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Timidezza

L’insegna apparve dopo l’ennesima svolta, a capo d’uno dei tanti vicoli bui su cui rimbalzavano i nostri passi incerti e le voci entusiaste d’una età che mi sembrava un po’ di rubare. Entrammo e fui fra i primi a sedere, per evitare che qualcuno potesse indicarmi il posto d’onore di capotavola, sottolineando in quel modo il mio cruccio, la differenza d’età. Si può vivere così?
In fretta ogni residuo d’imbarazzo si sciolse fra bruschette e pizze, birra e vino rosso. In verità nessuno di loro mosse mai allusione, neppure scherzosa, a ciò che invece a me sembrava un solco di età ben visibile. Ma l’idea era solo mia e presto abdicò al piacere della compagnia.
Dopocena il gruppo si divise. Gli altri tornarono in “convento”, mentre con Tania e Giuditta andammo presso un centro sociale. C’era musica ad alto volume in ogni zona di quella antica villa padronale, riconsegnata ad una decenza minima. Ma questa restò una mia intima osservazione che non volli esternare, ad evitare lunghe disquisizioni parafilosofiche con le ragazze, che sarebbero probabilmente sfociate in un civile accordo circa il valore mediano del termine “decenza”. Si sentiva l’aria di un luogo in cui i muri erano concepiti come uno spazio espressivo da riempire di cultura e sensibilità. Quasi un principio fondante di quella socialità. Fuori da questo criterio tutto sembrava ubbidisse alla regola dell’essenzialità. Più per timore di rivelare contraddizioni inspiegabili tra le comodità ed un certo atteggiamento cult, che per convinzione.
Giuditta e Tania erano lì, femministe convinte, corazzate da una massiccia cultura a sostegno delle ragioni del sociale, dei diritti umani, della dignità delle persone e di tutto quell’armamentario concettuale che nelle donne diventava il bersaglio della mia eterna provocazione, sfrondato spesso da incursioni ironiche, terreno dove la reciproca antipatia con Giuditta si faceva piuttosto evidente. In Tania quel mio atteggiamento un po’ canzonatorio ed un po’ provocatorio, diventava breve evasione dalla seriosità ed accesso ai territori dell’umore leggero. Rottura di rigorose procedure dialettiche e svago momentaneo in qualche sorriso, tanto estemporaneo quanto salutare.

Che dire, sempre Giuditta o qualcuno di mezzo. Non riuscivo a trovare momenti per parlare a Tania come avrei voluto. O forse soltanto era il mio modo per evitarli e godere d’una contraddittoria frustrazione, dell’assenza dei corpi, metafora di realtà e di felicità profondamente concrete o di rifiuti e avvilimenti copiosi e indigeribili. Meglio forse abbracciare fantasie, meno resistenti, morbide e maneggevoli. Oltremodo disponibili a manipolazioni di comodo e soprattutto prive di volontà. Dietro ogni volontà c’è un corpo oppure il vuoto. Cosa pensava davvero Tania di me? Non lo saprò mai. Una goffa timidezza da adolescente nel corpo di un uomo ormai maturo non seppe acquietarsi, neppure nelle poche circostanze favorevoli che gli eventi procurarono. Non lì a Parigi, tra le bancarelle del quartiere latino, finalmente solo con lei, in una atmosfera leggera che regala animi bianchi tutti da scrivere nelle domeniche mattina impigrite dai passi lenti e dallo scampanellare cadenzato delle chiese. Non alla stazione di Roma, al rientro dalla Francia, dove ci abbracciammo per l’ultima volta, senza parole, con le domande chiuse nelle tasche. Né qualche giorno prima, quella sera, nel bistrot di Place de la Concorde, quando la timidezza sembrava voler allentare la morsa. Fui solo capace di una strategia per sederle accanto. Nel vorticoso giro di sedie attorno ai tavoli, ebbi la meglio in una fulminea quanto involontaria partita a scacchi con pezzi umani, contro almeno quattro avversari sorridenti ed imbarazzati più me sul posto da scegliere. Riuscii alla fine a sistemare la regina accanto al re. E fu solo per uno strano accanimento della fortuna se dopo il posto conquistato, ebbi anche la possibilità di parlarle senza essere ascoltato da altri. Inaspettatamente la timidezza mollò un guinzaglio già teso all’inverosimile, tanto che mi ritrovai come schizzato nella involontaria quanto spregiudicata proposta che la mia voce inviò alle mie orecchie senza che io potessi governare alcunché:

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2 commenti:

  • alberto accorsi il 14/02/2007 15:59
    "nicchia olistica nel territorio ospitante"... non si può dire che manchi di raffinatezza.
  • laura ruzickova il 13/02/2007 14:34
    a volte le storie mai nate lasciano segni più profondi di quelle vissute