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Il traghetto del desiderio

L'alba era piena di foschia e i passeggeri si accalcavano lenti nelle loro postazioni su uno dei traghetti delle Türkiye Denizcilik İşletmeleri (le Linee Marittime di Stato turche) che dalla sponda est di Istanbul portava alla sponda ovest.
Io li seguivo lentamente, accompagnato dalla mia collega Stefania Faldini, che era come sempre, anche a quell'ora antelucana, sempre molto vigile e attenta sulle cose da fare e sul come farle. Eravamo andati lì per partecipare ad uno scambio culturale organizzato dall'associazione di cui facevamo parte, la Ermes, uno scambio che inizialmente doveva essere teso a favorire le manifestazioni artistiche tra Turchia e Italia, ma che negli effetti finali si era risolto in un asciutto vernissage di opere pittoriche da noi portate dall'Italia, più alcuni reading di mie poesie, tradotte in turco da un mio amico poeta che avevo conosciuto su Internet e che poi abbiamo ritrovato lì. Ora tornavamo a casa, un po' amareggiati per gli scarsi risultati ottenuti, ma comunque contenti che anche quell'esperienza abbastanza stressante fosse terminata, e che ci avesse, in un certo senso, "arricchito"...
Stefania era stata una compagna preziosa come sempre: la sua capacità organizzativa, il suo verace senso pratico, supplivano come sempre alla mia "sbadataggine" e confusione "manageriale"; in questo senso eravamo una "coppia" che si completava (peccato solo che lei fosse già fidanzata, con un ingegnere "quadrato" , come anch'essa lo definiva). Ora la vedevo contenta anche lei che l'esperienza fosse finita, e leggevo nei suoi occhi la voglia di riabbracciare la sua terra e le persone care.
Il traghetto proprio in quel momento diede il tipico suono di avvertimento delle navi che stanno partendo, con la sua sirena: mi riscosse dalle "elucubrazioni" e riflessioni post-scambio culturale, e ci avvertì che dovevamo affrettarci a prendere posto. Ci accomodammo così su una panchina sul passaggio ponte e ci apprestammo a trascorrere il viaggio, vedendo il mare azzurro che da lontano cominciava a balenare nel mattino che cominciava a schiudersi.
Stefania era un po' stanca e cominciò a sbadigliare, appoggiando la sua testa coi capelli neri corti sulla mia spalla, come era solita fare quando era in quelle condizioni di sfinimento psichico o fisico, e dandomi con quel gesto, come ogni volta, uno strano miscuglio di sensazioni di orgoglio virile e di insopportabile dipendenza dal suo essere ragazza di bell'aspetto, ma senza "cervello".
Stavo già pensando a come occupare il lasso di tempo che ci separava dall'arrivo all'altra sponda, finchè a un certo punto mi accorsi di una cosa molto strana che accadeva sotto i miei piedi, o meglio sotto il pavimento del ponte. I miei piedi infatti avvertivano uno strano movimento ondulatorio che veniva dal ponte, come se fossero vibrazioni provocate da una musica fortissima e piena di bassi potenti. Facendo attenzione a non far male Stefania che continuava a dormire, le appoggiai la testa su una delle nostre valigie più morbide, e quindi cercai di divincolarmi da lei in maniera più sciolta possibile: quando ci fui riuscito, mi abbassai fino a terra, appoggiando l'orecchio al pavimento, a mò degli Indiani d'America quando volevano sentire se c'era il nemico bianco (cioè, gli anglici conquistatori poi tramutatisi nella paninara razza degli americani) in avvicinamento.

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