Che il mare abbia una voce non è certo un mistero, così come niente è misterioso o celato nei canti della tempesta - la perfetta geometria delle vocali, la sospensione degli specchi e la piegatura delle lenzuola sembrano, davvero, voler scarabocchiare una pagina immutabilmente bianca o, più semplicemente, tendersi. Sembrano, alla maniera degli incroci, saldare un punto di fuga. Nel pudore del cielo scevro da nuvole il sorriso dei remi spolverati traccia in lettere di luce destini da rinnegare; i venti soffiano, i capelli si sciolgono, i muri crollano. Nessuna sorpresa, quindi, nel vedere i volti trasognati di quanti si fermino ad ascoltarli - o si illudano di poterlo fare: è l'incanto del filo spinato divelto nella sabbia, l'ago della bussola ubriaco. È una notte trascorsa in tenda mentre l'ultima brace invecchia nel buio e il vapore complice si sdraia sulla tela cerata.
Poi, d'un tratto, il cristallo si scopre torbido nella contemplazione della quiete, nell'addormentarsi dell'infinito. Il ritratto diventa idillio, il divenire si inceppa - nessuna storia, nessuno spazio: un osservatore poco attento parlerebbe di morte. Eppure è in questo silenzio assordante che i tramonti cercano rifugio. Il marmo prende vita, dalle fontane storie si innalzano e si perdono in valigie accantonate in soffitta, accanto ai sacchi a pelo e agli elastici esausti. Qualche goccia di pioggia arranca nella prosa, legandosi in un ultimo tango all'anima dannata, prima di trovarsi già trascorsa in un sospiro di gomma e motori passo-passo.
Dio invidia la polvere.