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La fine del Signor S. e della casa-stamberga
Un ciuffo di capelli nerissimi e sconvolti riaffiorò da una nuvola di fumo. Fecero poi capolino un paio di occhi scuri dal taglio sottile e un viso affilato dall'espressione ineffabile. Boccheggiò per un po', con il cilindro di tabacco che si scollava ora dalle labbra. Osservò davanti a sé il tratto di strada tra i due lampioni, le due case in muratura e le due vecchiette che si trascinavano sul marciapiedi, sporta della spesa a seguito. Le assi del palchetto della veranda cigolarono. Il ragazzo raggelò. Adocchiò la sveglia in bilico sul tavolo e vide che puntava le sedici e un quarto; sentì un moto d'impazienza. Provò a reprimerlo. Infilò il berretto e affondò nuovamente la testa in una pozza di fumo.
La casa, tanto simile a un capanno dismesso, si era inchiodata al suolo e lì se ne stava, al limite della periferia. Non gli anni, non l'eccessiva calura che smuove e rigonfia le travi, né il freddo e nemmeno la morte di tre proprietari diversi avevano fiaccato la sua devozione a quella strada. Da quattro generazioni sopravviveva a demolizioni e riassetti urbanistici, nell'indifferenza di tutti, o quasi. Il vialetto strisciava coperto di arbusti e terra smossa dal cancelletto basso e arrugginito. Le cornacchie e gli altri uccelli vi banchettavano, precipitandosi a capofitto oltre il recinto di vecchie assi, lamiere e chiodi ammaccati che cingeva la casa. Il colore dell'edificio era indecifrabile. Sulle assi di legno consumato, qua e là, il giallo predominava a larghe macchie indistinte sul rosso, sul bianco o su timide chiazze di verde. Sul retro, la casa aveva una piccola veranda che poggiava su assi tarlate e mezzo-sfondate. Un tavolo ampio, anch'esso di legno, se ne stava di sghimbescio sul pavimento a sorreggere un tappeto di libri, scarabocchi senza colori, e pagine e pagine ingiallite e semi-stracciate. Di solito, nella veranda della casa-stamberga, su quel fazzoletto di terra che adesso se ne sta lì a reggere la cenere, annerito e senza neanche più un uccello che ne picchietti i vermi, sedevano il nostro ragazzo dai capelli scuri e una ragazza. La casa, apparentemente senza più uno scopo, li accoglieva senza troppe cerimonie, nel suo andito modesto, nella maniera più naturale e familiare: insomma, come fa una casa.
Ebe, quel pomeriggio, filò alla svelta oltre il cancelletto socchiuso e inforcò il vialetto con l'affondo di un moschettiere. Appena prima di svoltare l'angolo e salire sulla veranda, tentò di misurare l'entusiasmo con respiri profondi e passi meditati. Salì i gradini, sfilò la tracolla e precipitò su una sedia con un tonfo poco chiassoso. Prese una sigaretta dal pacchetto che giaceva a bella posta sul tavolo. Il fucile, vecchio e dalla canna storta, se ne stava come al solito impalato, poggiato alle tavole di legno che sigillavano la porta scrostata. Come d'abitudine, un cilindro lercio e sfondato coronava lo schienale di una sedia e dal tavolo erano rotolati giù a decine nuove palle di carta straccia. Dalla nube di fumo di sigaretta riaffiorò il viso sottile di Cecco, senza più il berretto, gli occhi scuri che penetravano una pagina appena voltata. Si accorse di Ebe, gettò via il libro ed esordì: "In ritardo!".
Un fremito percorse Ebe; ma lo nascose bene, senza espressioni patetiche. Cecco diede un'ultima boccata e fece per avvicinarsi alla ragazza senza ben sapere perché. Si ritrasse sbiascicando qualche parola, mentre lei, agghiacciante e dolce, persisteva, con boccate profonde e lente, in un silenzio d'asceta.
Poi, cominciarono a parlare.
"Mia madre è ancora costretta a letto - disse la ragazza dopo una pausa - per via della gamba e tutto quanto." Sulla fronte del ragazzo balenò una ruga di perplessità.
" Questo fa sì che io possa starmene qui quanto diavolo voglio - continuò Ebe. - Basta non farle notare troppo la mia assenza."
"Deve riuscirti facile. Di solito stai sempre zitta."
"Che c'è? Non ti va bene?"
"No, mi va bene e come! Mi va bene, mi va bene! - ripeté - Dici sempre cose molto intelligenti, quando apri bocca. Io, a confronto, sono un vero idiota.
Ebe stette a guardarlo silenziosamente per qualche secondo. Poi, disse con una voce da soprano, che non aveva niente di affettato e senza nemmeno l'ombra di un risentimento: "Tu, quindi, non senti mai la mia mancanza? "
"Ho detto che non sento la tua assenza. - Rispose Cecco senza guardarla e rosicchiandosi l'indice destro. "Questo significa - continuò - che, in ogni caso, quando smetto di pensare al resto e mi capita di pensare a te che te stai zitta, allora sento la tua mancanza."
"Il tuo discorso non fila." Disse la ragazza, dopo averci riflettuto, e provando a sembrare incisiva e indispettita il meno che poteva.
"Sì, lo credo anch'io." Rispose Cecco più meditativo, ma sempre con l'aria di uno che da poca importanza al risultato e predilige il tentativo.
Dal tavolo, nel frattempo, ammiccò luccicante una lama da barbiere. Cecco l'afferrò e prese a giocarci senza pensarci troppo. La lama affondava nell'aria, mentre i piedi battevano sulle assi del palchetto, tremolanti come un budino. Ebe sogguardava divertita il ragazzo, con un sorriso sornione che gli balenava da sotto la punta naso.
A un tratto, egli si arrestò. Le braccia gli si irrigidirono, il viso si fece pensieroso e dopo qualche secondo, prese a parlare.
"Peter è solo - disse - È sempre solo.
"Peter? - chiese Ebe.
"Pan! - soggiunse il ragazzo, risentito.
Ebe si buttò una mano sul viso e la bocca da dietro il polso sembrava biascicare: giusto!
"Se ne sta da solo tra un mucchio di gente. - Riprese Cecco - Non gli importa mai veramente di nessuno. Finché è circondato da persone, dimentica addirittura di esserci in mezzo.
"È un egocentrico - proseguì, sebbene esitante. - Il punto è che Peter si accorge di quanto sia essenziale stare veramente con qualcuno, solo quando tutti stanno per lasciarlo.
Cecco tacque, e guardò ancora una volta Ebe. Si sentiva goffo, come se d'un tratto non fosse più smilzo e ben proporzionato, ma una grande bolla molto accorta agli spigoli per paura di scoppiare.
"Ma l'amore degli altri è sincero. - Disse Ebe - È vero, però. Si sente solo nell'unico momento buono per tutti per esserlo... Per tutto il resto del tempo lui è solo soltanto per gli altri.
"È un po' stupido, in un certo senso. - Disse il ragazzo, e subito si rabbuiò dicendolo. - Essere soli, non esserlo... Che importanza ha saperlo? In un modo o nell'altro, soli non ci finiamo tutti? Anche tu, anche io. Pensiamo di essere felici quando siamo assieme, io e te. Ma ci piace stare insieme solo perché è come stare da soli con noi stessi. In definitiva, siamo sempre soli.
Il ragazzo sembrò rasserenarsi e non attese nemmeno che Ebe parlasse. Si rimise a giocherellare con la lama da barbiere, stavolta con più tranquillità.
Ebe se ne stava con il mento sottile appoggiato sul palmo ripiegato, facendo penzolare l'altra mano oltre il bracciolo della sedia. La sua faccia divenne piuttosto buffa quando Cecco, reclinato sulla mano sanguinante, gridò: Cristo!
Un piccolo taglio, niente di più.
Ebe fasciò l'indice con un pezzo di stoffa che era stato gettato lì sul tavolo. Il ragazzo guardava allarmato il suo dito. Non gli faceva molto male, ma fingere è una sensazione piacevole. Ebe, imperscrutabile, stava assicurando il pezzo di stoffa con uno spago. Quando ebbe finito, Cecco studiò con sguardo attento il lavoro, ed esordì:
"Ma è un cavolo di nodo scorsoio, questo!"
"Cosa?"
"Un cappio, Ebe. Un cappio dannato!"
"Lo so cos'è un nodo scorsoio!" Aveva sul volto un'adorabile espressione risentita.
Il ragazzo scoppiò in una risata non troppo fragorosa e un po' forzata. Rise anch'ella e, nel frattempo, Cecco si era alzato e se n'era andato in giro per la veranda; contemplandosi il dito e sistemandosi di nuovo il berretto sulla testa. Ci fu, per qualche istante, un silenzio spensierato.
"Fossi in te, e avessi un talento così di classe - cominciò poi il ragazzo - me ne andrei giro." Ebe era tutta orecchi e stava ora incrociando le gambe sulla sedia.
"Sì! Con una fune in mano. - Continuò il ragazzo - Ci impiccherei la gente peggiore. Vale a dire gli alberi di Natale e tutti quelli che non sanno stare al mondo. E quando vedrei che sulla terra è rimasta tutta gente rispettabile e capace di esistere, legherei un altro cappio e la farei finita. In modo tale che per gli altri non sia poi tanto difficile vivere."
Ebe disincrociò le gambe e tacque.
La ragazza si strofinò forte il collo con le dita della mano sinistra, sentiva il sudore dell'estate impregnarle la pelle poco a poco con un leggero prurito. Sul viso era spuntata un'espressione triste. Sbatté di fianco il pugno sul letto e prese a grattarsi con l'indice il naso; le labbra si incurvarono stizzite. Nel bel mezzo della camera erano gettate alla rinfusa le lenzuola sporche e i panni smessi del giorno prima. Nella camera affianco, il letto a due piazze cigolava sotto il peso del corpo sudaticcio e seminudo della madre, che dimenava la gamba dolorante e fasciata nel tentativo di trovare una posizione più comoda. Il padre, un agente pubblicitario, aveva appena telefonato dall'albergo.
"No, è ancora livida, caro. Non posso crederci. Mi è piombato addosso senza che nemmeno lo sentissi." Diceva la donna, con una voce un po' roca e per metà annoiata, ancora vagamente piagnucolante. Cacciò, via dalle narici, sottili spirali di fumo.
Papà ha una voce piacevole all'apparecchio, pensò la ragazza, ascoltando distratta la conversazione.
"No, te l'ho detto! Il berretto gliel'ho solo raccolto da terra. Cielo! Non posso sapere che c'è gente a cui da tanto fastidio se gli toccano il berretto!
Di sicuro ha una voce migliore di quella di Cecco, pensò Ebe. E i suoi modi sono molto più garbati e sobri, i suoi pensieri molto più organizzati.
"No... Caro! No, no... ascolta!
Cecco è invece soltanto un ragazzino che ama starsene da solo e ingannare la gente che gli presta attenzione.
"La faccia non gliel'ho vista! No che non gliel'ho vista!
Ebe adorava intrattenersi con cattiverie come questa.
"Cosa? T-te l'ho detto. Tu non mi ascolti!
Erano - cose come quella - una maniera per scovare e isolare i pensieri non sentiti, e non necessari, tra quelli che le affollavano la testa.
"Aveva gli occhiali da sole, no? Capelli scuri, corti abbastanza. I panni mi volavano davanti, non l'ho visto bene! Mi ritrovo il berretto davanti ai piedi e lo raccolgo. Punto." La donna mise via il filtro bruciacchiato e accese una nuova sigaretta, mentre, con la schiena, assestava colpi nervosi al capezzale, come per ammorbidirlo.
"No, non sto fumando. Sono tranquillissima. Sai cosa penso? Penso che forse non voleva nemmeno farmi male... all'inizio. Mi ha squadrata, credo fosse lì lì per dirmi qualcosa o... Forse grazie o qualcosa del genere. Di normale, come tutte le persone normali! Poi si è guardato un po' in giro... la casa, me o i panni. E l'annaffiatoio d'alluminio. Sai, quello tutto acciaccato che hai fregato dalla casa di tua madre, l'estate scorsa? Zac! Me l'ha appioppato sullo stinco. Lo... lo so che già te l'ho detto! Scu-sa, è che mi va di ripetertelo. "
Il ragazzo si gettò a sedere sul bordo del marciapiedi. I jeans, sporchi e impolverati, puzzavano; li annusò come per accertarsene. Prese il berretto, e cominciò a farlo roteare sul dito avvoltolato nella stoffa. Poi, iniziò a dimenarlo da una mano all'altra e ad esaminarne gli strappi e le macchie. Stendendo la gamba come per sgranchirla, col piede che superava la cunetta sporca e asciutta, sentì un crac e uno sfrigolio di pezzi rotti provenire dalla tasca sinistra. Ne tirò fuori una lente da sole nera, frantumata per metà e con l'asta penzoloni e sul punto di staccarsi. Boccheggiò, con il mento che affondava tra le pieghe della palma della mano destra. Dietro alle cime dei pali del telefono e ai pinnacoli di antenne che si ammucchiavano in cima alle palazzine, il sole cominciò lentamente a dileguarsi. Un senso di nausea si avvinghiò alla gola di Cecco. Non lo mollava. Nemmeno una volta superate le siepi, e avvicinatosi alle file di reti da calcio che giacevano sul recinto del campo. Sfilò dal pacchetto una sigaretta, mentre, disteso sul basso muro in cemento, pensava al volto della donna coi capelli biondi e ricci. Ci pensò senza rammarico, ma con il senso di nausea che provocano le azioni irrazionali e sentite, che l'anima giustifica senza motivo.
Il Signor S. sfoggiava sul volto rugoso e macchiato un'espressione ineffabile. Sembrava che una serenità domestica più o meno stabile, e le disavventure silenziose che scrollano la polvere dalle vite discrete, potessero condurre esattamente a quel punto: a quella potenziale felicità che si sprigionava da ogni gesto del Signor S..
A un tratto, il vecchio si arrestò ed estrasse da una tasca una bustina di carta increspata e ingiallita dall'usura. Pescò una manciata di confetti colorati e li masticò uno ad uno, tenendo il bastone ben saldo sotto l'ascella. Riprese poi a camminare flemmatico. Il vecchio S. si era insediato nel quartiere circa cinquant'anni prima. Unici compagni di quell'esistenza riservata, e disseminata d'avventure quasi sconosciute al vicinato, erano stati la Signora S. e il primo proprietario della casa. Il Signor S. aveva - o almeno lo credeva - ricevuto dalla vita pochi insegnamenti. Uno dei più essenziali, sul quale amava conservare il riserbo come su una sorta di segreto, era che non si è mai veramente padroni di niente, se non si è certi, almeno per pochi istanti, di essere gli unici padroni di qualcosa. Era per questa ragione che la Signora S. e il più caro amico del Signor S., vale a dire il primo proprietario della casa, erano, l'uno per l'altra, essenzialmente degli sconosciuti. Sul loro conto conoscevano solo le poche informazioni che erano sfuggite alla bocca del vecchio S.. Finché dell'esclusività delle sue relazioni, egli credeva che il suo cuore non sarebbe mai potuto essere agitato da incidenti di sorta, né il suo animo sarebbe potuto essere più felice. Almeno così credeva. Tutte le poche verità, a cui era sicuro di essere pervenuto, andarono a farsi benedire il giorno della morte della Signora S. e del suo amico. Morirono entrambi nudi, schiacciati da un parte di soffitto piombata giusto al centro del salotto della casa-stamberga, nel giorno della Gran Scossa - come sono soliti chiamarlo gli abitanti della cittadina. Sulla soglia d'ingresso, il vecchio S. fu, quella volta, in procinto di avere un infarto. Raccontarono che era rimasto lì per almeno un'ora, attonito, prima di riaversi e correre a chiamare aiuto. I corpi rugosi dei due amanti avevano agonizzato per circa mezz'ora di silenzio, soffocati dalla polvere e schiacciati dello schianto. Da allora e dopo venticinque anni, il nostro si recava ancora, pressoché ogni giorno, nei paragi dell'abitazione. Non sapeva con certezza perché; se per quella nostalgia che proviamo per i cari che ci abbandonano, o forse - e questa era un'ipotesi più azzardata e affascinante - perché, ora che le certezze che aveva creduto di aver raggiunto erano svanite, aveva bisogno di raggiungerne di nuove, o, se non altro, di capire.
Quella casa restava in silenzio.
Quando il ragazzo era entrato nel negozio, sul viso dell'uomo grasso e dai capelli unticci era piombata un'espressione quasi funerea o rassegnata. Sembrava che un vento fosse entrato con il carico nauseante di un ineludibile obbligo: pazientare e non sbottare. Si aggirò - il ragazzo - tra gli scaffali, vuoti per metà e con l'aria di aver conservato polvere per mesi. Cominciò a tastare gli oggetti con dita frementi, gesti nervosi, e, forzatamente, rise piano. Sogguardò dagli specchi, coperti d'aloni scuri e graffiati, la faccia del commesso. Prese una tanica di benzina e si trascinò fino alla cassa, a schiena curva, strisciando i lunghi piedi sul pavimento biancastro e appiccicaticcio.
"Quella... e basta?" domandò il commesso grasso. Squadrando sospettoso il ragazzo, indicò la tanica.
"No! - Una nota incisiva di rancore fiottò fuori dall'ugola di Cecco. - Anche queste!" Con una mano vuotò uno scaffale, su cui stavano all'in piedi una decina di confezioni di caramelle.
L'uomo tentò di acquistare un'espressione sardonica e cominciò a ricomporre la fila di confezioni sullo scaffale.
"Cosa diavolo fai, Grassone?" Disse il ragazzo.
"Vuoi farmi credere che puoi pagarli tutti, quelli lì? Non sono in vena di spiritosaggini, qui...
"Hai una bella faccia tosta! Lo sai, questo, Grassone? Ridammi quelle dan-n...
"Fammi vedere i soldi! Oppure fila via di qua!
"Non ti faccio vedere un bel niente!" Cecco riversò le caramelle in un lembo della maglietta che teneva ripiegato con la mano. E da lì, spostando il peso del corpo sull'altra gamba e srotolandosi la maglietta alla svelta, fece finire le caramelle nella tasca dei jeans; qualche pacchetto scivolò a terra. Impugnò la tanica di benzina, mentre l'uomo da dietro il bancone sbiascicava minacce, e si diresse verso l'uscita. Afferrò, poi, un espositore in metallo e lo scaraventò contro il commesso. Le cartoline d'auguri volarono fruscianti dietro il bancone, sulla cassa e su Grassone, che, per scansare il colpo, era rovinato a terra con un tonfo sordo. Cecco uscì di filato via dal negozio e sbatté la porta; in alto, il cilindro al neon lampeggiò ronzante. In strada, appena fuori dall'uscio, il senso di colpa gli si avvinghiò alla gola. Sfilò un rotolo sgualcito di cartacce e alcune monetine dalla tasca dei pantaloni. Srotolò alla svelta il cilindro e ne sfilò un malconcio biglietto da venti. Schiuse di poco la porta e lo lasciò scivolare dentro; proprio sotto il naso di Grassone, chino a raccogliere i biglietti d'auguri: imprecò.
Ebe fiutò l'aria, nel tentativo di tirar su col naso. Una puzza di bruciacchiato gli aleggiò attorno. Il giovanotto la trovò esattamente così, seduta sul marciapiedi. Squattrinato e con molte pretese, si era avventurato fuori dalla provincia - ormai stretta - in cerca di qualcosa sufficientemente sconvolgente da imprimere sulla carta. Il giovanotto, capelli ben pettinati e tagliati di fresco, camicia nuova di lino bianco e un paio di pantaloni dal taglio classico, giunse nel quartiere con una vecchia valigia sgangherata a tradire una malcelata modestia. Alla ricerca di esperienze com'era, si sentiva una sorta di Arturo Bandini: con molto meno talento e un portafogli appena più pesante. Dietro alla ragazza, circondata da un muretto, c'era quella che avrebbe dovuto essere la sua nuova abitazione; molto modesta anch'essa, ma più che accettabile. L'uomo si avvicinò alla ragazza. Le chiese, con una voce tremante che si sforzava d'essere priva di qualsiasi paternalismo, perché piangesse e, sebbene dapprincipio lei lo sogguardasse con sospetto e fosse sul punto di girare i tacchi, lo sorprese il modo con il quale il suo interesse si accese, alla notizia che il nuovo venuto era uno scrittore. Ebe si fece più affabile e prese stranamente a parlare
All'improvviso, però, mentre l'odore di bruciacchiato le si attaccava irrimediabilmente alla gola e la figura del suo amabile interlocutore sfumava nel grigio, gridò: "Cosa diavolo stanno bruciando?
Il sole si stava spegnando con una luce rossa e desolante, giù ad ovest, dietro alle colline e sulle autostrade trafficate. Quando Cecco ebbe finito di innaffiare il legno scricchiolante, la luce si era del tutto estinta e la sera odorava di benzina e risuonava di rumori fievoli che lo gettarono, corpo ed anima, su un letto di chiodi. Scese giù dalla veranda con un salto, scavalcando la ringhiera di legno, con il vecchio fucile che cigolava ben stretto in una mano. Nell'altra, la tanica vuota di benzina sbatteva tintinnante contro la coscia. Una volta a terra, tra tutta la polvere che si era alzata sul vialetto, il ragazzo andò a piantarsi dritto davanti ai gradini che salivano sul palchetto. Prese l'accendino, rovistandosi nelle tasche, e con un baluginio che gli brillò sulla faccia, accese l'ultima sigaretta del pacchetto. Boccheggiò velocemente e lasciò che il fumo gli striasse il volto. Contemplò la casa, strizzando gli occhi e muovendo la testa a destra e a sinistra. Quando ormai s'era stancato, si risolse a piantarla. Sfilò dalla bocca socchiusa la sigaretta lasciata a metà, facendo in modo di stringerla forte, tra il medio e il pollice. La buttò via. Il cuore aveva un battito regolare anche allora. Soltanto un vago senso di rimorso, ne era certo, gli avrebbe in seguito graffiato la gola e lo stomaco. Si avvicinò ai gradini, e, mezzo ginocchioni su di essi, si prese tutto il tempo per mettere da parte il fucile e dare alle fiamme il pacchetto di sigarette. Quando ebbe finito, avvicinò il pacchetto a una lingua di benzina che stava ammiccando al suo piede sinistro. Questa cominciò a divampare. Cecco si rialzò alla svelta con uno slancio del ginocchio. Contemplò da vicino il fuoco divorare la casa, dapprima lentamente, come il buio e l'euforia che gli azzannavano l'anima. Poi, il crepitio si fece più forte e le fiamme più alte. Era come se lui, con esse, crescesse e avvampasse; come se anche l'ultimo rifugio fosse dato alle fiamme: niente più speranza, o anche una sola briciola d'amore.
Il Signor S. arrivò nella strada con il fiato mozzo. Si fermò per un secondo, con la palma di una mano stesa sul petto. Si accasciò un po' di più sul bastone e proseguì. Un crepitio, come di fiaccole, gli accarezzò le orecchie e, appena prima di svoltare oltre la siepe e ritrovarsi davanti alla casa, si fermò di nuovo per un'altra manciata di confetti colorati. Lungo la strada l'aveva fatto già per ben sei volte. Nessuno sapeva quanti confetti riuscisse a ficcare in quella sua busta: il Signor S. non parlava con nessuno dal giorno in cui la polizia l'interrogò. La dentiera stava ancora schiacciando e impastando, dentro la bocca del vecchio, quando questi si ritrovò davanti alla casa in fiamme. Fuochi d'artificio gli salirono su per la gola, avrebbe riso e saltato se non fosse stato così vecchio e se la bocca non fosse stata ancora impegnata a ruminare cioccolata. Dalle case attorno cominciarono ad accorrere frotte di curiosi. Bambini scarmigliati, padri in mutande e madri accaldate ansimavano dalla fame di notizie.
Quando ebbe finito di scavare con la lingua tra i denti, il Signor S. si schiarì la voce affinché il ragazzo lo sentisse. Si piantò a schiena ritta, con le mani incrociate sulla testa del bastone e con un tono carismatico e vagamente teatrale gridò: "Di sera, un incendio è un piacevolissimo spettacolo, giovanotto!
Il ragazzo si voltò e gli occhi sgranati e lucidi squadrarono la vecchia figura senza ben distinguerne i contorni. Il vecchio, a sua volta, sfoggiava il suo sorriso più smagliante. Cecco alzò con una mano il fucile già carico e sparò.
BOOM!
Una nuvola di fumo lo ammantò di colpo. Cecco lanciò un urlo lacerante. Quando la nuvola andò via, spazzata dal vento, egli stava reclino e la mano sanguinava, mezzo-arrostita. Una puzza di barbecue aleggiò nell'aria e, poco più avanti, il fucile giaceva con la canna esplosa. Il vicinato si accalcò intorno alla scena.
Il buon vecchio S., aldilà dello steccato in rovina e del cerchio di astanti, si fece indietro di qualche passo. Il cuore si arrestò e l'uomo rovinò a terra morto.
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