Sono vecchio, quattro passi mi faranno bene, specialmente in compagnia di un buon vecchio amico come te. Ma sono stanco. Quanto abbiamo impiegato per attraversare il ponte? Pause escluse, certo. Se penso che da giovane attraversavo il ponte di corsa, tutto di corsa da una parte all'altra del Danubio.
Mia figlia Eva dice che sono in gran forma, dice che non mi posso lamentare. E non mi lamento. Almeno ci provo. Credo di avere il cervello abbastanza lucido, ma il cuore un po' indurito.
A ogni passo mi affiorano ricordi di cinquanta e sessant'anni fa, ricordi che... Che non mi suscitano emozioni. Perché, vedi Jacob, io per ricordare ho bisogno di una scenografia adeguata, viceversa, sarebbe per me come vedere l'Amleto sul palcoscenico addobbato per il concerto di una pop star. Tu non hai mai lasciato Budapest, per me invece è diverso.
Riconosco ogni strada, ogni statua, ogni albero della città, ogni traghetto, ogni onda del Danubio ha un sapore familiare. Ma questa città moderna, europea, libera, queste vetrine addobbate, questi marciapiedi zeppi di ragazze che sorridono con le unghie colorate non rappresentano certo una scenografia adeguata per i miei ricordi.
Nella Budapest dei miei ricordi giovanili non splendeva mai il sole. Per raccontarti di quando ho conosciuto mia moglie, mi occorrerebbe un cielo nuvoloso, avrei bisogno di un'aria umida e pungente, magari di un po' di pioggia. Avrei bisogno di una luna che stia lì sopra a spiarci per riferire ai compagni dirigenti quello che loro da qui non riuscirebbero a vedere. Io ho conosciuto mia moglie al... Tu, dove hai veduto per la prima volta la tua? Mio figlio ha conosciuto la moglie alle cascate del Niagara, era lì in vacanza premio per... Scusami Jacob, i vecchi divagano. Adesso mi concentro e ti rispondo: io ho conosciuto mia moglie al Commissariato di Polizia.
Alle 13:30 del 10 ottobre 1956, Ferenc Dozsa e Szilvia Brawen uscirono dal Commissariato di Polizia di un quartiere orientale di Budapest. Attraversarono due strade e una piazza, s'infilarono in una piccola trattoria e ordinarono due gulash. Era il momento che si parlassero a quattr'occhi.
Szilvia - Mangia, non fare quella faccia. Pago io, l'ho promesso. Ti ho cacciato fuori da un guaio grande come una casa. Ti è chiaro questo, no? -
Ferenc - Grazie, signorina Brawen. -
Szilvia - Szilvia. -
Ferenc - Grazie, Szilvia. Mi hai cacciato fuori da un guaio, la Polizia avrebbe potuto trattenermi un giorno, forse due, ma poi... Insomma, io non ho fatto niente, assolutamente niente. Non mi sono cacciato in nessun guaio, tantomeno in un guaio grosso come una casa come dici tu. Io ti ringrazio mille volte, mille e una volta, compreso il gulash, ma io non ho fatto niente. Vuoi presentarti, per favore? Mi dici chi sei? E perché mi hai tirato fuori di lì? -
Szilvia - Sono ore che mi chiami signorina Brawen e compagna Brawen. Questo nome non ti dice niente? Il compagno commissario l'ha capito subito, appena ha visto il mio documento. -
Ferenc - Perciò lui fa il commissario ed io l'elettricista. A proposito, cos'hai fatto al commissario? Siete stati soli, vero? Non l'hai sentito, quando ha disposto il mio rilascio? No? Si è rivolto al sergente lentigginoso e gli ha detto chiaro e tondo: toglimela dalle palle quella stronza, dagli il Dozsa e mandali via a calci nel culo. Mi ha sorpreso. Compatibilmente col suo ruolo mi era sembrato un tipo gentile.
Szilvia - È vero, anche con me è stato molto gentile. Poi, forse, chissà... Quando mi ha infilato la mano sotto le mutande, deve aver toccato la coda del diavolo. Mio padre è stato vicepresidente del Partito Comunista: Leon Brawen. Oggi non ricopre alte cariche nel Partito, ma è comunque un personaggio di altissimo livello. Quel commissario dalle mani sul culo, quello mio padre potrebbe spedirlo a lucidare fucili alla frontiera con l'Austria. Eri con Hurmet, ti hanno preso con Hurmet, compagno signore elettricista. -
Ferenc - E allora? -
Szilvia - Hurmet diffonde propaganda antisovietica, Hurmet è una pedina degli americani, un sovversivo. Bada, Ferenc, questo non sono la sola a dirlo, questo lo dicono i compagni a casa mia tra un Tokaj e un pasticcino. Lo dicono i dirigenti, i funzionari, i compagni che ancora contano nel Partito. Quello che c'è di peggio è che Hurmet mette per iscritto le sue deliranti illazioni.
Ferenc - È il suo mestiere, Hurmet è un giornalista. Vuoi che non metta niente per iscritto?
Szilvia - Ascoltami, elettricista Ferenc. Io sono la figlia dell'ex vicepresidente del Partito Comunista. Mio padre è molto critico col governo di Nagy, ma collabora con il governo. Per il bene dell'Ungheria, dice lui, per il progresso del comunismo, dice lui. Non siamo lontani dal giorno che nel Paese vi saranno più partiti, come nelle democrazie occidentali. Probabilmente mio padre sarà a capo di uno di questi nuovi partiti. Intanto, collabora con il Governo. Mio padre è letteralmente assediato da frange del Partito che rifiutano qualsiasi tipo di collaborazione con Nagy. Da casa mia partono telefonate, arrivano telefonate, circolano documenti, funzionari, piani programmatici, carte militari, telegrammi. Sui giornali tu leggi delle azioni dei comunisti al governo. Non ci sono solo quelli, ci sono anche i comunisti che lottano contro il governo. I comunisti che erano con Rakosi e che sono ora contro Nagy stanno ritrovando un'unità prima sconosciuta. Stanno ritrovando unità e stanno rinsaldando alleanze, pericolose alleanze. Credi che ti abbia arrestato la Polizia di Nagy? Credi che l'Unione Sovietica sia con Nagy? Di me devi fidarti, Ferenc. Budapest sta diventando molto, molto pericolosa. Per tutti. Specialmente per quelli come te che vivono come fossero a Vienna o a Londra. Tu sei finito in galera perché per qualcuno Hurmet è un sovversivo. Tu sei finito in galera perché qualcuno ha il potere di arrestare gli elettricisti ungheresi. -
Ferenc - Hurmet è un giornalista. Hurmet non è capace di sovvertire una mosca. Sostiene Nagy, sostiene il governo, Hurmet è dalla parte del popolo ungherese. Perché voi comunisti tramate sempre contro tutti? Anche Nagy è un comunista. Perché tramate contro Nagy? -
Szilvia - Basta con la politica, ti prego. Sono io ad avere cominciato, lo ammetto, ti chiedo scusa. Rispondo alla tua seconda domanda. Ferenc, tu devi portarmi da tuo padre, è questo il motivo per cui ti ho tirato fuori dagli artigli della Polizia. Di me devi fidarti, Ferenc. Per me i comunisti al governo e che lottano contro il governo sono problemi marginali, io studio matematica, io sono, io ero un'allieva di tuo padre prima che lui sparisse. Credo fossi la sua migliore allieva. -
Ferenc - Mi metti in imbarazzo. Cerca di capire. Sei una bella ragazza, hai un bel culo, hai sprecato un'intera mattinata per strapparmi dalle mani della Polizia, mi offri da mangiare, sei perfetta, Szilvia. E adesso mi chiedi di consegnare mio padre al Partito del complotto. Mio padre non è fuggito, non si è reso irreperibile, ma se l'avesse fatto, a maggior ragione non potrei consegnartelo. -
Szilvia - Io non farò niente di male a tuo padre. Non lo consegnerò a nessuno. A me interessa che tuo padre resti libero almeno quanto interessa a te. Lui mi conosce bene, chiedigli di me, Szilvia Brawen, ascolta quello che lui ti dirà di me. Dammi il suo indirizzo, dimmi dove si nasconde, non mi seguirà nessuno. -
Ferenc - Mio padre non si nasconde. -
Szilvia - Se non si nasconde, allora non c'è nessun problema. Se non si nasconde, portami da lui. -
Ferenc - No, Szilvia, non ora. Io non posso. Potrei dirti che non saprei dove e come rintracciarlo, ma non voglio mentirti. Sei una sua allieva? Chiederò di te, sono curioso di sentire cosa avrà da dirmi. Dammi tempo, rivediamoci tra qualche giorno. Una settimana? Cinque giorni? -
Szilvia - Dopodomani, non un minuto in più. -
Ferenc - D'accordo, Szilvia. Appuntamento qui? Vuoi che ti telefoni? Certo, come vuoi. Grazie del gulash, grazie di tutto, Szilvia. Dopodomani sarò io a offrirti il pranzo. -
Passarono due giorni, poi altri due. Ferenc telefonò a Szilvia con un luogo e un orario: a mezzogiorno al Mucsarnok, nei pressi dell'Università.
Szilvia - Sei in ritardo. -
Ferenc - Buongiorno, Szilvia. Scusami per i cento secondi di ritardo. -
Szilvia - Sei in ritardo di quarantotto ore e cento secondi. -
Ferenc - Buongiorno, Ferenc. Qualcuno doveva pur dirmi buongiorno. Ho veduto mio padre. Posso fidarmi di te al cento per cento, parole sue. Lui è ansioso di vederti. Come lo sei tu, del resto. Vieni, andiamo da lui. Ti devo un pranzo. Vorrei pranzare con te. Magari prima di vedere mio padre. Per te va bene? -
Szilvia - No, grazie, per me non va bene. Portami da tuo padre. Perché darmi appuntamento qui? Mi stai portando all'Università, Ferenc?
Ferenc - Sì. Mio padre non si nasconde. Te l'avevo detto. Rallenta un pochino il passo, abbiamo tempo. -
Dentro l'Università, Szilvia era come un pesce nell'acqua. Era una bella ragazza, era l'allieva più brava del suo corso, a Ferenc pareva che tutti avessero da dirle qualcosa. Pazienza per le ragazze, ma i saluti dei ragazzi rappresentavano intrusioni che il regolamento universitario avrebbe dovuto proibire con grossi cartelli appesi ai muri. Nonostante Ferenc la tirasse per un braccio, Szilvia andò incontro e si unì a una mezza dozzina di studenti, ai quali presentò Ferenc nel modo più essenziale: "Il mio amico Ferenc, i miei compagni di corso!"
Ai nuovi arrivati tutti avevano da dire qualcosa.
- Si farà una manifestazione, al governo abbiamo Nagy, sarà il primo governo disposto ad ascoltarci. Chiederemo che la Polizia venga dislocata fuori della cittadella universitaria. Qui dovrebbero esserci soltanto studenti e professori. Non vogliamo né russi, né poliziotti, né spie. L'Università agli studenti.
Dove sei stata negli ultimi giorni, Szilvia? Non ti si vedeva da più di una settimana. Come puoi rimanere lontana dall'Università? In un momento come questo? Non ci credo che sia rimasta in casa a studiare. Domani abbiamo l'esame, lo so, ma siamo noi altri ad aver bisogno di studiare. Non certo tu. Ci sarai all'esame, Szilvia?
Abbiamo diritto alle assemblee. I professori stalinisti si limitino all'insegnamento, ammesso che ne siano capaci. I comunisti dettano legge, manca solo che riscrivano le tabelline. È ora di finirla. Vadano a fare politica in Russia.
Ci sono decine di studenti in carcere. Chiediamo la loro immediata liberazione. Ci sarà una grande manifestazione studentesca, vogliamo ci siano anche loro, tutti gli studenti arrestati dalla Polizia stalinista.
Ormai Stalin sopravvive soltanto qui in Ungheria. In Russia, Kruscev ha smantellato l'apparato stalinista, ha scomunicato Rakosi, quando era a capo del nostro governo. E noi qui abbiamo ancora l'Università appestata di pericolosi stalinisti. Arrestino Rakosi e ci diano gli studenti in carcere. Comunisti bastardi.
Sappiamo distinguere, Szilvia. Tu sei sempre stata una di noi, tuo padre lo stimiamo, ha tutto il nostro rispetto. Sappiamo che tuo padre è contro Nagy, ma sappiamo anche che lo rispetta come capo del governo. Il primo governo realmente ungherese. Se nella nuova Ungheria ci sarà ancora posto per i comunisti, allora sarà soltanto per quelli come tuo padre. Tutti gli altri scappino in Russia prima che ce li manderemo noi a cannonate.
Hai saputo del professor Dozsa, Szilvia? Ha presentato le dimissioni, pare vada all'estero. Domani al nostro esame ci sarà Nils, il nostro professore sarà lo squallido Nils. Ha preso il posto di Dozsa. Non dobbiamo permettere cose del genere, Szilvia. Nils è un arrivista senza scrupoli, ha scavato la terra sotto i piedi di Dozsa dopo avergli rubato tutto. Szilvia, vieni all'esame senza né cipria né rossetto. Nils ricatta le allieve più belle, abbiamo le prove, l'ha fatto con Anna, ti giuro, lasciati toccare ed io ti darò l'esame, vieni a letto ed io ti darò la lode, è questa la matematica di Nils.
Gli studenti di Filosofia hanno contestato un loro docente, hanno costituito un comitato, hanno eletto un loro rappresentante, hanno ottenuto un'udienza col Rettore. Dovremmo imitarli, dovremmo seguire il loro esempio. Sradicare gli stalinisti con l'aiuto delle forze sane. Abbiamo la fortuna di avere un Rettore onesto, integerrimo.
Noi giovani non siamo responsabili degli errori del passato. Noi abbiamo diritto a un Paese libero e indipendente. Siamo al fianco degli operai, via gli stalinisti dalle Università e dalle fabbriche. -
I giovani amano parlare in gruppo, ma non possono rinunciare ai dialoghi a quattr'occhi. Basta seguire Szilvia per convincersene.
Anna - Szilvia, quello che si diceva prima sul professor Nils e me è tutto vero. Mi ha adescato sotto l'ombrello, dopo avere insistito per darmi un passaggio alla stazione. Io l'ho mandato al diavolo, ma altre ci andranno a letto, dopo aver superato l'esame. Ammesso che non siano state tanto stupide da pagare anticipatamente. E tu?
Szilvia - Io niente, io manco dall'Università da più di una settimana. Non sarei dovuto venirci nemmeno oggi. Conosco Nils, non personalmente. Spero di non doverlo mai conoscere personalmente. -
Anna - Non possiamo permettere tutto questo, dobbiamo ribellarci. Nils è un ambizioso, oggi sostiene Nagy perché è lì che gira il vento. Quando al potere c'era Rakosi, Nils era uno stalinista della peggiore specie. Il professor Dozsa è troppo onesto, è troppo corretto per lamentarsi, ma tutti noi sappiamo che è stato Nils a mettergli i bastoni fra le ruote. Nils ha insinuato che Dozsa otterrebbe credito all'estero solo perché getterebbe fango sul regime ungherese. Secondo Nils, Dozsa racconterebbe agli occidentali quello che gli occidentali vogliono sentire sul conto dell'Ungheria. Dovrebbero licenziare Nils, dovrebbero arrestarlo, invece gli danno credito. Hanno reso la vita di Dozsa un inferno e lui invece l'hanno promosso al posto che Dozsa si è conquistato con l'onestà che noi tutti gli riconosciamo. È questo il lurido bastardo che domani avremo di fronte. Anche per questo chiediamo che la Polizi a resti fuori dall'Università. Perché Nils conosce gli agenti della sicurezza meglio dei suoi studenti. Tu hai un padre che conta, Szilvia. Comunista o anticomunista, nessun uomo può rimanere imparziale davanti a simili prove di squallore del genere umano. -
Szilvia - Le ragazze che sono scese a patti con Nils, lo confermerebbero pubblicamente? Io non credo, Anna. Io ne parlerò a mio padre, te lo prometto, ma non credo che lui possa fare qualcosa. È molto difficile che una ragazza ammetta pubblicamente di essere andata a letto con un uomo viscido e volgare. Sarebbe come ammettere pubblicamente di essere una puttanella. Se invece a letto non c'è ancora andata, allora daremmo a Nils una potente arma per discolparsi. -
Anna - Allora non possiamo fare nulla, Szilvia? Possiamo sperare di cambiare l'Ungheria, ma non possiamo impedire che Nils continui a fare i suoi porci comodi? Sulla pelle di noi donne? -
Szilvia - Qualcosa possiamo fare: svolgere correttamente il compito che Nils ci assegnerà domani. La matematica non è mai squallida, anche se viene da un maiale come Nils. -
Kalman - Perché stai rifiutando tutti i miei inviti? Non ti piace più ballare? -
Szilvia - Te l'ho detto dieci volte, tutte le volte che mi hai portato a ballare. -
Kalman - Certo, non sopporti che mi trattenga a parlare con le amiche. -
Szilvia - No. Perché nei balli lenti, tu mi stringi troppo forte. -
Kalman - Ma è così che si balla. Alle ragazze piace. -
Szilvia - Non a me. -
Kalman - Ascolta, Szilvia. Sto uscendo con altre ragazze, voi ragazze a volte siete strane, siete imprevedibili, ma io sto imparando a conoscervi. Sto uscendo con altre ragazze, non c'è nessuna che mi dica sciocchezze come le tue. Chi è il tizio che è con te? Non l'avevo mai visto prima. -
Szilvia - Si chiama Ferenc. Non è uno studente. -
Kalman - Verrai domani all'esame? -
Szilvia - Certo. -
Kalman - Sei una di quelle che ha già l'esame in tasca? -
Szilvia - No. Ciao, Kalman. Buona fortuna per domani. -
Kalman - Eppure sei la più bella, tu potresti ottenere il voto più alto. -
Szilvia - Stai cercando di offendermi? Ciao, buona fortuna per domani. -
Szilvia - Smettila di guardare tutte le ragazze da qui all'orizzonte. Per favore, guardane solo una, quella che ti sta davanti: me. Qualcuno dice che tuo padre ha presentato le dimissioni. Hai sentito anche tu. È vero? Lo sapevi? È vero che andrà all'estero? -
Ferenc - Gli hanno offerto una cattedra a Vienna e una a Parigi. Lui ha scelto Vienna. Mio padre è stimato in quasi tutto il mondo. Se non esistesse l'Ungheria, direi che mio padre è stimato in tutto il mondo. -
Szilvia - Me lo dici soltanto adesso? Sbrigati, andiamo da tuo padre. -
Ferenc - Non ancora. Ho appuntamento con lui alle 14:30. -
Szilvia - Perché mi hai dato appuntamento alle 12:00? -
Ferenc - Speravo di pranzare con te. -
Szilvia - Andiamo a cercare tuo padre. Dovrebbe essere da qualche parte all'interno dell'Università. -
Szilvia e Ferenc incrociarono il professor Dozsa nel corridoio del Rettorato. Aveva da poco parlato col Rettore che, con sincero dispiacere, aveva firmato le dimissioni.
Il professore salutò i due giovani con un lieve cenno del capo, poi girò i tacchi e si diresse a grandi passi verso la tromba delle scale. Szilvia e Ferenc gli andarono dietro, lo seguirono al piano inferiore, poi dentro una stanza sulla cui porta era affissa una targa che recitava: "Professor Anatol Dozsa, ordinario di matematica superiore".
Il professore chiuse la porta alle sue spalle, strinse la mano a Szilvia, abbracciò il figlio, poi abbracciò Szilvia che rimase gelida. Non respinse il professore, ma non mosse un solo dito in segno di condivisione dell'affettuoso e un po' impacciato abbraccio. Gli abbracci avvennero nel silenzio, nel momento in cui il professore stava per aprire bocca, fu posseduto da una rinnovata ansia. Uscì dalla stanza, percorse un corridoio e condusse i due ragazzi in uno spazio spoglio e anonimo.
Finalmente il professore aprì bocca liberamente. Aveva molte cose da dire all'allieva, se interloquiva col figlio, era solo perché nei giorni che mancavano alla sua partenza aveva bisogno di una persona fidata che fungesse da tramite fra lui e l'allieva. Ferenc era abituato alle eccentricità del padre, quindi non si sorprese del modo in cui quest'ultimo illustrò i suoi progetti per il futuro.
- Non è mia volontà lasciare Budapest. Io non faccio altro che eseguire gli ordini contenuti in un ipotetico telegramma inviatomi dalla Polizia segreta ungherese. "Professore Dozsa, lei persona non gradita stop. Si trasferisca estero risparmiando nostri uffici necessità istruzione pedinamenti stop intercettazioni stop interrogatori stop costruzione prove fasulle stop. Buon viaggio stop." Quante parole? Il telegramma, intendo! -
Anatol Dozsa non amava parlare a lungo di se stesso, preferiva parlare di matematica o comunque di qualcosa attinente alla materia.
- Signorina Brawen, non avrei trovato pace, se fossi partito senza rivederla. Io so che lei non è qui soltanto per quanto le ho promesso. Io ho molto credito all'estero, non badi a quanto sono scaduto in Ungheria, gli americani si sentono in debito nei miei confronti, saranno felici di accoglierla. Non ho parlato loro circa la sua preparazione, io sono convinto che lei signorina li sorprenderà più di quanto avrei potuto tentare io con le parole. I nostri studi sulla crittografia faranno il resto! -
Nel congedarsi, Anatol Dozsa disse qualcosa che rimandò di parecchie ore la separazione effettiva. - Adesso devo andare. Se posso disporre delle vostre vite, allora pregherei mio figlio di accompagnare lei signorina da me domani. Sarà Ferenc a sapere dove condurla. Non manchi signorina, la prego, io non rimarrò a Budapest ancora per molti giorni. Non manchi signorina. Vedo che ha gli occhi un po' arrossati. La prego, venga, anche se malauguratamente avrà qualche decimo di febbre. Adesso devo proprio andare. Mi occorre tempo per sviluppare il compito che Nils vi assegnerà domani! -
- Non credo sia la febbre, è più probabile sia la fame! - disse Szilvia - Sta dicendo che il compito sarà farina del suo sacco, professore? Perché? Perché favorire un uomo che... -
- Compromesso! - interruppe Anatol Dozsa, mettendo nelle mani della ragazza un pezzetto strappato da un foglio di giornale su cui erano delle note scritte a matita - Lei è giovane, signorina, di compromessi ne ha fatti pochi. La maturità si misura forse con la sommatoria dei compromessi cui un uomo ha dovuto scendere! -
A Ferenc non sfuggiva che il padre aveva messo nelle mani dell'allieva la traccia del compito che lei avrebbe dovuto svolgere all'indomani, ma per quanto trovasse la cosa deontologicamente scorretta non provava la benché minima indignazione. Decisamente più disinvolto era il comportamento di Szilvia.
- Posso svolgere io il compito? La prego professore, lasci che lo svolga io. Senza artifizio! -
- Senza artifizio? - sbottò Anatol Dozsa - Ma è impossibile, ma... ma... ma... Lei crede che possa funzionare? -
- Sì, se Nils è abbastanza ignorante! - rispose l'allieva.
Il volto di Anatol Dozsa s'illuminò come un bambino che ha appena recitato correttamente le tabelline, come un uomo al quale il destino ha perdonato la vergogna degli ultimi dieci compromessi.
- Proviamoci, sì, vale la pena provarci! - esclamò giulivo - Venga, svolga il compito, andiamo nel mio ufficio, mangerà dopo, mio figlio le offrirà il pranzo, o la cena, insomma quello che troverete in trattoria, quando uscirete da qui. Venga, signorina, non badi alla calligrafia, io dovrò comunque ricopiare tutto, Nils conosce la mia calligrafia, mangerebbe la foglia. Una splendida idea. Lascerò Budapest con dieci anni in meno! -
Varcata la soglia dell'ufficio contrassegnato dalla già citata targa, Anatol Dozsa riabbracciò l'allieva che restò nuovamente rigida e immobile. Che strani modi hanno i matematici per comunicarsi affetto, pensò Ferenc rivedendo una scena simile a quella già vista prima.
Pochi secondi dopo, il padre lo tirava per un braccio: - Finiscila di osservarla, lasciamola lavorare. Andiamo a bere un tè. Io rimarrò digiuno fin quando lo sarà Szilvia e vorrei digiunassi anche tu. Però un tè... La signorina Szilvia dovrebbe impiegarci un paio d'ore, non credi? -
- Sì, è bellissima papà! - rispose Ferenc a una domanda che nessuno gli aveva rivolto.
I due uomini Dozsa uscirono all'aperto diretti dove, per esplicito desiderio di Dozsa padre, preparavano un tè alla menta alla maniera araba. Dozsa padre si arrotolò con cura la sciarpa, si era alzato, infatti, un venticello nient'affatto gradevole per un collo anziano. Il cielo era sgombro di nubi tranne che a Est, dove sulla linea dell'orizzonte si era addensata una consistente massa nuvolosa.
- Dopo il tè vorrei mi accompagnassi a comprare una sciarpa, papà! - esclamò Dozsa figlio - Ho un po' di denaro, vorrei acquistare una sciarpa per Szilvia, una bella sciarpa che s'intoni coi suoi colori! -
Szilvia aveva preparato la trappola, Anna si era occupata della cassa di risonanza. Il professor Nils vi cadde come un somaro, approvò quattro compiti errati e ne bocciò altri svolti correttamente. Tutta colpa di un artifizio matematico, indispensabile per giungere a un risultato esatto.
Nils dovette rendere conto del suo operato a una platea presieduta dal Rettore e affollata di allievi inviperiti e di docenti di matematica chiamati per un consulto.
Non fu impresa facile spiegare a Nils l'errore matematico in cui era caduto, il colpo di grazia gli venne comunque inferto da una delle studentesse che lui aveva approvato.
- Signor Rettore, io ho seguito il corso del professor Dozsa, io avrei svolto il compito applicando un artifizio. Ma il professor Nils mi ha passato il compito già svolto consigliandomi di copiarlo. Ho trovato la cosa alquanto strana, ma ho seguito il consiglio del professor Nils. Il quale mi aveva garantito l'esame. In cambio avrei dovuto toccarlo. Signor Rettore, intendo sessualmente, intendo che avrei dovuto toccarlo sugli organi genitali. Ho sbagliato, signor Rettore, sono stata una stupida, almeno, però non ho più debiti nei confronti di Nils! -
Szilvia non aveva partecipato allo svergognamento del professor Nils. La sera precedente era stata afflitta da dolori mestruali, si era addormentata molto tardi e aveva dormito male. La mattina dello svergognamento, la mattina del 20 ottobre 1956, Szilvia dormiva beatamente, quando il sole era già alto.
Alle dieci e quaranta fu svegliata dalla madre con un bacio, dieci carezze e un caffè: - Come ti senti, Szilvia? Svegliati, sono quasi le undici, ha telefonato la tua amica Anna, sta venendo qua, viene dall'Università, pare abbia da dirti delle cose importanti! -
Alle undici, dopo aver aspettato che Szilvia fosse uscita dal bagno, la madre tornò alla carica con maggiore insistenza: - Cosa succede, Szilvia? Stamane, mentre dormivi, il telefono sembrava impazzito. Ha telefonato Anna, aspetta, ho segnato tutto, dunque ha telefonato: Anna, Ferenc, Elfie, un certo professor Dozsa da Vienna, Alexa, Andrejev, il professor Saint dall'Università qui a Budapest ed Emily. A tutti ho risposto che stavi male, nessuno ha insistito perché ti svegliassi. Il professor Dozsa ha detto che richiamerà, vuole sapere certe cose sull'esame. Anna sta venendo qua. Ma che succede? È per l'ultimo esame che hai sostenuto? -
- Ferenc ha lasciato un messaggio per me, mamma? -
- No, nessun messaggio! -
- Mi hai preparato una buona colazione, mamma? -
- Me lo chiedi? Figlia mia, sono più di vent'anni che lo faccio! -
- Siediti con me, ti racconterò tutto. Quando Anna sarà qui, ci racconterà il resto! -
Szilvia, Anna, il Rettore e altri contribuirono ad aprire le finestre perché entrasse un po' d'aria fresca nella Facoltà di Matematica. Altri episodi rinfrescarono l'ambiente universitario a Legge, a Ingegneria, a Filosofia, ad Architettura e ancora in altre Facoltà. Benché si fosse in Ottobre, l'Università, la città di Budapest viveva una primavera fiorita di giustizia, di speranze, di pluralismo, d'indipendenza. Una primavera di unità tra le classi sociali: studenti con operai, figli con padri.
Il 23 ottobre 1956, una manifestazione pacifica degli studenti venne funestata dagli spari della Polizia e dal sangue delle vittime. I padri degli studenti insorsero, è una data che alla storia verrà consegnata come l'inizio della Rivoluzione ungherese.
Il giorno appresso, i carri armati sovietici entrarono in città, occupando posizioni strategiche. Il 25 Ottobre altri scontri e altre vittime tra manifestanti, russi e agenti della Polizia di sicurezza ungherese.
Il Primo Ministro, Imre Nagy, mise il piede sull'acceleratore del processo di democratizzazione del Paese. I comunisti dovrebbero sentirsi orgogliosi di annoverare nella loro storia un uomo come Imre Nagy, dovrebbero esserlo un po' meno per averlo giustiziato.
Il primo Novembre 1956, il Primo Ministro, Imre Nagy, dichiarò l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia. Una sorta di proclamazione d'indipendenza.
Appena appresa la notizia alla radio, Szilvia cercò freneticamente i genitori per una riunione di famiglia della massima importanza. Li cercò alla sede del Partito, li cercò per l'intera giornata, riuscì a parlare loro soltanto dopo la mezzanotte a casa. La ragazza non perse tempo in preamboli.
- È il momento che vada a Vienna dal professor Dozsa, il mio docente di matematica. Dovete partire con me, voi due dovete lasciare l'Ungheria e venire con me a Vienna. Io non parto senza di voi! -
Da diversi giorni, i genitori aspettavano che la loro unica figlia annunciasse loro la partenza per Vienna, ora che questo accadeva, si sentivano compiaciuti e impreparati.
- Ci mancherai, figliola, la casa ci sembrerà vuota. Quanto tempo resterai a Vienna? Un mese? Forse due? Perché partire proprio ora? In un momento così delicato per il Paese? Ci sono tante cose che non vanno bene, ma da oggi finalmente potremo sbrigarcela fra noi, fra noi ungheresi. Perché partire anche noi? Che ne sappiamo noi di matematica? Papà non sa nemmeno le tabelline. Al mercato mamma sbaglia sempre le addizioni. -
Szilvia si spazientiva, le frivolezze la innervosivano. Il problema è squisitamente politico, perché mamma e papà non vogliono capire? Perché non vogliono rendersi conto del pericolo che corriamo? Quanti ungheresi vorrebbero avere la fortuna che abbiamo noi? Avere degli amici a Vienna felici di ospitarci?
- Mamma, papà, vi chiedo di restare con me a Vienna soltanto per qualche giorno, una settimana, seguire da Vienna l'evolversi degli eventi. Poi, magari, ritornare qui a casa, se i miei timori si riveleranno infondati. Mamma, papà, quello che so del comunismo l'ho imparato da voi due, sono comunista perché lo siete voi, siete voi che ora dovreste proteggere voi stessi e me dai colpi di coda del comunismo. Papà, siamo una colonia sovietica, mamma abbiamo l'Armata Rossa dentro i confini. Cosa sperate? Che i russi ci dicano: scusate il disturbo, ce ne andiamo? -
- Ora basta, Szilvia, i tuoi timori sono infondati. Tuo padre si è opposto strenuamente all'uscita dal Patto di Varsavia, Nagy ha dimostrato onestà e vigore, ma commette errori, sta allontanando il Paese dal vero comunismo. Il Partito deve riconquistare la fiducia delle masse, deve guidare il Paese sulla strada del progresso. Il nostro posto è qui, tra gli operai ungheresi. -
La riunione di famiglia si concluse con un mezzo fiasco: Szilvia rimandò la partenza per Vienna, tutto ciò che riuscì a ottenere fu la promessa che se ne sarebbe riparlato in capo a una settimana.
Troppo tardi. Tre giorni dopo, il 4 Novembre, l'Armata Rossa varcò i confini riportando gli ungheresi dentro il Patto di Varsavia. Tutti tranne ventimila e più ungheresi uccisi dagli invasori.
Il 12 Novembre, il compagno Leon Brawen, il papà di Szilvia venne arrestato a casa sotto gli occhi dei familiari. Nessun ordine di cattura, nessuna imputazione per iscritto. L'agente dell'AVH, la Polizia di sicurezza ungherese che aveva il comando dell'operazione, illustrò l'arresto mediante una metafora.
- Signor Brawen, ho preso parte alla battaglia del Prut, noi coi panzer tedeschi a Ovest, i carri russi a Est. Gli uni di fronte agli altri. Sa chi ho veduto cadere per primi? I conigli che indugiavano sul campo di battaglia! -
Assieme agli agenti dell'AVH c'era anche Kovarov, il compagno Kovarov. Per alcuni anni, ai tempi di Rakosi, lui e Brawen avevano condiviso la militanza nel Partito. In casa Brawen, la sera dell'arresto, anche Kovarov espose la sua tesi: - Caro Leon, è imbarazzante rivedersi in frangenti così drammatici. Cosa vuoi ti dica? Di cosa sei accusato? Stiamo affettando il salame, compagno Leon! -
Kovarov si riferiva evidentemente al motto di Rakosi che, vantandosi di aver eliminato e giustiziato uno dopo l'altro tutti i compagni coi quali aveva fondato il Partito nel 1949, amava ripetere di averli estromessi dal Partito come fette di salame. Un motto stalinista in bocca a un'antistalinista. Prodigi del comunismo.
Dopo l'arresto del capofamiglia, le due donne Brawen subirono una mezza dozzina d'interrogatori alquanto bislacchi, con domande tipo: consumate bevande gassate?
Nei loro confronti non fu spiccato alcun mandato di cattura, il Partito le ritenne soggetti insignificanti. Il telefono fu tenuto sottocontrollo dall'AVH per alcuni giorni, poi si decise di provvedere al taglio della linea.
Szilvia e la mamma si tenevano compagnia in casa per quasi tutta la giornata. Szilvia approfittò dell'indolenza forzata per leggicchiare libri di Fisica nucleare e di Reti combinatorie. Le due donne approfittavano delle finestre del coprifuoco per passeggiate vicino a casa. Talvolta, Szilvia salutava la madre e si allontanava da sola, per un salto al mercato o per giungere al Danubio. Szilvia cercava di scoprire, se lei e la madre fossero pedinate, rimase molto piacevolmente sorpresa, quando giunse alla conclusione di non avere nessuno alle calcagna.
- Sei sicura? - chiedeva la madre - Come spieghi che non abbiamo degli angeli custodi? -
- Che ne so? - rispondeva Szilvia - Forse i cittadini da spiare sono più numerosi delle spie. Forse è per questo che eliminano i cittadini, per ribaltare il rapporto a favore delle spie! -
Il 29 Novembre, Szilvia trovò una lettera nella cassetta della posta. "Ma guarda che oggetto raro: una lettera che ha superato la censura dell'AVH!", pensava Szilvia strappando la busta che denotava il tipico strappo ricucito: il timbro postale dell'AVH.
Il mittente era la sua vecchia amica di studi Dora Ribli che sperava di rivederla, che chiedeva, se nelle ore di libera circolazione, Szilvia non avesse potuto magari farle visita all'indirizzo in calce, che supplicava Szilvia di non lasciar cadere l'invito, di non lasciar passare troppo tempo.
Nella piovosa mattinata del 30 novembre 1956, Szilvia era al viale Budaorsi. Non era un quartiere ricco, ma sicuramente piacevole. Il viale era dotato d'illuminazione elettrica, le merci esposte nelle vetrine erano poche e povere, ma l'occupazione straniera conferiva a esse una sensazione di agiatezza e di benessere.
Szilvia eseguì mentalmente le istruzioni in calce alla lettera di Dora, salì al secondo piano di un palazzo ben intonacato, bussò a un campanello elettrico. Le due amiche si abbracciarono. Dora stringeva forte a sé Szilvia, quasi a trattenerla, come se l'amica non fosse lì per incontrarla.
Mentre Dora apparecchiava per il tè, Szilvia cercava nell'arredamento indizi che parlassero di lei, di Dora, l'amica con la quale aveva studiato assieme i primi due esami di matematica. Il disordine metteva in evidenza indizi che, altrimenti, sarebbero risultati invisibili alla vista di un ospite accomodato sul divano: un paio di eleganti scarpe italiane, calze di nylon, dischi a 45 giri, una manciata di rossetti, un cappello che poteva essere uscito da una foto di Brigitte Bardot.
- Mi trovi bene? Come hai detto quando ci siamo salutate? Mi trovi florida? - diceva Dora inzuppando un pasticcino nel tè - Sei molto cara, Szilvia, che gioia rivederti, grazie di essere venuta. Però avrei preferito sentirti dire che mi trovi sciupata e magra. Invece, mi vedi florida. Hai ragione. Sono incinta. Vorrei chiedere il tuo aiuto, Szilvia. Non abbracciarmi per favore, scusami, mi sembra inopportuno. Abbracciami piuttosto, quando mi sarò liberata del problema. Mi occorre il denaro per abortire. Il denaro potrei trovarlo, magari un prestito, ma chi mi accompagna ad abortire? Ho paura che... Ho sentito che... Una mia amica è svenuta in strada dopo che... -
Szilvia chiese dei genitori, dei fratelli, delle amiche comuni, ma dovunque dirigesse il discorso esso si perdeva sempre nel deserto della solitudine.
- Ho pensato a te perché eravamo felici. Ricordi?- disse Dora - Forse l'unica felicità l'ho vissuta quando studiavamo assieme. Tu eri più brava, ora lo ammetto, mi aiutavi sempre. Ricordi l'integrale curvilineo esteso a quello strano percorso a forma di alfa? -
Szilvia chiese chi fosse il padre, chiese se, insomma, non fosse possibile che lui l'aiutasse in qualche modo.
- Gli uomini sono egoisti, Szilvia! - rispose Dora - Lui ha trent'anni più di me, trent'anni di egoismo più di un nostro coetaneo. Non mi darà il minimo aiuto per l'aborto, ma, se non ammazzerò nostro figlio, allora lui mi toglierà la casa. Non pagherà più l'affitto di questo appartamento. Addio casa, addio regali. Solo una bocca che patirà la fame che ho sofferto io. In Ungheria dovrebbero nascere solo bimbi maschi, solo uomini egoisti e voraci. Si sbranino tra loro, si divorino questa terra. Noi donne dovremmo emigrare tutte: Groenlandia, Krakatoa, Kilimangiaro è sempre meglio dell'Ungheria. Therese... ricordi Therese? Therese è stata più fortunata di me, più furba di me e di te. Ha abbandonato gli studi, vive a Essen, Germania, marito tedesco. Lei sì che ha stretto un'alleanza con la Germania che mangia e veste bene. Noi, invece, fame e città distrutte! -
- È vero ciò che so di te? - chiese Szilvia - Ciò che mi ha raccontato Anita? Ti mantengono i dirigenti comunisti, Dora? Sei una puttanella del Partito? -
- Tu non puoi capire, tu non hai mai capito niente. Tu nel Partito ci sei nata, tu studiavi col rossetto sulle labbra, ecco perché eri brava! -
- Chi è? - chiese Szilvia - Dimmi il nome. Se è un funzionario del Partito, allora dovrei conoscerlo! -
- Chi mi ha messo incinta? Kovarov. Ministro dell'egoismo, ministro del cazzo moscio, ministro... -
Dora parlava, parlava, sugli occhi blu di Szlivia scese una rugiada leggera, niente in confronto all'acquazzone di due settimane prima. "Le manette per favore, lasciatemi abbracciare mia figlia. Non fare così bambina mia, non così. Quando eri piccola, piangevi ogni volta che cascavi, poi ti rialzavi più vispa di prima. Da allora credo di non aver mai più visto una lacrima su questi occhioni blu. Ci rialzeremo anche stavolta, Szlivia. Quando conoscerò le accuse, perché dovranno pur dirmele, quando le saprò, allora le smonterò a una a una. I tuoi timori erano fondati, figlia mia. Però non dobbiamo perdere la fiducia nel Partito, è nostro dovere aver fiducia nel Partito, ora più che mai dobbiamo avere fiducia nel Partito. Non ti preoccupare per me, saprò difendermi. Bada alla mamma. Ciao, bambina mia!"
Un groppo in gola impedì a Szlivia di dire: mio padre è in carcere, l'hanno arrestato a casa due settimane fa, Kovarov è il suo accusatore.
Dora parlava, parlava, Szlivia spostava meccanicamente oggetti di ogni genere accatastati sopra un tavolo di frassino. A un tratto, nessun groppo in gola avrebbe potuto soffocare la parola a Szlivia: - Cos'è questa roba, Dora? Questi fogli, queste carte, questo è russo, Dora! -
- Yascin! - rispose Dora - Le ha lasciate qui, le ha dimenticate, di certo le riprenderà al prossimo appuntamento. Yascin, il vicecomandante delle forze sovietiche. Amico di Kovarov! -
- Vuoi dire che, da un momento all'altro, io potrei trovarmi tra i piedi un alto ufficiale dell'Armata Rossa? -
Con perfetto tempismo, una chiave fece scattare la serratura: - È Kovarov! - bisbigliò Dora - Yascin non ha la chiave! -
Era Kovarov: - Buongiorno, fragolina. Hai ospiti? Bene! -
Dopo le presentazioni di Dora, l'uomo continuò: - Szlivia Brawen? Sì, certo. Mi ricordo di te, compagna Brawen. Sono tempi duri, la nostra guerra per la libertà non è mai stata così aspra. Così dolorosa. Cadono i compagni migliori, in primo luogo tuo padre. Ha sbagliato. Un disperato tentativo di risolvere in fretta i conflitti, un tentativo controrivoluzionario e velleitario che ci avrebbe precipitati nel baratro. Tuo padre ha assorbito troppe menzogne dello stalinismo, ma se accetterà con umiltà le decisioni del Partito, qualunque esse siano, col tempo potrà aspirare a una dignitosa riabilitazione! -
- Di quale tentativo parli, compagno Kovarov? - chiese Szlivia - Mi pare che a mio padre non avete contestato alcun tentativo disperato, controrivoluzionario e velleitario. Mi pare che contro mio padre avete formulato l'accusa di collaborazionismo coi servizi segreti inglesi. Lui non conosce una sola parola della lingua inglese. Questo l'avete appurato nei vostri interrogatori rivoluzionari? -
- Sei la figlia, lo difendi, è ovvio! - ribatté l'uomo - Il consiglio dei probiviri ha prove schiaccianti sulle attività sovversive di tuo padre ai collettivi operai dei cantieri metallurgici. A dirla in breve: sommossa contro le forze del Patto di Varsavia con l'appoggio logistico dei servizi inglesi! -
- Le prove si costruiscono, compagno Kovarov! - disse Szilvia - Le stesse prove potrebbero ritorcersi contro lo stesso che le ha montate! -
- Attenta a come parli, compagna! - disse Kovarov, atteggiandosi a padre severo - Fingerò di non aver sentito. Tu sei giovane, forse guardi le pellicole francesi e italiane, le pellicole che piacciono tanto a Dora. A voi ragazze piace molto il cinema, non vi biasimo, voi ragazze sognate mondi fantastici che esisterebbero aldilà delle frontiere. Nel mondo reale, invece, nella nostra Patria c'è un'esperienza progressista e matura che voi ignorate, che sottovalutate, che... Ah, lurida cagna! -
- Togli la mano dal culo, compagno Kovarov! -
L'uomo alzò il braccio nell'impeto di schiaffeggiare Szlivia, ma l'arto si bloccò a mezz'aria come pietrificato dallo sguardo gelido della ragazza.
- Non ho rispetto della tua età, compagno Kovarov! - aggiunse Szlivia impugnando un alare del camino.
Nonostante Dora avesse disarmato la mano dell'amica, Kovarov continuava a essere pervaso da uno sgradevole senso di smarrimento: non era avvezzo a tremare al cospetto di una ragazzina sottile e bionda, del tutto priva di una qualche rilevanza nel Partito. Solo quando Dora dispose i due ospiti a una distanza pari alla diagonale della stanza, solo allora Kovarov riacquistò coraggio e baldanza.
- Non è colpa tua, Dora, ti perdono. Vado a fumare in veranda. Hai tempo una sigaretta per togliermi questa stronza dalle palle! -
Szlivia infilò il cappotto e l'uscio quasi nello stesso istante in cui Kovarov scomparve in veranda.
- Buona fortuna, Dora! -
Dora la afferrò per un braccio sul pianerottolo: - Ti ho chiesto aiuto e mi lasci in guai peggiori! -
Dora scese la prima rampa di scale dietro i passi dell'amica, la bloccò una seconda volta con maggiore decisione: - Non lasciarmi sola, Szlivia. Ho bisogno del denaro, ho bisogno del tuo aiuto! -
- Non ho denaro, non posso fare nulla per te. Solo augurarti buona fortuna! -
- Non lasciarmi sola, Szlivia, ti supplico, non lasciarmi sola! -
Szlivia si fermò nell'atrio dell'edificio non solo perché quel trascinarsi a rimorchio l'amica stava diventando faticoso. Le due ragazze erano sole, l'una di fronte all'altra. Szlivia accarezzò i capelli dell'altra per conferire alla vicinanza fisica una sorta di complicità.
- Sei disposta a espatriare? -
- Mi aiuteresti? -
- Solo se vai via dall'Ungheria per non tornarci mai più! -
- Certo, Szlivia. Fuori dall'Ungheria non è il paradiso, ma non certo quest'inferno. Ma come faccio? Il confine con l'Austria è molto rischioso, conosco chi potrebbe condurmi nel punto giusto, chi potrebbe guidarmi, mi sono informata, cosa credi, non sono una sprovveduta, non sono solo una puttanella, mi sono informata, ma occorre denaro, molto denaro! -
- Non mi fido di te, Dora. Pensa all'espatrio, pensaci. Pensaci, quando tornerai di sopra e lui ti sbatterà, pensaci quando ti lavi, pensaci quando dormi, pensaci. Domani mattina, se vorrai ancora espatriare, allora vieni al viale, dove abito, appena termina il coprifuoco, incontriamoci per caso, salutiamoci per un minuto, se sarai in compagnia, allora dimmi una sciocchezza qualsiasi, una parola d'ordine, dimmi che mangerai insalata. Io capirò che la tua risposta è sì, che hai deciso di espatriare. E ti aiuterò! -
Dora baciò la mano di Szlivia tra i suoi capelli, poi la seguì con lo sguardo mentre si allontanava in strada. E tornò di sopra da Kovarov.
La sera del 30 novembre 1956, l'Armata Rossa aprì il fuoco su un corteo di lavoratori e studenti che manifestavano contro l'invasione. Tra i manifestanti ungheresi vi furono diversi morti e feriti. Il coprifuoco fu esteso a ventuno ore, i cittadini erano liberi di circolare dalle 7:00 fino alle 10:00 del mattino.
Alle 8:15 del primo dicembre, Szlivia bussò alla porta di Ferenc senza alcun preavviso. L'accoglienza dell'amico fu gelida: nessun bacio, nessuna stretta di mano, soltanto un: - Buongiorno, Szlivia. Che sorpresa. Cosa ti occorre? -
La ragazza non aveva alcuna voglia di badare alla forma, si limitò semplicemente a rispondere alla domanda: - Voglio aiutare mio padre. Voglio aiutare un'amica a espatriare. Mi occorre denaro, Ferenc. Molto denaro! -
"Denaro per cosa?" pensò Ferenc "Denaro per corrompere giudici? Guardie? Comunisti?" Ferenc non sapeva darsi una risposta e nemmeno la chiese a Szlivia. Frugò in silenzio tra gli oggetti di cucina, prese un sacchettino di iuta e lo depose nelle mani della ragazza.
- È il tuo giorno fortunato! - disse - Prima dell'invasione, ho convertito tutto il mio denaro in oro. Precauzioni finanziarie, diciamo. Sarebbe stato l'oro per il mio espatrio, ma poi ho deciso di restare. Prendilo tu, non so cosa ne farai, non m'interessa, forse lo darai alla donna che ha il coraggio che io non ho! -
Szlivia sfilò la cordicina che chiudeva il sacchetto, infilò due dita dentro e s'illuminò in volto: - È molto più di quanto sperassi da te! -
- Mi fa piacere! - disse Ferenc - Prima dei russi, lavoravo abbastanza bene. Poi, non so, forse la gente chiama i russi per riparare i guasti elettrici. Ciao. Hai tutto il tempo per ritornare a casa prima del coprifuoco! -
La ragazza si sistemò il sacchetto sotto il reggiseno, constatò che lì con Ferenc si era sbrigata molto prima del previsto, che le restava abbastanza tempo per sbrigare un'altra faccenduola sulla via verso casa. Ferenc era in piedi davanti alla finestra a guardare il viale tre piani più sotto, Szlivia indugiava non sapendo in quale modo congedarsi.
Si avvicinò all'amico e disse: - Non ti ho nemmeno ringraziato. Io non ho idea di quando sarò in grado di renderti il denaro, almeno in parte. Però vorrei poter fare qualcosa per te subito. Stamane ti vedo così triste, così infelice! -
L'offerta di Szlivia non rasserenò l'uomo, anzi lo rese ancora più cupo. Allungò le mani sulla gonna e prese nervosamente a manovrare sui bottoni: - Non sempre i clienti mi pagano in denaro. A volte capita che qualche cliente, qualche bella cliente mi offra un bicchierino e poi... -
Szlivia respinse Ferenc con tutte e due le mani, poi, visto che lui l'aveva afferrata con forza per la vita, lo allontanò da sé con un violento schiaffo. Ferenc ritornò alla sua posizione di vedetta alla finestra con un po' di colore sulla guancia.
Alla ragazza che si sistemava la gonna disse: - Scusami, Szlivia. Non avere fretta a restituirmi il denaro. Per quanto mi riguarda, l'oro l'ho donato. Scusami. Arrivederci, Szlivia. Scusami! -
Szlivia ci metteva molto tempo a risistemarsi la gonna, poi, quando non sapeva più cos'altro sistemarsi si avvicinò di nuovo a Ferenc, stavolta a una distanza molto, molto ravvicinata.
Szilvia - Se mi baci la mano in ginocchio, ti perdono. Anche questa mano, la mano dello schiaffo. Ti perdono, Ferenc, ti perdono, amico stupido. Non hai dormito, vero? Hai due occhiaie spaventose. Cos'hai fatto ieri? -
Ferenc - Cos'hai fatto tu? Sono undici giorni che ti cerco, undici giorni che non ti vedo. Non hai pagato la fattura del telefono? -
Szilvia - Rispondi alla mia domanda. -
Ferenc - Ieri ero in Vaci ut, dove i russi hanno sparato. -
Szilvia - In Vaci ut? Sei impazzito? -
Ferenc - Hai sentito la radio? Vicino a me sono caduti due uomini. Più un cane. Se la radio comunista dirà che i russi hanno sparato in aria, allora vorrà dire che esistono cani con le ali. -
Szilvia - Come ti sei permesso? Come hai potuto? Sono furiosa, ti prenderei a pugni, lo giuro. Questa è l'Armata Rossa, Ferenc, questo è l'esercito che ha travolto i panzer tedeschi, questi non sono i quattro gendarmi di Rakosi. I sovietici hanno vinto nel momento che hanno varcato la frontiera.
Ferenc - Lo so, lo so bene. -
Szilvia - Allora perché eri lì? Per farti ammazzare senza nemmeno salutarmi? Perché eri lì? -
Ferenc - Per una scopata. -
Szilvia - Una scopata? -
Ferenc - Ti ho detto la verità. Potrei inventarti storie d'impulsi patriottici, la ribellione di un giovane proletario ungherese contro... -
Szilvia - Accidenti, ho rischiato grosso. Tu sei abbastanza forte. Vai a lavorare per scopare, vai alla guerra per scopare. -
Ferenc - Ho ventisei anni, anzi venticinque. Ma ho gli ormoni di un adolescente. Ho avuto un'infanzia da " cosa mettiamo oggi in tavola". L'età della spensieratezza è iniziata il giorno che una bomba alleata ha ucciso mamma e le sorelle. Ho ventisei anni, vivo da vecchio. Rubo qualche fotogramma di giovinezza. -
Szilvia - Hai scopato, almeno? -
Ferenc - No, i russi hanno sparato molto prima del previsto, Evita ed io siamo fuggiti in due direzioni differenti. Perciò ho cercato di rifarmi con te. -
Szilvia - Che stupido! Tu non hai mai pensato di violentarmi. -
Ferenc - Però ero a buon punto. -
Szilvia - Tu non lo faresti mai. Mai. Intuito femminile. Potrei inventarti storie di equazioni di variabili vere e false, teoremi... -
Ferenc - Algebra di Boole. -
Szilvia - La conosci? Davvero? -
Ferenc - Non si sfugge a un papà come il mio. -
Szilvia - Che cosa ti ha insegnato? Cosa conosci? -
Ferenc - Calcolo infinitesimale, geometria analitica, algebra naturalmente, analisi combinatoria, serie di Fourier... -
Szilvia - Fourier? È molto più che i rudimenti. Perché non me l'hai mai detto? Piuttosto che perdere tempo a violentarmi. È tardi, devo andare. -
Ferenc - Di te non hai detto niente. Cos'hai fatto? Chi hai visto? -
Szilvia - Un'altra volta. Comunque, non ho visto nessuno. -
Ferenc - Nessuno? Non c'è più nessuno a Budapest? Siamo rimasti soli? -
Szilvia - Nessun uomo, stupido. -
Ferenc - È la decima volta che mi dici stupido. -
Szilvia - Ciao, stupido. Undici. -
Ferenc - Ti accompagno a casa. -
Szilvia - No, non faresti in tempo a rincasare. -
La prima volta che ho baciato Szilvia sulla bocca è stato nei pressi del ponte Margit hid. C'eravamo incontrati al Varosliget di primo pomeriggio per un microfilm che aveva voluto mio padre, il quale, prima di partire per Vienna, aveva consegnato una mole di carte a Vanjov perché infilasse tutto il contenuto in un microfilm.
Il microfilm era per Szilvia, mio padre lo dava a lei. Mio padre ci aveva messo dentro tutto il suo lavoro: gli studi tanto cari a Szilvia sulle equazioni alle derivate parziali, certe idee sulla crittografia a chiavi pubbliche e private che anni dopo Szilvia avrebbe sviluppato in America, formule, diagrammi e molto altro ancora.
Credo che nel microfilm mio padre avesse trovato posto anche per la sua dimostrazione purtroppo incompleta sulla trascendenza del pi greco (π). Mio padre avrebbe voluto morire scrivendo sul suo epitaffio la dimostrazione della trascendenza del π.
Szilvia era molto impaziente di mettere le mani sul microfilm. Lei non aveva i mezzi per poterlo visionare subito, ma quel microfilm era una sorta di testamento di mio padre e aveva un valore che Szilvia reputava semplicemente straordinario. Nel microfilm c'era anche un po' di lei, di Szilvia, perché gli studi sulle tecniche crittografiche li avevano in parte sviluppati assieme.
Il microfilm ci sarebbe stato consegnato da un ingegnere per il quale mio padre avrebbe messo la mano sul fuoco. Mi pare si chiamasse Vanjov, Varjov o qualcosa del genere.
Varjov fu puntuale all'appuntamento, ma era un perfezionista e, all'ultimo momento, reputò indispensabile perfezionare l'impermeabilizzazione della capsula del microfilm. Chiese un'altra ora di tempo, che diventarono due, poi quattro. Alle sei della sera, Szilvia era nervosa e tesa come una corda di violino.
- Aspetteremo altri quindici minuti, non un secondo in più! - disse mal celando collera e delusione.
Dieci minuti più tardi, nell'oscurità e nel gelo si materializzò la sagoma di Vanjov. Entrò nel bar, ordinammo tre whisky e brindammo al microfilm che Vanjov aveva consegnato a Szilvia. Brindammo al fantomatico compleanno di Varjov. Il bar sembrava tranquillo, ma era meglio non esporci a rischi inutili.
Salutammo Varjov alle sei e mezzo. Camminando di buon passo, Szilvia ed io saremmo rincasati entrambi prima del coprifuoco. Giungemmo al ponte Margit hid marciando a passo svelto come due soldati a un'esercitazione militare. Szilvia era soddisfatta, eccitata, quasi felice. Mi parlava di soluzioni integrali, di numeri indivisibili, di teoremi alla base degli algoritmi crittografici. Il microfilm ce l'aveva sul seno, vicino al cuore, almeno così credevo.
Quando scorgemmo il posto di blocco all'imbocco del ponte, rallentammo entrambi il passo ed io la presi sottobraccio: - Abbracciami! - mormorò Szilvia - Sussurrami qualcosa e baciami, come due innamorati. Non restare in silenzio, svegliati, parlami, dimmi qualcosa, qualsiasi cosa! -
- Cinque per uno cinque, cinque per due dieci... - Non trovai di meglio che recitare le tabelline. La baciai perché lo chiedeva lei e perché era sicuramente opportuno farlo. Non fu un bacio romantico. Non solo perché Szilvia scoppiava a ridere, ma soprattutto perché tra noi non c'era mai stato un solo istante di romanticismo.
Superammo indisturbati il posto di blocco e superammo anche il ponte. Sull'altra sponda, però...
Il resto, caro amico, è una storia che Szilvia ed io ci siamo promessi di non raccontare mai a nessuno. È una storia che racchiude alcuni segreti del nostro amore. E ne siamo gelosi. Non l'abbiamo raccontato nemmeno ai figli. Comunque, la storia del microfilm è una storia a lieto fine. Quella notte non dormimmo nei nostri letti, dormimmo in letti estranei ma sicuri quanto i nostri. Szilvia si addormentò assieme al microfilm. Non poteva separarsene, non la prima notte che l'aveva in suo possesso.
6 dicembre 1956
Ferenc e Szilvia si lasciarono il posto di blocco alle spalle e percorsero il ponte sul Danubio abbracciati come due innamorati. Sull'altra sponda del Danubio scorsero in lontananza, nell'oscurità, la sagoma di un carro armato. Deviarono per una stradina laterale, dopo un centinaio di metri s'imbatterono in tre militari russi. Li fermarono. Uno dei tre visionava i documenti di Ferenc e Szilvia alla luce di una torcia elettrica, un altro, presumibilmente il più alto in grado, ordinò di perquisirli. Misero i due giovani braccia in alto e faccia al muro. I russi erano ubriachi, il loro vociare saturava l'aria gelida di vapori alcolici.
- Non è ancora ora di coprifuoco, non potete trattenerci! - protestò Ferenc.
- A Mosca sono le nove. È coprifuoco! - ribatté con voce impastata il russo più alto in grado - Voi due siete in arresto! -
La perquisizione di Szilvia fu molto accurata, forse troppo. Mentre uno dei tre soldati teneva Ferenc sotto la minaccia del fucile, gli altri due rovistavano e palpavano la ragazza in ogni parte. Perquisivano ridacchiando e sciorinando nelle orecchie di Szilvia proposte e complimenti in russo e in cattivo ungherese.
- Siete in arresto! - ripeté a voce alta quello più alto in grado, poi, avvicinandosi alle orecchie di Szilvia, bisbigliò qualcosa che aveva il sapore del compromesso. La ragazza annuì con la testa, i russi alzarono la voce, diventarono euforici, indicavano un portone dall'altra parte della strada, afferrarono Szilvia per un braccio nell'atto di trascinarla.
- A lui non fate del male! - esclamò Szilvia - Lui deve restare con noi e dovrete liberarlo, quando lascerete me! -
- Da, da! - annuirono i russi. Il piccolo corteo si mise in moto verso il portone a cui puntavano prima le dita dei soldati russi.
- Uno per volta, uno per volta o niente! - esclamò Szilvia tra due militari russi.
- Uno per volta all'inferno! - sbottò Ferenc aggredendo il soldato più prossimo a lui.
Volarono cazzotti ungheresi e cazzotti russi, scoppiò una piccola rissa davanti al portone tra insulti, minacce e una voce femminile che tentava di ristabilire la calma. Szilvia ottenne dai russi il permesso di parlare a quattr'occhi col fidanzato. I cinque giovani salirono al primo piano ed entrarono in un piccolo appartamento di cui, chissà come, i russi avevano assunto il controllo.
I quattro uomini erano agitati, uno era malconcio, un paio avevano evidenti tumefazioni sul volto, l'unica donna era anche l'unico componente del gruppo a mantenere ancora la calma.
Szilvia tirò per un braccio Ferenc verso una parete della stanza e gli parlò all'orecchio coi fucili puntati alle spalle. Il russo più alto in grado le aveva concesso due minuti, non un secondo in più.
- Resta calmo, se non vuoi farci ammazzare. Io devo farlo, è il prezzo della mia e della tua libertà. Resta calmo per un'ora, poi saremo liberi di ritornare a casa! -
- Non toccate questa donna, altrimenti... - urlò Ferenc all'indirizzo dei fucili puntati. Szilvia lo zittì con la mano sulla bocca.
- Altrimenti cosa? Cerca di essere ragionevole, Ferenc. Il microfilm è al sicuro, un'ora al massimo e torneremo a casa. Sei già gonfio di botte, ne vuoi altre? Hai davvero uno strano modo per dichiararmi il tuo amore! -
Forse Ferenc avrebbe urlato nuove minacce, se Szilvia non gli avesse tappato di forza la bocca con la sua. Ferenc non avrebbe mai immaginato che Szilvia sapesse baciare con tanto ardore, distolse per un attimo l'attenzione dai russi, ma non da un clic che interruppe il bacio di Szilvia all'istante. Szilvia l'aveva ammanettato a un cardine della pesante porta che dava sulle scale. La ragazza non distoglieva lo sguardo dall'amico e, intanto, sorridendo, gli ficcava un bavaglio in bocca: - Scusami, amore mio, un'ora al massimo e sarò da te. Tu cerca di restare buono! -
Szilvia si ritirò nell'altra stanza col soldato più alto in grado e chiuse la porta per una comprensibile questione di pudore. Gli altri due russi restarono a sorvegliare il prigioniero e ad aspettare il loro turno, intanto si scambiavano occhiate d'intesa e gettavano occhiate all'ungherese, messo in condizioni di non nuocere dalla sua stessa fidanzata. O almeno dalla ragazza che presumevano fosse la sua fidanzata.
I due russi parlottavano di volgarità, ma non deridevano il prigioniero. Il comportamento della ragazza aveva spiazzato tutti, perfino loro che erano gli invasori, loro cui spettava di diritto la parte dei cattivi.
Ferenc si dimenava, mugolava, sudava, faticava a trovare un punto stabile sul quale posare gli occhi, non sapeva se avercela di più coi russi o con la sua bella connazionale.
L'ora di cui parlava Szilvia sarebbe stata interminabile, ma qualcosa lasciò supporre che in realtà sarebbe durata considerevolmente meno dei sessanta minuti previsti. Perché dopo dodici minuti, dall'altra stanza che fungeva da camera da letto, giungevano i gemiti di una donna in estasi, poi un rumore sordo, poi qualcuno spalancò la porta dall'interno.
Nella stanza di Ferenc e dei guardiani si riversarono Szilvia nuda e un denso fumo bianco. Szilvia gridava al fuoco, indicava il russo svenuto a letto, si precipitò su Ferenc e gli vietò di respirare. Colti di sorpresa, i due russi avrebbero voluto spegnere il divano avvolto dalle fiamme, avrebbero voluto trascinare il loro compagno in salvo, avrebbero voluto trattenere i due ungheresi che già volavano per le scale. Forse fecero le prime due cose, di sicuro non fecero la terza. Perché Szilvia e Ferenc si ritrovarono in strada senza nessuno alle calcagna.
I due ungheresi volarono per parecchie centinaia di metri lungo le stradine secondarie in direzione Nord-Ovest. Fu Szilvia la prima a fermarsi.
- Devo rivestirmi, fermiamoci qui. Inutile sperare in un portone aperto. Tu aiutami con gli stivali! -
Szilvia era uscita in strada col cappotto appoggiato alle spalle sopra la pelle nuda. Gli abiti ce li aveva in parte lei in parte Ferenc, calze e stivali erano di Ferenc. I piedi erano due ghiaccioli di fango, prima di calzarli Ferenc li strinse qualche secondo tra le mani. Con un briciolo d'ironia.
- Te lo chiedo in ginocchio, Szilvia. Se quei maiali ci riprendono, tu lasciami le mani libere! -
- Per farti ammazzare? - ribatté la ragazza - Non temere Ferenc, quelli non avranno tanta voglia di correre quando usciranno dalla casa. Monossido di carbonio! -
Mentre infilava gli stivali, Ferenc vide cadere ai piedi di Szilvia due piccoli batuffoli di cotone. Alzò lo sguardo su di lei che si soffiava il naso e la vide finalmente rivestita. Ripresero il cammino. Procedevano di buon passo ma non correvano, la ragazza restava zitta, Ferenc si accorse che serrava i denti per il freddo.
- Stai tremando, c'è il coprifuoco, hai i piedi gelati, siamo nella merda! - borbottava Ferenc. Si sbottonò il cappotto e strinse Szilvia a sé, camminavano nelle sembianze di un unico grosso fagotto, Ferenc stringeva l'amica a sé, la lasciava solo per dare delle violente spallate alle saracinesche dei negozi. Ferenc spiava le finestre per scorgere qualcuno, un portone si aprì e i due giovani vi s'infilarono.
- È ferita? - chiese un uomo non più giovane, avvolto in una pesante vestaglia marrone.
- No, ma è gelata. Abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo... -
- Mi spiegherete poi! - l'interruppe l'uomo in marrone - Seguitemi, non possiamo restare qui. Avete documenti? Dovrò vederli. No, non ora, li vedrò poi, io ho famiglia, c è una bambina, sembrate due bravi ragazzi, mia moglie non voleva che vi aprissi, ancora un piano, abito al terzo piano, abbiamo del pane, mia moglie non esce più da casa, ce l'ha coi russi e col mondo intero, le dirò di riscaldare la minestra, forse lo sta già facendo, restate zitti, ci sono spioni dietro alle porte, mangiate. Ecco siamo arrivati, poi mi direte i vostri nomi. Siete fidanzati? Siete marito e moglie? -
La domanda era rivolta all'uomo, ma fu Szilvia a riempire il vuoto di parole lasciato dall'amico.
- No, ma ci sono buone possibilità che lo diventeremo! -
Mentre veniva sistemata Szilvia vicino alla stufa e mentre si mettevano dei piatti in tavola, negli occhi di Ferenc balenarono immagini di una vita con lei, con Szilvia, con la ragazza infreddolita che si accostava a piedi nudi alla fonte di calore. Le immagini scorrevano veloci come in un film d'altri tempi, senza seguire un ordine cronologico, come se un regista le avesse montate per mostrargli brandelli del suo futuro.
Ferenc vide libri, bambini, formule, una donna che rigirava la minestra con un libro nell'altra mano, una moglie che redarguiva il marito per non aver dato la pappa al bimbo. "È il valore limite al quale tende la mia esistenza!" si disse mentalmente Ferenc, parafrasando una frase che aveva sentito dire a Szilvia.
L'amica gli diventò preziosa come non era mai stata prima. Si accostò a lei in ginocchio, strofinava i piedi infangati con un bricco di acqua tiepida, sussurrava che in casa c'era un telefono, che lui aveva abbastanza soldi e li avrebbe dati tutti al padrone di casa, il quale gli aveva detto che sarebbero rimasti a dormire da loro, che avevano già accostato delle sedie e ci avevano messo delle coperte, che per lei c'era il divano, sempre meglio delle sedie, che lei avrebbe potuto telefonare alla vicina perché tranquillizzasse la madre, che lei avrebbe potuto dormire al sicuro, sul divano, al caldo e al sicuro.
La minestra era fumante, rappresentava la stufa adatta per le interiora e per l'animo. Le guance di Szilvia ripresero colore, accettò del vino, pareva distratta ai discorsi intorno a lei.
- Brawen? - diceva il padrone di casa rigirando due documenti tra le dita - Szilvia Brawen? Brawen come... -
- È mio padre! -
Il padrone di casa gettò un'occhiata di rimprovero alla moglie per tacerla ancor prima che aprisse bocca. - Siete comunisti? Tutti e due? -
- Lui no, io sì, ma non sono in politica! - rispose la ragazza - Sono archivista nel Ministero dell'Industria e studio matematica. Avrei già terminato gli studi se non fosse per Nagy, i russi e tutto il resto! -
- Se avessero lasciato fare a Nagy, oggi lei sarebbe una ragazza ungherese laureata in Ungheria! - ribatté il padrone di casa con una vena di rimprovero - Lavorerebbe per il progresso del Paese e sarebbe libera di votare per il Partito comunista! -
Come se il marito le avesse ordinato di dargli man forte, la moglie rincarò la dose contro i comunisti: - Non siete ungheresi, siete traditori, avete voluto i carri tedeschi prima, quelli russi poi. I tedeschi non vi piacevano perché non sparavano dove dicevate voi. Miravano agli ebrei, i comunisti, invece, volevano sparassero a tutti, agli ebrei e agli ungheresi. A tutti gli ungheresi. Come fanno i russi, i vostri amici russi, i vostri compagni russi! -
- Taci, Ella, occupati dei letti, per favore! - intervenne l'uomo - La signorina ha detto che non è in politica. Matematica, matematica... Io ho studiato pianoforte, credo ci sia qualcosa in comune tra noi due. Mia figlia, la mia figlia piccola è molto brava in matematica. La prima della classe. Signorina, lei cosa farà dopo gli studi? Rimarrà qui a Budapest? O andrà magari a Mosca a mettere la matematica al servizio dei compagni russi? Per aiutarli a costruire carri armati e sommergibili meglio degli americani? -
- No, non andrò a Mosca! - rispose Szilvia - E nemmeno in Russia. D'altra parte, se loro vengono qua, perché mai noi dovremmo andare da loro? Io devo la vita al comunismo. Mio padre e mia madre hanno stretto la mano a Molotov e a Togliatti e ne sono orgogliosi. Io devo tutto al comunismo: la vita, il latte, l'affetto e la laurea che prenderò adesso. Devo la vita al comunismo e all'Ungheria. Non devo niente ai russi. Niente. La nostra propaganda guarda sempre e solo a Est, ci hanno ripetuto fino alla noia che i tedeschi li hanno battuti i russi. E gli americani a Ovest? C'erano anche loro? Ma chi l'avrebbe detto. Mio padre è un ungherese comunista, non un comunista ungherese. A casa mia si faceva politica, venivano compagni ungheresi a consultarsi e a informarsi da mio padre. Venivano ungheresi. La politica mio padre l'ha sempre fatta qui: a Budapest per Budapest. Mio padre non voleva che Nagy uscisse dal Patto di Varsavia, per mio padre la Russia & egrave; il grande Paese di Lenin e trotzky ma mio padre non ha applaudito i russi che sono venuti con le armi a imporci il loro comunismo. Perché gli ungheresi sanno essere comunisti senza alcuna imposizione, diceva. È stato bollato di tradimento, è stato accusato di essere una spia degli inglesi. Mio padre ha combattuto contro Franco e contro Hitler, ha lottato contro Rakosi, l'hanno chiamato stalinista. Chi? I medesimi compagni che quattro anni fa lucidavano le scarpe a Stalin. Casa mia si è svuotata, mio padre è in carcere, non è mai venuto nessuno a parlarci di mio padre. Oggi i compagni vanno al comando sovietico, il nostro destino si decide a Mosca. Al posto di mio padre metteranno Kadar o qualche altro fedele alle ragioni di Mosca. No, non andrò mai a Mosca. Andrò in America, in Massachusetts, è qualcosa di molto più concreto di un sogno. Metterò i miei studi al servizio dei cittadini americani. Per a iutarli magari a costruire carri armati e sommergibili meglio dei sovietici! -
- Ho riempito anche il tuo bicchiere, Ella, vieni a bere con noi! - disse il padrone di casa - Cosa ti ripeto sempre? Non bisogna mai avere pregiudizi. I tedeschi sembravano il peggio che avesse inventato Dio, oggi chi di noi ha potuto è andato a ricostruirsi una vita proprio lì in Germania. I nostri liberatori sono divenuti tiranni, i nostri tiranni. L'ultima è accaduta proprio nei dintorni. Dei giovani, degli studenti lanciavano oggetti contro i carri: bottiglie di birra, piatti, sedie, tavoli e quant'altro. Li hanno mirati col cannone. Li hanno mancati, ma li hanno arrestati tutti. Tutti quelli che hanno afferrato. Io immagino un giovane che si è visto a faccia a faccia col cannone. Dove saranno ora? Al comando sovietico? Nelle prigioni da campo dei sovietici? Sono tempi difficili, non si sa mai da che parte stare. Se ci avessero lasciato Nagy, saremmo almeno artefici del nostro destino. Lei, signorina, sta dalla parte di suo padre, io la rispet to, ma sta anche dalla parte degli americani. Da quale parte lei si schiera? Perché per vivere è necessario schierarsi! -
Ferenc intervenne per la prima volta nella discussione intorno al tavolo delle minestre: - Mi sembra chiaro: Szilvia sta dalla parte della matematica! -
La ragazza lo guardò con riconoscenza, poi voltò lo sguardo al padrone di casa che, ingoiato un sorso di vino, si rivolse stavolta a Ferenc: - E lei giovanotto? Lei da che parte sta? Ha sostenuto Nagy? -
- Mio padre sì, mio padre sperava molto in Nagy. Anche lui è un matematico. Per quanto riguarda me, io sto dalla parte che Szilvia abbia i piedi al caldo! -
Szilvia gli rivolse uno sguardo così dolce che, se l'avesse associato al bacio davanti ai russi, l'avrebbe sicuramente squagliato come neve al sole.
Anche la moglie si versò dell'altro vino, ma prima di berlo volle incrociare il suo bicchiere con quello di Szilvia: - Mio marito ha ragione, io parlo troppo. Dio solo sa cosa ho veduto io in quest'angolo di Budapest. Al piano sotto abitavano degli ebrei, la signora ed io ci scambiavamo le ricette, poi... Va bene, va bene, sto zitta. Mio marito ha ragione, quando racconto degli ebrei, si commuovono sempre tutti. Ora i russi. Mi dispiace averti parlato come se tu fossi una russa. Tu sei ungherese, si vede, si sente dall'odore. Sei una bella ragazza, non dovresti andare in giro a quest'ora. Si dice in giro che i russi violentino le ragazze, le nostre ragazze. Io non mando in giro la mia figlia maggiore. Per lei il coprifuoco scatta alle undici del mattino. Ho già mio figlio a darmi il crepacuore. Non riesco a rinchiuderlo in casa. Ha partecipato alla manifestazione del 23 Ottobre, poi a quella del 25. Dio ha voluto che lo sapessi solo dopo, solo quando è ri tornato a casa vivo. Cosa fai ancora sveglia? Vieni, Tatiana, vieni qua, amore. È la mia piccola. Loro sono amici, dormiranno con noi! -
- In matematica Tatiana è la prima della classe! - disse il padre - Questa signorina studia matematica. Le faccia una domanda, signorina Szilvia, la interroghi, vedrà quant'è brava la mia bambina! -
- Ho fatto le espressioni, le potenze e prima dell'invasione avevamo cominciato le frazioni! - interloquì la piccola.
- Non saprei! - disse Szilvia - Ascolta, Tatiana. C'erano tre prigionieri condannati all'ergastolo. Marcivano in galera, sarebbero invecchiati e morti in galera, ma un giorno il Re volle dare loro una speranza di libertà. Li dispose in fila uno dietro l'altro davanti a un muro. Proprio così, guarda, ecco i nostri tre prigionieri. Qui invece ci sono quattro cappelli, due cappelli bianchi e due cappelli neri. Il Re mise in testa a ogni prigioniero uno dei cappelli estratti a sorte. Ogni prigioniero non poteva vedere il suo cappello, ma poteva vedere i cappelli di coloro che aveva davanti a sé. Il Re disse: chi di voi indovina il colore del suo cappello verrà rimesso subito in libertà, chi invece parla e sbaglia verrà immediatamente giustiziato. Chi resterà in silenzio tornerà in galera come prima. Passa un minuto e nessuno dei prigionieri parla. Passano altri minuti, cinque, dieci e nessuno parla. A un certo punto, il seco ndo, questo qui, dice: io ho la certezza d'indovinare il colore del cappello che ho sulla testa. Perché Tatiana? -
- Questa è matematica? - disse il padre - Questa non è matematica, questo è un indovinello, mia figlia è brava coi numeri, le chieda qualcosa coi numeri! -
- Devo contraddirla. Il mio quesito è matematica: logica matematica! -
Il padrone di casa polemizzò con l'ospite circa l'opportunità di sottoporre quesiti impossibili alla figliola, la quale dal canto suo interruppe tutti con la sua soluzione: - Lo so. Il signore dice: davanti a me vedo un cappello bianco, perciò io in testa ho il cappello nero! -
- Brava, Tatiana! - esclamò Szilvia schioccando un bacio alla piccola solutrice. La quale, per dare una gratificazione al padre, continuò senza essere interrogata. - Conosco anche le tabelline dell'11, del 12, del 15 e del 20. Quindici per uno quindici, quindici per due trenta, quindici per tre quarantacinque... -
La piccola s'interruppe perché Szilvia scoppiò in un riso irrefrenabile. Szilvia si scusava, cercava di controllarsi, lacrimava, si soffiava il naso. Una risata così inopportuna e contagiosa era il migliore dei modi per sciogliere la compagnia. Nessuno osò intavolare nuovi argomenti di discussione per non rovinare l'atmosfera felice che si era instaurata nella piccola comunità ungherese. Ci furono scambi di buonanotte, Szilvia e Ferenc rimasero soli col divano e con un letto apparecchiato sopra quattro sedie.
Ferenc diede tre volte la buonanotte a Szilvia prima di decidersi a raggiungerla sul divano. Si sedette e accostò la bocca alle orecchie della ragazza parlando a bassissima voce.
Ferenc - Sei stanca? -
Szilvia - Molto. -
Ferenc - Mi concedi dieci minuti? -
Szilvia - Cosa vuoi? -
Ferenc - Mi dici qual era il tuo piano? Mi dici cosa hai fatto a letto con quel maiale? Sei stata dentro un'ora, ti ho sentito gemere... -
Szilvia - Un'ora? Amico mio, la gelosia ti ha alterato la cognizione del tempo. Non avevo nessun piano. Nella peggiore delle ipotesi, mi avrebbero sbattuto tre volte e poi sarei ritornata a casa con te.
Ferenc - Perché mi hai legato? -
Szilvia - Tu eri molto pericoloso, Ferenc. Ti ho visto giù in strada, eri un toro ferito e impazzito. Chi credi provvedesse a dare continue manate ai fucili dei russi? Nella stanza avresti sicuramente provocato i russi messi lì a sorvegliarti. Mandando tutto all'aria. Mettendo in pericolo la tua vita. Le nostre vite. Ti legherei di nuovo, chiederei di nuovo le manette al russo e le userei per legarti. Non credo che i russi avrebbero avuto maggiori riguardi per te. Altro che manette, una fucilata in testa e buonanotte. Dentro con il russo qualcosa è andato storto. Se avesse tentato di violentarmi, come presumo che gli uomini violentino le donne, allora tutto sarebbe andato diversamente, tutto sarebbe stato più facile. Invece il russo mi ha afferrato nella morsa delle braccia, mi ha rigirato sul letto, mi ha bloccato con una manaccia sulla testa, era alle mie spalle, ha veduto il cotone che avevo legato alla capsula del microfilm. Credo abbia avuto g iusto il tempo di chiedersi cosa fosse quel cotone, se magari certe donne non fossero provviste di una coda di cotone. L'ho colpito, ho avuto un istante di opportunità e l'ho colpito. È caduto giù al secondo colpo. Avrebbe scoperto il microfilm. La commedia che ho inscenato era per gli altri due. Il punto critico era badare che tu non respirassi troppo veleno.
Ferenc - Accidenti, Szilvia, sei un tipetto deciso. Buon per me che sono tuo amico, che non mi fai del male, che me la sono cavata baciandoti le mani, buon per me che mi proteggi. -
Szilvia - Anche tu mi proteggi. Io ti proteggerò sempre, fin quando mi sarà possibile. Tu sei la mia sola speranza di una vita normale. -
Ferenc - Una vita normale? -
Szilvia - Un marito, dei figli, le torte di compleanno, la gara a chi mette la stella di Natale e tutto il resto. Come mamma e papà. Sono molto stanca, scusami. Voglio dormire. -
Ferenc - Buonanotte. -
Szilvia - Ehi, Ferenc... Vieni... Siediti. Qualunque cosa succeda, tu resta sempre al mio fianco. Lo so che sei diverso, che sei così impulsivo, ma io non posso perderti. -
Ferenc - Non mi perderai. Sono avvezzo a vivere con la matematica, non dimenticare chi è mio padre. Io vivrò in Massachusetts con un pezzo della mia Ungheria. Questo pezzo. -
Szilvia - Ahi, mi fai male. -
Ferenc - Buonanotte, amore. Io ti amo, angelo biondo. -
Szilvia - Ehi, Ferenc... Mi hanno dato delle ciabatte, portale qui per piacere, non vorrei sporcarmi i piedi. Sì, proprio qui, grazie. -
Ferenc - Buonanotte. -
Szilvia - Ehi, Ferenc. -
Ferenc - Sì? -
Szilvia - Il bacio della buonanotte. -
Ferenc - Dov'è il microfilm? Non l'avrai mica ancora nel... -
Szilvia - Eccolo, è qui. -
Dopo la movimentata giornata del microfilm, Ferenc e Szilvia vissero tre di settimane di pace. Ferenc riprese a lavorare con discreta continuità, aveva di che spendere per sé e per dare un po' di denaro a Szilvia. Il coprifuoco fu ulteriormente ridotto, concedendo agli ungheresi parecchie ore di libertà.
Szilvia trascorreva le ore di coprifuoco a dormire o in compagnia degli amati libri. Non sempre però. Talvolta si recava da Ferenc prima del coprifuoco, pernottava dall'amico e rincasava il mattino dopo.
Szilvia venne pervasa da un'inusuale voglia di divagazioni e frivolezze. Una volta, mentre seduta sul letto di Ferenc discorreva con l'amico, si lasciò cadere sulla schiena e incrociando le braccia a mo' di cuscino disse: - Sei capace di sbottonare la gonna a una donna? -
Un'altra volta, serrando una mano a pugno, disse: - Farò l'amore con te, se indovinerai quante dita ho su questa mano! -
Szilvia passeggiava per molte ore al giorno, per niente scoraggiata dal freddo dell'inverno. Talvolta incontrava l'amica Dora Ribli in strada o al mercato. Le due ragazze si salutavano con un abbraccio, scambiavano qualche parola e si lasciavano con un abbraccio. Una volta, le due amiche s'incontrarono in strada sotto un'insistente pioggerellina. Gli ombrelli conferivano all'incontro una parvenza d'intimità e le due ragazze prolungarono il chiacchiericcio molto più a lungo di quanto non facessero di solito.
- Ho avuto un aborto spontaneo! - diceva Dora - Il bambino l'ho perduto. Niente parto, niente aborto. Avevo deciso di tenerlo. Il padre è un mostro ma il ventre è mio. Avrei partorito un bimbo bello e sano. In Italia cercano donne per la raccolta del riso, le chiamano mondine. In Inghilterra cercano infermiere, in Francia e in Germania operaie. Solo in Ungheria vogliono puttane? Ieri ho baciato un carro armato. Due timbri rosa pallido. Mentre facevo la cretina coi russi, mi vedevano delle donne, sono morta di vergogna, ma ne è valsa la pena. Due baci rosa, capitano Vladimir Botvinnik. Io sono pronta, Szilvia, dimmi tu quando! -
- Trascorri il Natale a Budapest, poi sarai libera di andare! - rispose Szilvia - Il processo a mio padre si celebrerà in febbraio. Ancora un po' di pazienza, Dora. Goditi ancora un po' il Danubio. Qui a Budapest è più bello che a Vienna! -
Szilvia e Anatol Dozsa, il padre di Ferenc, discorrevano liberamente infischiandosene di censura e di servizi segreti. Il professore viveva a Vienna e trasmetteva in onde corte tutto quanto gli pareva, ma in orari rigidamente prestabiliti.
Szilvia riceveva a casa sua con una comunissima radio a valvole, collegata allo stendipanni che fungeva da antenna. La comunicazione era prevalentemente unidirezionale dall'Austria all'Ungheria, perché Szilvia a casa sua non era in grado di trasmettere. Quando aveva bisogno di dire la sua, andava dall'amico ingegnere Varjov, lo stesso del microfilm, e operava al trasmettitore.
Per le loro comunicazioni, Szilvia e Anatol Dozsa usavano due distinti sistemi di codifica. Il primo sistema non l'avevano inventato loro, però l'avevano personalizzato e lo usavano correntemente. Si trattava di una codifica basata sul semplice operatore XOR con un operando che mutava ogni dieci byte, secondo un algoritmo che avevano stabilito assieme, quando Dozsa era ancora a Budapest. All'orecchio umano, la trasmissione radio prendeva le sembianze di un messaggio telegrafico codificato in alfabeto Morse. In realtà si trattava di una comunicazione digitale in una banda di frequenze che dava lavoro a decine di agenti del controspionaggio.
Anatol Dozsa trasmetteva un bit al secondo all'incirca per venti minuti. Szilvia impiegava circa quaranta minuti per decifrare un messaggio ricevuto in venti minuti di ascolto. In circa un'ora, Szilvia era in grado di ricevere e decodificare interamente a mano un messaggio della lunghezza di mezza pagina dattiloscritta. Non era molto, ma Szilvia non poteva disporre di un elaboratore e doveva comunque privilegiare la sicurezza. Oggi molti hacker riuscirebbero a violare facilmente il codice, ma allora si trattava di un sistema ad altissimo grado di sicurezza.
Il secondo sistema di codifica era di tipo tradizionale e facilmente violabile. Szilvia e Anatol Dozsa non lo usavano quasi mai, ma lo tenevano in serbo per una particolarissima occasione: comunicare al nemico qualcosa che il nemico stesso doveva credere di avere intercettato.
Il Natale del 1956 fu sereno, quasi felice. Szilvia lo trascorse con due delle quattro persone a lei più care: il pomeriggio con Ferenc, la sera a casa con mamma.
Anatol Dozsa era a Vienna, il papà in carcere. Il suocero a Vienna non era motivo di turbamento, anzi. Il papà in carcere rappresentava, invece, una dolorosa spina nel fianco, un motivo per il quale ogni tanto le gote si bagnavano di qualche lacrima bluastra.
Nel lasciarlo per tornare a casa, Szilvia strinse Ferenc a sé con quanta forza avesse nelle braccia: - Buon Natale dal tuo amore e dal tuo papà. Questo è il bacio che ti manda tuo padre. Tieniti forte, adesso arriva il mio! -
Il 27 dicembre 1956, passeggiando con la mamma a Szilvia sorse il dubbio che qualcuno le pedinasse. Szilvia ricorse a un espediente non sicuro, che aveva usato altre volte. Si avvicinava alla persona sospetta, si frugava nella borsetta e lasciava cadere distrattamente una carta e una banconota. Il cittadino restituiva la carta, la spia la banconota.
Il dubbio si trasformò in sospetto, poi in certezza. Szilvia non andò nel panico, ma inasprì le misure di sicurezza dentro e fuori di casa. Svitò interruttori, risistemò armadi, barattò i suoi stivali seminuovi con degli stivali vecchi, eliminò un parato tinteggiando la parete. Rinunciò ai minuti più dolci delle sue giornate: quelli con Ferenc.
I due giovani innamorati si scambiarono gli auguri di buon 1957 incrociando gli sguardi sul viale Szent Janos che corre lungo il Danubio.
L'unica nota positiva era che non incontrava più casualmente la sua amica Dora Ribli.
In realtà, l'interesse della Polizia di sicurezza non era per entrambe le donne Brawen, ma solo per una: la madre, la signora, la compagna Eva Radzoki Brawen. A Natale tutti diventano più buoni, perfino i comunisti, aveva pensato Eva Brawen. Andrò al Partito, parlerò ai miei vecchi compagni, sosterrò nel Partito l'innocenza di mio marito, la sua totale estraneità ai reati contestati.
Eva Brawen era una sognatrice, un'idealista. Da ragazza leggeva Lenin, Zola, Gorki, la storia della Comune di Parigi, la rivoluzione proletaria in Russia, la rivoluzione francese, il testamento di Pisacane prima dello sbarco a Sapri. Ribolliva di rabbia e indignazione, quando nei libri i reazionari sparavano agli insorti, gioiva e si entusiasmava unendosi ai rivoluzionari in marcia.
Aveva concepito Szilvia in Spagna nel 1932, negli anni della seconda Repubblica. Alla figlia non aveva trasmesso i suoi colori mediterranei, tantomeno i suoi bollori rivoluzionari. Aveva trasmesso l'amore di una mamma, il calore di una famiglia, sentimenti e valori che non hanno inventato i borghesi, tantomeno i comunisti.
Più prossima ai quaranta che ai cinquanta, Eva era una donna bella, formosa, giovanile. Nelle passeggiate con la figlia, non di rado le scambiavano per sorelle. L'una mora, attraente, solare, intrigante, l'altra bionda, carina, fotogenica, gelida.
- Tua sorella dovresti portarla a ballare! - aveva detto alla mora un bottegaio al quale Szilvia aveva contestato il risultato di una somma - Conoscerebbe dei ragazzi, scoprirebbe che la bocca può essere usata per tante cosettine! -
Uscendo da casa diretta al Partito, Eva si mise alla testa delle masse oppresse che marciavano nei suoi libri. Passo dopo passo, l'angoscia per il marito, la vista dei militari russi, i timori per la giustizia comunista dispersero il corteo degli oppressi e lei giunse al Partito da sola, senza più nessuno alle sue spalle.
- Sono tre ore che aspetto, perché non mi permettete di parlare coi funzionari? Avete esaminato i documenti, la tessera di Partito, avete ben visto chi sono, Eva Brawen, la compagna Eva, ho ancora la mia tessera, il Partito non mi ha mai espulso, sono qui per parlare di mio marito, il compagno Leon Brawen, conducetemi da Kossuth, da Molnar, conducetemi da un funzionario. -
Che fatica aprire una breccia nella burocrazia comunista, quando non si hanno alle spalle cortei di masse oppresse!
Al Partito conoscevano bene Eva Brawen, per questo la evitavano.
- Buongiorno, compagna Brawen, che piacere rivederti, scusami, solo un attimo e sono subito da te. -
- Ciao Eva, abbracciami, mi aspettano al comando sovietico, sono dispiaciuto di non potermi trattenere a rinvangare i nostri anni migliori. -
- Buongiorno, compagna Brawen, tu sai bene che non possiamo fornire informazioni su un processo ancora in fase istruttoria, ma se tu sei qui solo per salutare i vecchi compagni, allora sei la benvenuta. -
- Ciao Eva, usciamo a bere un tè, sei stata ingenua, non dovresti essere qui, le imputazioni a carico di Leon sono molto serie, non c'è da scherzare, torna a casa e abbi fiducia nel Partito. -
Dopo sette ore d'inutile anticamera, finalmente l'abbraccio di una compagna e di un'amica: - Carissima Eva, ormai non ci si vede più! - diceva con voce stridula Therese Mikszath, omonima di un celebre romanziere ungherese del XIX secolo - Qui nessuno ti ascolterà, nessuno ti dirà nulla. I compagni maschi leccano il culo ai russi. Tutti. Ti va di prendere un tè da me? Sì? Allora ti aspetto a casa mia alle sette in punto. Ricordi dove abito? Ti aspetto stasera, cara! -
Therese - Un'altra tazza di tè? Accettala su, è tè di prima qualità. Assaggia questi alla crema, sono deliziosi. Il tuo punto di vista è giusto, ti ammiro, sei sempre la stessa, non perdi mai il punto di vista dell'esperienza storica. Lenin, Trotskij... altri tempi. Lo capisci, no? -
Eva - Per me no, grazie. -
Therese - Un goccio, solo un goccio. Dà più forza al tè, conferisce più carattere, più decisione. Scotch whisky, whisky di puro malto, l'unico lusso che mi concedo. Senza, il tè mi sa di piscia. Ho promesso che ti avrei parlato con franchezza, manterrò la promessa, lo giuro. Quando prometto, mantengo. Se a un uomo prometto un orgasmo da impazzire, stai pur certa che lo spedisco diritto al manicomio. Credi sia per questo che non mi sono mai sposata? Dici che è per questo? Tu invece ti sei sposata giovanissima, vero? A proposito, vengo dritto al punto per il quale sei qui. Su Leon pende un'accusa molto grave, rischia la pena capitale. Piangi pure Eva, povera cara, piangi ma ascoltami. Vuoi del brandy? Del cognac? Ho dell'ottimo cognac francese, l'unico lusso che mi concedo. Beh, un goccio lo berrò io. Non c'è solo la propaganda sovversiva, qualche cazzone ha voluto aggiungere il reato di collaborazionismo coi servizi segreti britannici. Bevi con me, tienimi compagnia. Ma questo lo sapevi già, vero? -
Eva - Ti ringrazio, ma non bevo tanto. Sì, conoscevo già le imputazioni a carico di Leon. -
Therese - Bevo tanto? Trovi che beva tanto? Sbagli, compagna, sbagli di grosso. La mattina, se non mandassi giù un goccio, giuro che prenderei il mitra e li stenderei tutti. Un Partito d'inetti, codardi, leccaculi. Ecco cosa siamo diventati. Con Rakosi c'erano compagni con le palle, un Partito con le palle. Oggi, invece, siamo il Partito dalle palle mosce. Tutti a lustrare le scarpe ai russi. -
Eva - Ma com'è possibile mantenere in piedi il reato di spionaggio per i britannici? Leon coi britannici? Assurdo. Sapresti dirmi perché questo reato non cade in fase istruttoria? Possibile che si arrivi in tribunale con un reato del genere ancora in piedi? Leon coi britannici? È una favola. -
Therese - Favola un cazzo. La corte chiamerà a testimoniare gente che ha veduto coi propri occhi Leon complottare coi britannici. Tre tecnici inglesi coi quali ai cantieri metallurgici tuo marito si è intrattenuto per delle ore. In privato. Poi è uscito a raccontare agli operai un sacco di stronzate sulla normativa che regola gli infortuni. Come mai, Eva? Un caso? La corte crederà al caso? -
Eva - Leon parla molto male l'inglese. Per dire: "I was born in Budapest" dice "I was born" poi s'impappina e dice "into Budapest". Se gli inglesi non conoscevano la nostra lingua, se Leon ha dovuto, giocoforza, esprimersi in inglese, è naturale che abbia impiegato ore. I giudici dovrebbero tener conto di tutto questo. -
Therese - Svegliati, benedetta Eva, fatti furba. Ti aspetti che la corte metta in conto la padronanza di Leon per la lingua inglese? Tu parli bene l'inglese, vero? -
Eva - Anche lo spagnolo. -
Therese - Vuoi veramente fare qualcosa per Leon? -
Eva - Sì, lo voglio più di ogni altra cosa al mondo. Mia figlia ed io non possiamo fare a meno di Leon. Ci manca da impazzire. -
Therese - Allora rientra nel Partito, Eva. Non restare alla finestra a guardare scorrere gli eventi. Datti da fare, rientra nel Partito. Scusami, se insisto, davvero non vuoi cognac? Hai commesso un grave errore Eva: ti sei isolata dal Partito. Fai ancora in tempo a rimediare. Lavora per il Partito dentro al Partito. Il comunismo è il solo futuro per l'Ungheria. I pompini che farai nel Partito... -
Eva - I pompini? -
Therese - Dicevo per dire, non stare a giudicare ogni singola parola, non mi sembra proprio il caso. Con Leon che affoga nei guai. Per tutti sei sempre stata la compagna Brawen, la moglie di Leon. Ma... -
Eva - No grazie, non fumo. -
Eva si sentiva frastornata, debole, una sensazione di malessere che in genere si definisce diffuso perché non si sa bene dove localizzare il dolore, se nel corpo, nell'anima o in entrambe.
"Sarà stato il whisky? pensava "Quel goccio di scotch whisky che ho ingurgitato cedendo alle insistenze? Ma sarà stato davvero soltanto un goccio? Non sono del tutto astemia, non dovrei essere allergica al whisky. Leon coi britannici... Ma se in casa non abbiamo mai avuto del whisky. A proposito di casa, Dio come vorrei essere a casa mia. Chiudere gli occhi, riaprirli ed essere a casa mia con Szilvia."
Le parole di Therese perforavano le orecchie come il mitra di cui aveva parlato prima.
- Il comunismo è maschio! - mitragliava Therese - Il comunismo è degli uomini, l'hanno inventato gli uomini, l'hanno perfezionato e modellato a forma di testa di cazzo. Vuoi che ti faccia i nomi dei compagni che hanno immolato mogli e figlie sull'altare dei sovietici? -
- Nagy è un folle, un anticomunista che ci avrebbe gettati dritti nelle braccia degli americani. Rakosi avrebbe dovuto farlo fuori come ha fatto con Lukas. Rakosi ha commesso un solo grave errore: non ha giustiziato Nagy! -
- Che cosa stai pensando, Eva? Stai facendo tesoro dei miei consigli? Quali pensi di seguire? Cosa farai? -
- Non so! - rispose Eva facendo fatica ad articolare le parole - Mi rivolgerò alla stampa. Qualcuno mi ascolterà! -
- La stampa? Chi? - chiese Therese facendosi improvvisamente sobria.
- Chi, cosa? -
- Hai parlato della stampa, cazzo! - sbottò Therese alzando la voce - Da chi andrai? -
- Che ne so? Lasciami in pace, Therese. Non mi sento bene, voglio tornare a casa! -
- Hai degli amici nel giornale, vero? - incalzava Therese - Eh già, tu hai militato tanti anni nel Partito. Ma chi sarà disposto ad ascoltarti? Ti viene in mente qualche nome? -
- No. Aiutami ad alzarmi, per favore, mi gira la testa! -
La mitragliatrice di Therese era inarrestabile quanto inesorabile.
- Ti aiuterò io, farò qualche nome e tu mi dirai di sì o di no. Gunter Herczeg? Lui? Emil Krudy? No? Ci sono: Szilvia Mostar. Lei? Szilvia? -
L'ultimo nome pronunciato agì come un antidoto sul malessere di Eva. Il nome della figlia in una bocca più disgustosa di una cloaca. Eva scattò in piedi in preda a un'irritazione incontrollabile, si diresse alla porta, si congedò dalla padrona di casa dimenticando di salutarla. Sulla strada verso casa, Eva provò vergogna di se stessa per aver sperato nell'aiuto di Therese.
Mia moglie ha lavorato molti anni al Massachusetts Institute of Technology, il prestigioso MIT. Oggi naturalmente è in pensione, si diverte a insegnare matematica ai nipoti e scrive sporadicamente qualche articolo per Canadian Journal of Mathematics, per American Programmer, per Illinois Journal of Mathematics.
Vivendo con Szilvia, ho potuto toccare con mano quanto la matematica sia diffusa nel mondo odierno. Una sorta di linfa vitale, una sostanza non immediatamente visibile a occhio nudo ma che risulta indispensabile per qualsiasi funzione dell'organismo.
Szilvia ha fornito consulenze per Apple, per TWA, per Nissan, tanto per citarne alcune. Per gli americani, Szilvia è sempre stata una miniera d'oro accessibile a bassissimo costo. Qui a Budapest non saprei proprio quale destino avrebbe potuto avere.
Oggi è tutto diverso, ma allora, cinquant'anni fa... A quei tempi, Szilvia lavorava come archivista al Ministero dell'Industria. Catalogava, archiviava, prelevava su richiesta pratiche, faldoni, circolari, bollettini nazionali ed esteri che ricoprivano un qualche interesse per il mondo dell'industria. Venne licenziata in tronco, quando mio suocero fu arrestato, un paio di mesi dopo venne reintegrata in servizio senza alcuna motivazione. L'avevano rimpiazzata con un piccolo nugolo di impiegati con risultati fallimentari.
Una mattina mi recai al Ministero dell'Industria nella veste di un comune cittadino. Di buon ora avevo ricevuto un telegramma dall'Italia: "Sentite condoglianze carissima perdita stop Nicolas stop".
Era il segnale che Dora si trovava all'estero al sicuro. Ricevere il telegramma costituiva la piccola parte che io avevo nel piano. Mi bastava presentarmi al Ministero dell'Industria, vedendomi, Szilvia avrebbe capito che avevo ricevuto il telegramma. Ero emozionato, avrei rivisto Szilvia e avrei perfino scambiato qualche parola con lei.
Szilvia non veniva più a casa mia, non riscaldava più con la sua presenza le mie due stanzette. Szilvia aveva voluto che fossi io il destinatario del telegramma perché lei e la mamma erano sottoposte al controllo della Polizia. I telegrammi di cordoglio costituivano le uniche comunicazioni dall'estero in grado di bucare la censura comunista. Szilvia aveva il timore che lei, la madre o entrambe venissero interrogate dai servizi di sicurezza. Compagna Brawen, di quale parente sei in lutto? Compagna Brawen, rivelaci il nome dell'agente straniero che si nasconde dietro lo pseudonimo di Nicolas.
Dal giorno di Natale, se vedevo Szilvia, era solo perché trascorrevo ore con una panchina e un giornale aspettando che lei passasse per la strada. Ci salutavamo guardandoci, senza una parola, senza un cenno della testa. Ore e ore da solo per qualche secondo a un metro o due da lei. Ero innamorato di una ragazza inavvicinabile, irraggiungibile. Il destino stava beffando la mia libidine costringendomi per molti mesi ad amare solo con gli occhi. La nostra astinenza terminò a Vienna. Dopo Vienna, l'America.
Perdonami Budapest per averti portato via il raggio più luminoso del tuo sole pallido.
Quando vengo posseduto dalla vena poetica, allora è giunto il momento per una vodka. Non sono un poeta, perché una bottiglia di vodka russa mi dura in casa un anno e anche più. Vodka russa, certo.
Il tempo stempera l'odio e il rancore, è giusto che sia così. Viva la Russia, viva la vodka.
Andiamo, Jacob, accompagnami a quel bar. Szilvia e nostra figlia saranno qui a momenti.
31 gennaio 1957
Alle otto del mattino, Ferenc ricevette un telegramma di cordoglio dall'Italia. Si lavò, si rase, impomatò e lucidò le scarpe, infilò la camicia buona e uscì diretto al Ministero dell'Industria. Lì chiese informazioni, esibì un documento, compilò un modulo, attese mal celando impazienza e agitazione.
Dopo mezz'ora, da una porta laterale entrò una giovane impiegata bionda con un fascicolo tra le mani. Parlottò con un altro impiegato, sorrise a una collega, si accostò allo sportello per il pubblico e pronunziò ad alta voce il nome del signor Dozsa.
- È lei il signor Ferenc Dozsa? - domandò, quando Ferenc si accostò allo sportello - Ecco il gazzettino che ha richiesto. Riavrà il suo documento, quando ce lo riconsegnerà. È del 1952, non ne abbiamo altri, mi dispiace. Austria? -
- Italia! - rispose Ferenc - Pazienza, credo andrà bene lo stesso! -
- Buona fortuna! - proferì l'impiegata bionda consegnando il gazzettino al richiedente.
Ferenc prese il gazzettino sfiorando con un brivido le dita dell'impiegata, un altro brivido, quando lei si offrì di agevolargli la consultazione.
- Signor Dozsa, lei ha richiesto un gazzettino tecnico in lingua inglese. I sovietici ne pubblicano di migliori, comunque lei ha voluto questo. Per agevolarle la lettura, credo sia opportuno che io le scriva le formule di conversione tra gradi Fahrenheit e gradi Celsius. Si accomodi a quel tavolo accanto alla finestra, sarò subito da lei! -
Szilvia - Sii molto formale, non possono sentirci, però possono vederci. Sta andando tutto liscio, tu stai leggendo i miei messaggi, la casa di Dora è adeguatamente inquinata, non resta che attendere la trasmissione di tuo padre. Speriamo che le cose vadano per il verso giusto. -
Ferenc - Stai molto attenta, amore, io ti sposerò, anche se finirai in carcere, ma sarebbe un peccato rinunciare alla luna di miele.
Szilvia - È una proposta di matrimonio? Non temere, Ferenc, avremo la nostra luna di miele, sono sempre molto prudente. Il più è stato fatto, non resta che sperare. Sperare che Kovarov passi un brutto quarto d'ora. Per il bene di mio padre. Sapessi quanto mi manca. Mamma è sempre così triste. -
Ferenc - Andrà tutto bene, io ho fiducia in te. Oggi sei bellissima, Szilvia, sei più bella che nei miei sogni. Procurami una nuova foto, quella che ho si è sbiadita, ho bisogno di una tua foto. -
Szilvia - Certo, l'avrai col prossimo messaggio. Io porto sempre con me la sciarpa che mi hai regalato tu. -
Ferenc - Ti amo, Szilvia, vorrei dirti che... Che ti amo. -
Szilvia - Grazie, Ferenc, avevo proprio bisogno di una parola d'amore. Devo lasciarti, non mi trattengo mai a lungo con i cittadini. Prendi il gazzettino, prendi le formule e vai. -
Ferenc - A presto, Szilvia. Dove? -
Szilvia - Domani sarò a passeggiare al viale Szent Janos con Anna e con mamma. Ciao. -
Mentre al Ministero dell'Industria Ferenc saziava occhi e orecchie della sua bionda fidanzata, l'AVH, il servizio di sicurezza ungherese, intercettava una trasmissione sospetta in onde corte proveniente da un Paese estero, presumibilmente l'Austria. L'AVH disponeva di un reparto dedicato esclusivamente all'intercettazione di comunicazioni in onde corte, unici invisibili ponti tra i cittadini del Paese occupato e il resto del mondo. Telefono e telegrafo via cavo erano, infatti, sotto il totale controllo delle autorità ungheresi, mentre le onde medie erano riservate a emittenti nazionali e del tutto inaccessibili a radioamatori e privati cittadini.
L'AVH decifrò il codice della trasmissione cifrata in poco più di due ore, alle due del pomeriggio irruppe nell'abitazione di Dora Ribli trovandovi il disordine tipico di una casa abbandonata da una persona in fuga. Sotto un asse di legno del pavimento, gli agenti dell'AVH trovarono fogli scritti in russo, in ungherese, in inglese, elenchi di nominativi di ufficiali russi in servizio sui carri armati con il corrispondente colore impresso col rossetto sull'acciaio del carro, nomi di militari e diplomatici russi e ungheresi in servizio nei Paesi occidentali, cartine geografiche di aree di Budapest con delle X e dei cerchietti tracciati con inchiostro rosso, materiale propagandistico occidentale mai arrivato in Ungheria, volantini d'incitazione all'insurrezione, articoli scritti a macchina che avrebbero fatto la gioia della stampa occidentale, e molto altro materiale ritenuto interessante.
Venne immediatamente informato il KGB, il servizio di sicurezza sovietico. Le indagini scattarono con interrogatori a tappeto: coinquilini, negozianti, parenti, conoscenti, amici, cittadini che in qualche modo conoscevano o avrebbero potuto conoscere la presunta spia.
L'interrogatorio di Szilvia durò all'incirca un paio d'ore. Szilvia rispose alle domande con estrema sincerità, disse di sapere che l'amica era incinta, che era sconvolta della gravidanza, che aveva deciso di abortire, che le aveva chiesto di accompagnarla ad abortire, invito che lei aveva rifiutato. Szilvia disse di conoscere il nome del padre, di sapere che il padre riteneva la gravidanza un grave ostacolo all'attività di Dora, disse ancora di non aver mai avuto alcun sospetto circa l'attività di spionaggio dell'amica. Tesi quest'ultima condivisa da tutte le persone interrogate.
I servizi di sicurezza giunsero alla conclusione che Dora non fosse inquadrata in una rete di spionaggio, piuttosto si prestasse a fornire favori a qualcuno in cambio di favori. I servizi di sicurezza ritennero, dunque, che l'identificazione di questo qualcuno fosse un affare della massima priorità.
La posizione di Kovarov fu ritenuta molto pesante. Dopo i primi interrogatori, Kovarov riuscì a evitare che fosse sospettato di essere l'uomo al quale Dora forniva le sue informazioni. Fu comunque ritenuto reo di una superficialità che in tempo di guerra fredda può essere causa di conseguenze disastrose. Venne condannato agli arresti domiciliari con l'imputazione di collaborazione colposa coi servizi segreti occidentali. Poco più tardi, l'accusa venne mutata in quella ben più grave di spionaggio a danno della sicurezza della Repubblica Popolare d'Ungheria. Il vicecomandante delle forze sovietiche in Ungheria, Yascin, non perdonava Kovarov per averlo mandato a divertirsi nel covo di una spia degli americani.
Accusato di spionaggio, il principale teste d'accusa al processo contro Leon Brawen fu ritenuto inattendibile. L'accusa a carico dell'imputato Brawen venne sospesa fino a nuovo riesame della commissione inquirente. Brawen venne scarcerato sotto pesanti limitazioni della propria libertà individuale. Fu uno dei pochi collaboratori del governo Nagy a essere sopravvissuto alla feroce repressione operata da Kadar.
Tredici anni più tardi, tutte le accuse a carico di Brawen vennero cancellate e lo stesso Brawen riabilitato. Il governo Kadar aveva plaudito all'intervento armato sovietico a Praga, si era schierato con gli invasori ricevendo in cambio qualche briciolo di autonomia.
La Russia ammorbidì sensibilmente il controllo sulla colonia magiara. Kadar mutò il vecchio motto di Rakosi: "Chi non è con noi è contro di noi", nel nuovo motto "Chi non è contro di noi è con noi".
Brawen si occupava di giardinaggio, non era contro il regime, quindi era con il regime.
Brawen approfittò della ritrovata libertà per raggiungere la figlia in America. Morì nel 1985, quattro anni prima che l'Ungheria riacquistasse la propria indipendenza.
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