi
Irretito, domàvasi, in deserta
Isola il vate trasportato, quivi
Esca e strazio d'augei lo abbandonava; 360
Poscia, da mutue brame ambi sospinti,
L'amante in sua magion l'amata addusse.
Molte de' numi sui sacrati altari
Anche di tori ardea, molte votive
Offerte e vesti ed oro vi sospese; 365
Poi che pose ad effetto il fier disegno,
Del che nulla speranza in cor nutrìa.
Già dipartiti d'Ìlio, solcavamo
Lo stesso mar l'Atride ed io, ché ognora
Gli animi avemmo d'amistà congiunti. 370
Ma come al Sùnio divenimmo, sacro
Promontorio d'Atene, ivi da' miti
Strali di Febo il suo nocchier fu spento,
Che del corrente pin tenea 'l governo,
L'Onetòride Fronte che vincea 375
Gli umani tutti, dirigendo un legno,
Quando ruggìa il furor delle tempeste.
Là Menelao risté, benché bramoso
Di fornire 'l viaggio, ed al compagno
Onor fece d'esequie e di sepolcro; 380
Ma quando il bruno ei pur mare solcando
Co' suoi legni correva e già all'eccelso
Capo della Malèa facéasi appresso,
Allor gli destinò Giove 'l viaggio
Orrendo: gli avventò striduli vènti 385
Che in alto sollevâr le tumid'onde,
Tanto che si agguagliavano a montagne.
Là disperse le navi e parte a Creta,
Alle correnti del Giàrdano intorno,
Dove i Cidoni albergano, sospinse. 390
Liscia ed alta protèndesi al confine
Di Gòrtina, sul mar fosco, una rupe;
Là cacciando i marosi Àustro di forza,
Del promontorio Festo al lato manco,
Piccola roccia li vi arresta e frange. 395
Quivi l'armata urtò: campâro a stento
Gli uomini, ma dal mar fiero cacciati,
Contro gli scogli si fiaccâro i legni.
Pur cinque navi dall'azzurra proda,
D'Egitto in riva il vento e 'l mar spingea, 400
Mentre là Menelao con queste errava
Accumulando vettovaglie ed oro,
Tra genti di favella altra, gli empiea
Egisto la magion d'orribil lutto:
Trucidò Agamennón, sott'aspro giogo 405
Il popolo domò; per ben sett'anni
Alla ricca Micene il freno impose;
Ma l'ottavo anno, reduce d'Atene,
Sorvènnegli funesto il divo Oreste
Che quell'infame traditor spegnea, 410
Che ucciso il genitore inclito gli ebbe.
Poscia che l'immolò, diede agli Argivi
La cena sepolcral per l'odiosa
Madre e 'l codardo parricida Egisto.
Il dì medesmo, Menelao sorgiunse, 415
Adducendo con sé tante ricchezze,
Di quante ne patìan le navi 'l pondo.
Dopo Pilo, Telemaco e Pisistrato, uno dei figli di Nestore, si recano a Sparta da Menelao, che ormai rappacificato con Elena è tornato in patria, sia pure dopo sette lunghissimi anni. Elena racconta di un astuto ingresso di Ulisse in Troia e Menelao rievoca l'inganno del cavallo (è con θ 487 sgg., riportato di seguito, l'unico accenno omerico a questa famosissima vicenda) e il suo travagliato ritorno.
IV 317-378 (δ 240-290)
Certo, né raccontar, né qui potrei
Ricordar pure tutte l'ardue pugne
Dell'intrepido Ulisse; or toccar solo
Piàcemi ciò che ardì, ciò che a fin trasse 320
Appo i Tèucri quel forte, ove cotante
Sventure, o Dànai, tolleraste. Un giorno,
Di sconce piaghe la persona offesa,
Vil tunica gettò sopra le spalle
E come schiavo penetrò nell'ampia 325
Città nimica; ognun sì travestito
Un mendico il credea, pur tal non mai
Lungo le navi Argòliche mostrosse.
Ignoto a tutti, io sola il riconobbi;
L'interrogai quind'io, pur quell'astuto 330
Sempre con l'arti usate si schermìa.
Ma come l'aspers'io di limpid'onde
E di licor l'unsi d'uliva, e 'l cinsi
Di vesti, l'affidai col più gran giuro
Di non far manifesto a' Tèucri Ulisse, 335
Pria che alle tende riparasse e a' legni;
Allor la mente degli Achei m'aperse.
Trafitti poscia con acuta spada
Molti nemici, fe' ritorno al campo
Ed il modo chiarì ch'Ìlio ruìni. 340
Empiean l'aure di strida e d'ululati
L'Ìlie donne, ma dentro in me brillava
Di gioia il cor, ché di tornare ardea
Al mio antico ricetto; e la sventura
Di che mi nocque Vènere, piangea, 345
Quando dalla natìa terra diletta
Strascinommi lontana e l'innocente
Mia fanciulletta e 'l talamo e 'l consorte,
(Per altezza d'ingegno e per leggiadra
Nobil fierezza a null'altro secondo) 350
Abbandonare, ahi, misera! mi strinse."
δ 265 "Tu, retto parli - soggiungea l'Atride -,
O donna mia! Ben io di molti prodi
Penetrai nella mente e nel consiglio;
Terre vaste percorsi e nondimeno 355
Non io con questi vidi occhi giammai
Alma sì grande, qual chiudéala in petto
L'inclito Ulisse. Oh! quanto oprò e sostenne
Nel piallato cavallo, ove noi tutti
Di Grecia i prodi sedevam, bramosi 360
Pur di recare a' Tròi sterminio e morte.
Lì sorvenisti e lo t'ingiunse un Nume
Che dar gloria a' Troian volgeva in mente.
Di beltà pari a un Dio, preméati l'orma
Deìfobo. Tre volte circuisti 365
Il cavo agguato e 'l brancicasti, e i primi
Chiamasti a nome degli Achei, la voce
Contraffacendo di lor donne. Assisi
Nel mezzo, io, Diomède e 'l divo Ulisse
La tua chiamata udimmo. Io ed il Tidide 370
Sbalzar fuor volevamo impetuosi
O dal chiuso alvo almen farti risposta;
Ma ci ripresse e ci contenne Ulisse,
Benché bramosi. Stavano in silenzio
Tutti d'Èllade i figli; Ànticlo solo 375
Risponderti volea, ma con le forti
Mani sì gli calcò la bocca Ulisse,
Che salvò gli Achei tutti; e 'l comprimea
Finché tratta di là t'ebbe Minerva."
Menelao finalmente risponde all'ansiosa richiesta di Telemaco e parla delle ultime fasi del suo ritorno, quando ha toccato l'Egitto e da un dio del mare, Proteo, ha avuto notizie degli altri Ritorni, compreso quello drammatico di Agamennone, e di Ulisse. Siamo quindi dinanzi agli argomenti del ciclo e anche qui vale il richiamo alla tragedia (si pensi all'Elena euripidea).
IV 620-757 (δ 481-569)
Udito il veglio, mi s'infranse il core, 620
Perocché m'ingiungea solcar di nuovo
Il tenebroso mar sino in Egitto,
Via lunga e perigliosa. Nondimeno
Il veglio interrogai: "Tutto che imponi,
O veglio, adempierò. Tu schietto or dimmi, 625
Se con le navi ritornâro illesi
I Dànai tutti che lasciammo, quando
Nèstore ed io di Troia ci partimmo;
O se qualcun perì nella sua nave
Di morte inopinata o tra le braccia 630
De' cari suoi, fin posto all'ardua guerra?"
δ 492 "Perché di questi eventi or tu mi chiedi,
Figlio d'Atrèo? Non fa per te il saperli,
Né penetrar la mente mia; ché a lungo
Non terrai, mi cred'io, le luci asciutte, 635
Tosto che il tutto a pien ti fia palese.
Molti di lor perîr, molti campâro:
Due soli Duci de' valenti Argivi
Nel ritorno morîro (a te son conti
Que' che cadean pugnando); un altro ancora 640
Vive, ma 'l si ritiene circuita
Dal vasto mar un'isola nel grembo.
Perì co' legni di gran remi armati
Aiace. Prima l'appressò Nettuno
All'enormi Girèe rocce e da' flutti 645
Scampo gli diè; certo schifato avrìa
La crudel Parca, benché a Palla in ira,
Se un motto non lanciava ebro d'orgoglio,
Che fatal gli tornò: "Sfuggir vo' - ei grida -,
In dispetto agli Dèi, le tumid'onde." 650
Come Nettun l'udì menar tal vampo,
Diè di piglio con man forte al tridente,
Percosse la Girèa roccia e da cima
Al fondo la spaccò; parte lì stette,
L'altra nel mar precipitò: (e fu questa 655
Su cui, furendo pria, sedéasi Aiace).
Travolto giù del mar ne' cupi abissi,
Poi che la salsa ei bevve onda, perìo.
Sfuggito avea ne' legni suoi la morte
Il tuo fratel, cui pose Giuno in salvo. 660
Ma come al capo eccelso di Malèa
Fu presso, il rapì un turbine e 'l sospinse
Non senza molti gemiti e sospiri,
Là nell'estremità della campagna,
Dove Tieste un tempo e dove allora 665
Teneva Egisto Tiestìade stanza.
Già brillava felice in quel momento
Agli occhi di Agamènnone il ritorno,
Drizzâro i Numi lo spirar del vento,
Tal che le navi in porto entrâr; gioioso 670
Nella piaggia natìa scese l'Atride,
La toccò, la baciò, calde dagli occhi
Gli traboccâr le lagrime alla vista
Sì dolce e cara della patria terra.
Ma da un'alta vedetta il discoverse 675
L'esplorator che collocò lassuso
Il fraudolento Egisto e a cui promise
Di due talenti d'oro il guiderdone.
Stava lì un anno a guarda; non l'Atride
Giunto celatamente ridestasse 680
L'indomita sua possa. Accorse ratto
Ad annunziar l'evento al Re, che un'empia
Sùbita frode ordì. Vénti n'elesse
De' più valenti, mìseli in agguato
E in disparte ordinò che s'imbandisca 685
Il convito. Di cocchi e di cavalli
Andò con pompa ad incontrar l'Atride;
Pur meditando orribili delitti.
L'eroe condusse, del suo fato ignaro,
Ed accolto al convito, ivi l'uccise, 690
Come s'immola nel presepe un bue.
Di tutti i prodi che seguîr l'Atride,
Nullo scampò; nullo di que' di Egisto:
De' traditori corse e de' traditi
Commisto il sangue e dilagò la reggia." 695
δ 537 Udite queste voci, il cuor nel petto
Mi si schiantò. Prosteso in sulla sabbia
Piangea, né 'l viver più, né più del Sole
Patìa la luce. Come alfin del pianto,
Sul terren voltolàndomi, fui sazio, 700
Il marin veglio veritier soggiunse:
δ 543 "Cessa da sì gran pianto e sì ostinato,
Atride, omai, perocché alcun conforto
Non rinverremo noi; ma fa' ogni prova
Di redir presto alla natìa contrada. 705
Vivo Egisto potrai côrre, se Oreste,
Ti antivenendo, non l'uccise; certo
Al convito funèbre assisterai."
δ 548 Benché dolente al suon di queste voci
L'altero cor nel sen mi rifiorìa. 710
"Èmmi di lor - soggiunsi -, il fato or chiaro;
Ma tu il terzo mi noma il qual, se vive,
Dall'alto mar immenso è circuito;
Deh! tu 'l mi di', né del mio duol t'incresca."
δ 555 "Di Laerte la prole, il divo Ulisse, 715
La cui magione in Ìtaca si estolle
- Il vecchio ripigliò -, spargere il vidi
Gran pianto, là in un'isola, d'appresso
Alla Ninfa Calipso che in sue case
Per forza il si ritien; né alla natìa 720
Contrada può redir, ché di navigli,
Di rèmigi in difetto, il vasto dorso
Varcar non può del mar. Quanto a te, o divo
Menelao, no, tu non avesti in fato
Perir in Argo di cavalli altrice; 725
Né potresti da morte essere aggiunto.
Trasporterànti nell'Elisio campo,
Colà, ai confini della terra, i Numi,
Sede di Radamànto, ove contenta
Scorre all'uomo la vita, ove non pioggia, 730
Non neve mai, né lungo verno regna.
Ma, blando sempre, una fresc'aura spira
Zèffiro che s'invia dall'Oceàno
Gli umani a confortar, perocché sei
Sposo d'Èlena e genero di Giove." 735
δ 570 Detto, nell'onde si attuffò. Processi
Co' miei prodi compagni in vèr le navi,
E di molti pensier, mentre me n' gìa
Oscuràvanmi 'l cor. Giunto al navile,
Apprestammo la cena; e come scese 740
L'immortal Notte lungo il marin lido,
Al mormorar de' flutti ci addormimmo.
Quando la figlia del mattin rifulse,
Primamente nel mar sacro lanciammo
Le navi; alzammo gli alberi ed al vento 745
Dispiegammo le vele. Indi i compagni,
In lungo sovra i banchi ordine assisi,
Percoteano co' remi il mar spumante.
Di bel nuovo, d'Egitto in sulla foce,
Fiume che trae l'origine da Giove, 750
Fermai le navi, e degli Eterni l'ira
Con perfette placai sacre ecatombe.
Ersi ad Agamènnone indi un sepolcro,
Perché sua gloria eternamente splenda.
Fornito ciò, mi ravviai, secondo 755
Diêrmi il vento gli Dèi, che prestamente
Alla diletta mia terra mi addusse.
Dopo la Telemachia, Omero passava a narrare dello stesso Ulisse, che lasciata la ninfa Calipso e incappato nella violenta tempesta scatenata da Poseidone approdava naufrago a Scheria, l'isola dei Feaci. Lo soccorreva la bella Nausicaa e suo padre Alcinoo lo ospitava munificamente. Durante il banchetto, l'aedo Demodoco cantava di una lite, peraltro ignota da fonti diverse, tra Ulisse ed Achille.
VIII 72-82 (θ 72-83)
Come le mani sulle apposte dapi
Ciascuno stese e del mangiar, del bere
Ebbe nel sen ripresso ogni desìo,
Eccitò a celebrar la Musa il vate,
Le gesta degli eroi col nobil canto, 95
Di cui la fama sino al Ciel salìo:
La contesa d'Ulisse e del Pelide,
Che tra lor già scoppiò con detti acerbi
Nel solenne agli Dèi sacro convito.
Il maggior degli Atridi in cor gioìa, 100
Che altercasser tra lor dei duci i primi,
Ché Febo là nella divina Pito,
D'Ìlio così 'l cader gli profetava,
Quand'ei, varcata la marmorea soglia,
Consultònne l'oracolo: in quel punto 105
Principio avran gli affanni e le sventure
Che sulle Frigie e sulle Dànae genti,
Come Giove fermò, ruineranno.
Questi i canti del vate inclito furo.
Ulisse si commoveva senza darlo a vedere, ma Alcinoo se ne accorgeva e gli chiedeva la sua identità. L'eroe la rivelava tra lo stupore ammirato dei Feaci e chiedeva poi all'aedo di cantare le fasi ultime del conflitto. Sono gli argomenti ciclici della Piccola Iliade e della Distruzione di Ilio, contenuti altrove in questo sito.
VIII 642-690 (θ 485-520)
Drizzò Ulisse al cantor cotesti accenti:
θ 487 "Certo, nella divina arte de' carmi,
Te, fra i mortali tutti io tengo il primo,
Demòdoco; che Te una Musa, figlia 645
Di Giove, ammaestrava o Febo stesso;
Nobile vate! Oh! quanto il fato avverso
Degli Argivi, e le imprese, ed i sofferti
Guerrieri affanni, e tutto ch'essi oprâro
Mirabilmente canti! Appunto come 650
Presente fossi o 'l ti dicesser elli!
Or via deh! segui e digredendo canta
Il gran cavallo che d'inteste travi
Epèo, scorto da Pàllade, construsse.
Mole che penetrar féo nella rocca, 655
Insidiando, il divo Ulisse, poscia
Che gli ascose nel grembo inclita schiera,
Per cui Troia fu già cacciata al fondo.
Se fil filo dirai siffatti eventi,
Attestare m'udran gli umani tutti, 660
Subitamente, che benigno un Nume
Cotesto t'inspirò canto sublime."
θ 499 Agitato da un Dio, fe' tosto il vate
Risuonare i suoi canti, e narrò in prima
Come gittato nelle tende il fuoco, 665
Montâro i legni e navigâr gli Argivi;
Gli altri d'intorno al valoroso Ulisse
Sedean, nel grembo del cavallo ascosi,
Tra il popolo de' Tròi, perché e' medesmi
All'ardua rocca in vetta il trascinâro. 670
La mole ivi torreggia; assise intorno,
Incerti avvisi aprìan le Ilìache turbe.
Tre sentenze agitàvansi: od il cavo
Legno spezzar col ferro, o tratto ad alto
Precipitarlo sull'alpestri rocce, 675
Od assentir che immane adornamento
Quivi resti a placar l'ira de' Numi.
Quest'ultima prevalse: Ìlio ebbe in fato
Dall'imo ruinar, quando in suo grembo
Accolto avesse quel cavallo enorme, 680
In che seggendo i più valenti Argivi
Porterebbero a' Tròi sterminio e morte.
Cantò indi 'l vate, che del cieco agguato
Fuor gli Argivi versàtisi, l'eccelsa
Disertavan città; che mentre gli altri 685
Prodi al suol l'adeguavano, già Ulisse,
Qual Marte, corse col minore Atride,
Di Deìfobo ai tetti, ove un orrendo
Conflitto a sostener ebbe, da cui
Auspice Palla, vincitor n'uscìo. 690
θ 521 Questi del vate i canti inclito furo.
Seguiva poi a più riprese il racconto stesso di Ulisse al re e ai Feaci delle proprie peripezie, che vanno sotto il nome di Apologhi ad Alcinoo e occupano i canti IX-XII dell'Odissea: quanto di verisimile per lo stesso Omero ci fosse, lo lascia desumere il fatto stesso che sia qui l'eroe e non il poeta a parlare. Ma naturalmente questo non inficia l'altissima bellezza di queste famosissime vicende.
Dopo Scheria, Ulisse viene riportato ad Itaca dai Feaci e si conclude la sua "peripezia", anche se gli resta da affrontare il duro scontro con i Proci. Ospite del fido porcaro Eumeo, egli, anche per metterlo alla prova, gli racconta di sé una storia che mescola abilmente verità e menzogna prima di scoprirgli la sua vera identità. Farà lo stesso con Laerte e Penelope, ai quali si rivelerà solo dopo la strage dei pretendenti.
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Nota bene: I collegamenti tra i diversi passi e la ricerca strutturata sono dovuti a Francesco Chiappinelli, che ne rivendica il copyright consentendo comunque il libero e gratuito utilizzo per motivi didattici; la traduzione dei passi omerici è quella ottocentesca di Nicola Definiotti, contemporaneo del Foscolo e oggetto dell'attenzione di Niccolò Tommaseo. In calce ne indichiamo la nota bibliografica, grati al progetto Manuzio e a Liberliber.
Omero
(Homerus)
Odissea
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Odissea
AUTORE: Homerus
TRADUTTORE: Delvinotti, Niccolò
CURATORE: Volpi, Vittorio
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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- la trattengo x rileggerla più approfonditamente, complimenti