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Il quadro
Prese il tubo del giallo e lo spremette sulla tavolozza.
Ne uscì tanto, con un fiotto. Velocemente si formò una chiazza ambrata vicino agli altri colori. Lo sparse con il pennello piatto tirandolo con movimenti sapientemente assestati.
Carolina era impulsiva.
Amava prendere decisioni di getto, senza pensarci su due volte.
Ci stava proprio bene quel giallo disteso sul resto dei colori.
Una volta steso non si percepiva più il colore, ma restava un'aura dorata che lasciava splendere la figura circostante di luce propria.
Quando ebbe finito di aggiungere colore poggiò il pennello. Con un panno intriso di trementina ne pulì le setole. Lo lasciò sul bordo del cavalletto, proprio parallelo alla grande tela e si allontanò per osservare da lontano.
Era soddisfatta.
Quel bosco pieno di foglie la riempiva di serenità.
Prese una sedia, quella di tela che Francesco chiamava la sedia da regista.
Francesco le tornava sempre in mente quando guardava un quadro finito.
Una volta aspettava il suo giudizio.
Ogni gesto, ogni azione, ogni cosa che faceva Carolina, doveva essere avallato dal suo giudizio, sperando che fosse un'approvazione implicita.
Questa era la prima volta, dopo quattro anni, che lo guardava da sola.
Carolina aveva dipinto quel quadro con grande sofferenza.
Da quando Francesco non c'era più aveva perso quasi la forza di fare tutto. Anche le cose più semplici, come cucinare o leggere un giornale.
Figurarsi dipingere, che già richiedeva uno sforzo quando tutto attorno a se sembrava ruotare nel verso giusto.
Ma da un po' di tempo sentiva che qualcosa stava cambiando.
Pragmatismo e precisione non si sposano col caos e l'improvvisazione.
Perché Francesco era un tipo pragmatico.
E preciso anche.
Fino all'esasperazione.
Per lui un problema andava affrontato sul nascere. Non era possibile non poter o peggio ancora non volerne trovare la soluzione. A poco a poco, ripeteva, tutti i problemi si risolvono, basta volerlo, basta pensare. Pensa positivo, Carolina e ce la farai! Hai detto mille volte che avresti smesso di fumare e hai ricominciato.
Non lo sopporto proprio, diceva, non ci credo che tu non possa risolvere questo problema. È una sciatteria, è come se uscissi in strada in vestaglia e pantofole.
Perché Francesco, se aveva un problema, pianificava il modo per risolverlo. Pensava al modo giusto per affrontarlo. Lo analizzava, lo scomponeva, progettava e poi tentava di trovare una soluzione.
Ma lei non c'era mai riuscita. Carolina era la natura stessa. Difficile intrappolarla negli schemi. Prendeva la vita a morsi e ne assaporava l'essenza più intima, anche a costo di farsi del male.
E allora correva nel suo studio e piangeva e dipingeva e pensava e la soluzione le sgorgava spontanea, come il sudore dopo una corsa.
Si alzò dalla sedia da regista e aprì la finestra.
Una folata di vento fresco entrò nella stanza e penetrò l'ultimo calore estivo intrappolato in quelle mura come la lama di un coltello affilato in un panetto di burro.
In un attimo si dissolsero gli odori dei colori a olio.
Respirò a pieni polmoni quel fresco nuovo che le entrò nelle vesti.
Poi chiuse la finestra, gettò la cicca della sigaretta sul pavimento, la pestò con la punta della scarpa infradito e andò a dormire quando già da lontano oltre il giardino la città cominciava a ripartire.
Fu svegliata dal rumore dei piedi della poltrona della vecchia al piano di sopra.
Ogni giorno, alle dieci in punto, cascasse il mondo, trascinava quella poltrona sul pavimento della stanza sopra la sua camera da letto.
Non era un rumore, piuttosto un lamento, un urlo di dolore modulato e prolungato. Un fastidio che le entrava nelle orecchie e la faceva balzare nel letto quelle volte, ed erano tante, che alle dieci ancora dormiva.
Carolina quando dipingeva andava avanti tutta la notte finché non le si chiudevano gli occhi.
Poi, quando il rumore delle prime auto e della città mostruosa che pulsava oltre il giardino si lasciava percepire oltre la finestra, fumava una sigaretta e sprofondava nel letto cercando di placare tra le lenzuola e il cuscino di piume i demoni che la rincorrevano quando poggiava il pennello e finiva di dipingere.
Si stirò, sbadigliò, si scombinò i capelli con una mano e soffiò sulla frangetta per spostarla dagli occhi con un gesto che reiterava da quando era piccola. Allungò la mano alla sua destra per farsi del male.
Sapeva che non avrebbe trovato nessuno.
Infilò le dita sotto il cuscino freddo.
Palpò qualcosa di strano.
Alzò il guanciale e trovò una foglia secca.
La stessa che il giorno prima aveva trovato ai piedi del cavalletto sotto al quadro.
Corse in studio a controllare il quadro.
Tutto era come aveva lasciato.
Nella stanza c'era freddo, ma ogni cosa era come la notte prima.
Dopo colazione fece una doccia e uscì a comprare le sigarette e il giornale.
Camminò a lungo immaginando che la sua mano fosse stretta a quella di Francesco.
Passeggiò senza meta per il quartiere, inquieta e assorta nei suoi pensieri, incredula di calpestare quel sentiero polveroso stretta ad un ombra.
Ripensò alla nevicata, quella mattina che uscì con Francesco.
Calpestavano la neve immacolata e ridevano e si spruzzavano come due ragazzi.
Carolina si sedette a fumare l'ultima sigaretta sulla stessa panchina dove Francesco la baciò quattro anni fa.
La aspirò con tutta la forza e fece scivolare il fumo nei suoi polmoni.
Sapeva che il fumo fa male ma questo non era sufficiente a farla smettere.
Ne aumentava solo il suo senso di colpa.
Francesco questo non lo voleva capire.
In fondo erano troppo diversi.
Aveva fatto bene, pensò Carolina, a telefonarle il mese scorso dicendo che non sarebbe più venuto a casa sua e che anche lei sarebbe stato meglio non prendesse più il treno per andarlo a trovare.
Carolina gettò via la sigaretta ancora a metà e tornò con passo veloce a casa sua.
Si gettò a piangere sul letto pensando al bosco che aveva dipinto e alle fotografie che avevano scattato assieme quando andarono al lago.
Sentiva ancora il braccio di Francesco attorno alla sua vita esile.
Pianse ancora col viso affondato tra le piume morbide del cuscino, materializzando l'acqua azzurra del lago che perforava il giallo ambra delle foglie e gli alberi nel bosco dorato.
Soffocò nel sonno le sue lacrime e si svegliò con una gran fame.
La luce filtrava bassa e calda oltre le tende, terribilmente presto per terminare.
Carolina si riempiva sempre di nostalgia quando vedeva tramontare il sole di fine estate, ma al tempo stesso aspettava l'inverno, pronto a coccolarla con le luci accese pomeridiane nelle strade e il calore della casa.
Mangiò qualcosa avanzata dal giorno prima, con avidità.
Non pensava che alla neve.
Aveva voglia di freddo e d'inverno.
Fu allora che visualizzò il suo nuovo quadro.
Il suo bosco, quello di prima, coperto di neve.
Finì il pranzo/cena con impazienza.
Portò il piatto nello studio e poggiò una grande tela nuova sul cavalletto.
Un'emozione, la solita che percepiva ogni volta che montava una nuova tela sul cavalletto, la scosse fin dentro le membra.
Pensava sempre a come si sarebbe sentito uno scrittore di fronte alla pagina bianca. O un compositore con le mani appoggiate alla tastiera del pianoforte ancora muto.
Carolina aveva bisogno di questi confronti. Lei non era mai sicura della sua arte, ma d'altronde, non era sicura di nulla nella sua vita. Le certezze le facevano paura. Nulla è per sempre, amava ripetersi. E dentro di se sapeva che quella frase era solo una scusa per allontanare uno dei suoi tanti demoni che la inseguivano. Il suo pessimismo era dettato più dal tentativo di schivare una delusione che da convinzioni certe.
Prese il carboncino, tracciò sommariamente gli scheletri degli alberi, i massi e il grande ruscello così come la sua mente voleva vederlo.
Poi preparò la tavolozza dei colori.
Aprì tanti tubetti, li spremette disordinatamente, quasi con impazienza. Preparò i pennelli e infine cominciò a spargere colore sulla tela.
Carolina, nonostante dipingesse da quando era ragazza, ancora si stupiva di quanto accadeva sulla tela per opera sua.
Era incredula ad accettare la sua abilità. Cercava approvazione costantemente e il successo ottenuto non la gratificava tanto per il denaro quanto per la conferma del suo talento.
Oggi Carolina dipingeva per se. Non avrebbe mai venduto quelle ultime tele dipinte con Francesco nel cuore.
Andò avanti tutta la notte, senza ripensamenti, quasi in preda ad una furia creativa, e non smise finché il bosco innevato non fu quello che aveva visto mentre piangeva con la testa nel cuscino.
Carolina allora poggiò il pennello lungo il bordo della tela sul cavalletto, si allontanò per osservare meglio il quadro, pensando al giudizio di Francesco.
Fece per accendere la sigaretta e si ricordò di avere smesso un'altra volta seduta sulla panchina la mattina scorsa.
Si limitò a respirare l'aria inquinata affacciata alla finestra e si trascinò a letto.
Si svegliò con il rumore della poltrona e maledisse ancora una volta la vecchia.
Si stropicciò gli occhi si scompigliò i capelli e soffiò sulla frangetta.
Poi corse nel suo studio a guardare ancora il quadro che aveva dipinto tutta la notte.
Era bellissimo.
La luce che filtrava tra i rami abbassati dal peso della neve donava una sfumatura grigia e azzurra al bosco e raffreddava l'anima.
Sotto al cavalletto, proprio davanti al quel grosso masso innevato sul ruscello che aveva posto in primo piano, una grossa pozza d'acqua rispecchiava i suoi capelli spettinati.
Carolina corse subito in camera da letto, alzò il cuscino alla sua destra e trovò il lenzuolo bagnato.
Carolina non se ne stupì.
Fece colazione come se niente fosse, si fece la doccia serena, quasi contenta, pensando solo a quella sua fotografia con Francesco che le cingeva la vita nel bosco del lago.
La cercò sul computer prima di andarla a pescare nella cesta delle fotografie.
Francesco ne faceva stampare sempre le più belle.
"Anche queste le abbiamo strappate all'oblio informatico", le diceva con un sorriso nel donarle le foto.
Quella che Carolina sognava sempre era bellissima. Francesco indossava una camicia a scacchi rossa e nera. Non le piaceva quella camicia, lo faceva assomigliare a un felice fattore texano, gli donava quell'aria ingenuamente country che secondo lei non concordava con la personalità di Francesco.
La trovò sepolta da mille immagini di una vita che non c'era più.
La tirò fuori dal cesto di vimini e la fissò intensamente.
Aveva in mente un nuovo quadro e rabbrividiva nel pensare a quel progetto.
Non mangiò neanche, prima di montare la nuova tela sul cavalletto.
Asciugò l'acqua sotto il quadro, preparò i colori, poggiò la fotografia nell'angolo in basso a destra della grande tela e cominciò a dipingere.
Dipinse e dipinse ancora per ore ed ore, bevendo acqua minerale e mangiando fette biscottate integrali e caramelle al miele.
Cercò per tutta casa un pacchetto di sigarette che teneva di scorta, lo trovò, lo aprì con rabbia e riprese a fumare continuando a dipingere.
Carolina amava dipingere con la sigaretta accesa tra le labbra. Adorava sentire il calore del filtro sulle mucose umide della bocca e il rivolo di fumo irritarle l'occhio.
Carolina non dipingeva mai figure umane seppure aveva un vero talento per i volti e i ritratti.
Ma lei semplicemente escludeva il genere umano dai suoi dipinti.
L'arte figurativa di Carolina si esprimeva nell'emozione della luce nei suoi paesaggi.
Stavolta mise tutta la sua maestria nel dipingere quel quadro che la raffigurava accanto a Francesco.
Fu tentata di cambiare la camicia a quadri rossa e nera, ma non lo fece.
Smetteva qualche ora per andare a dormire, si svegliava col rumore della poltrona della vecchia e ritornava nello studio.
Uscì due volte per comprare un pacchetto di sigarette.
Quasi si scordò di mangiare, di bere, di respirare, di pisciare, di vivere per quattro giorni.
Dormiva, fumava e dipingeva.
Poi finalmente, stanchissima, posò i pennelli.
Si allontanò dal quadro.
Aprì la bottiglia di whisky torbato e ne riempì il bicchiere mentre sgranava le pasticche di antidepressivi tra le mani.
Accese il computer, cercò l'album Meedle dei Pink Floid, trovò il brano Echoes e lo avviò dopo aver impostato la funzione "REPEAT".
Si sedette sulla poltrona davanti al quadro enorme che aveva appena terminato riempiendo bicchieri di whisky e mandando giù lentamente le pasticche.
Quando finì tutte e due le scatole di antidepressivi, si trascinò confusa e con fatica nel suo letto.
Si svegliò in una camera d'ospedale, con il bip del monitor che monitorava il suo cuore e tanti aghi e tubi e cateteri. E una faccia che la fissava.
"Ciao, sono tornato." le disse Francesco.
" Lo so" disse Carolina con un filo di voce.
E gli sorrise.
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