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Magnifico ribelle parte I

"Se un uomo non lotta per le sue idee, o non vale l'uomo, o non valgono le idee"
Platone





Fortezza di Pizzo Calabro, 13 ottobre 1815


- Ah, foudre (1)! Una commissione militare! A me, una commissione militare! E che, sono forse un brigante?- tuonò Gioacchino Murat, disgustato, gettando a terra una berretta di seta nera da casa (2) e facendo quasi rimbombare l'appartamento in cui era stato rinchiuso. Gli ufficiali borbonici che erano venuti a comunicargli quale sarebbe stato il suo destino, pur non riuscendo a comprendere le sue ragioni, non poterono fare a meno di sussultare, tanto quell'uomo era impressionante.
Gioacchino non era più un giovanotto. Qualche filo d'argento si mischiava al giaietto dei suoi ricci folti; il suo viso, pur piacente ed espressivo, era segnato dagli anni passati in guerra ed anche un po' provato dagli ultimi eventi, gravato dalla preoccupazione e graffiato com'era dalla lotta che aveva preceduto la sua cattura. Era ancora vestito a mezzo, con abiti borghesi che gli erano stati prestati: la sua alta uniforme dell'esercito di Napoli con cui era sbarcato era stata fatta a pezzi. Ma questi particolari diventavano insignificanti quando si considerava nell'insieme la figura imponente e come pronta a scattare, il portamento vigoroso ed elegante, l'aria ardita, il colorito tendente al bruno ora accesso dall'alterco, gli occhi fieri d'un azzurro limpido, quella criniera da Sansone, i baffi potenti, i grandi e lunghi favoriti. Aveva ben ragione di indignarsi; più che offeso, era ferito. Lo volevano processare da invasore, non da re! Ma cosa pensavano, che si sarebbe prestato a quella farsa, a quell'apparato scenico? Lo sapeva quanto loro, adesso, che lo volevano morto! Lo sospettava ancora prima di tentare di salvare Napoli! Nondimeno, era stato un ritorno che aveva dovuto assolutamente rischiare, perché non poteva abbandonare al suo destino un popolo che aveva imparato ad amare, non poteva permettere il ritorno dei Borboni e degli Asburgo in Italia. Le carogne, per di più, l'avevano incastrato anche formalmente: poiché il capo d'accusa imputatogli era quello di aver attentato alla sicurezza del regno, cioè violava una legge che aveva istituito lui stesso e che i Borboni, per la paura che tornasse, avevano evidentemente conservato. Volevano usare una legge legittima per la tutela del paese come mezzo per assasinarlo forse quel giorno stesso!
In altri tempi avrebbe ribaltato quei quattro ed era tentato di lanciarsi a briglia sciolta come spesso tendeva a fare. Ma ora non era il caso, rifletté amaramente, di trattarli male. Non perché fossero i suoi carcerieri, per di più ottusi come sassi e molto puntigliosi sulle procedure; ma perché erano i loro superiori, che li manovravano, che avrebbero avuto sulla coscienza un peso più grosso. Del resto non era più il tempo di prendere tutto di petto senza curarsi dei guai come faceva da ragazzo; soprattutto non era più un allegro scapolo scapestrato e impenitente. Lo scoppio di indignazione passò del tutto in secondo piano appena prese consapevolezza delle immediate conseguenze. La morte per lui non era nulla: ma l'idea improvvisa non vedere più Carolina e i loro figli gli tolse il respiro. Era impulsivo e un gran testardo, ma non era mai stato un avventuriero senza scrupoli e non era responsabile solo di se stesso, come padre di famiglia prima ancora che come re. Forse poteva trattare e tirarsi fuori di lì, fintanto che aveva la possibilità di un colloquio. D'altronde, valutò rapidamente, da quella fortezza da solo non aveva nessuna possibilità di fuggire; ma se fosse riuscito a persuaderli della colpa di cui stavano per macchiarsi, a trovare un alleato o un compiacente che chiudesse un occhio... Le possibilità erano minime perché ormai dubitava che quegli uomini, sia come ufficiali borbonici sia come italiani, l'avrebbero capito. Si rendeva conto che al di fuori degli intellettuali, gli italiani non erano entusiati all'idea di essere di nuovo dei sudditi dei Borboni, degli Asburgo e dei vari reucci, ma nemmeno avevano ancora una coscienza nazionale come avevano già dimostrato i tedeschi o i polacchi; insomma non erano pronti a ribellarsi. Rischiava di bruciare le sue possibilità del tutto, ma aveva il dovere di non lasciare nulla d'intentato. Perciò, poiché sentiva le lacrime pungergli gli occhi, prese tempo per ricomporsi e terminò di vestirsi con una marsina blu; poi fece segno agli ufficiali di seguirlo nell'altra stanza col pretesto di voler parlare del processo. Quindi per prima cosa tastò il terreno cercando di capire se fossero entrati nell'esercito durante il suo regno. Apprese che erano vi entrati qualche anno prima, quando egli aveva cercato di liberare la Sicilia (3) e che tutti dal ritorno dei Borboni non avveno fatto grandi scatti di carriera. "Tipico del vecchio regime; di sicuro adeso vanno avanti solo quelli che hanno avuto la fortuna di avere abbastanza quarti di nobiltà da entrare in accademia e da poter fare la corte al re, com'era una volta anche in Francia" pensò. Commentò quindi che sotto il suo comando era e sarebbe stato molto diverso. Era una pura constatazione, ma gli ufficiali si irrigidirono, prendendolo per un tentativo di corruzione. Lo incalzarono poi dicendo che essendosi la commissione già riunita ormai mancava che si presentasse per poter cominciare e che quindi doveva nominare un avvocato. Gioacchino, un po' perché sapeva che era un farsa e un po' per cercare di capire quanta fretta avessero di giudicarlo, fece il nome di un legale che abitava a Napoli e che quindi non sarebbe arrivato a Pizzo prima di qualche giorno. I quattro abboccarono e rivelarono le effettive intenzioni del governo borbonico: risposero che non si poteva accettare quella nomina perché non c'era tempo, secondo la procedura il processo doveva cominciare immediatamente. Gioacchino rispose che poiché era evidente che lo si voleva mandare a morte non avrebbe avuto bisogno di un avvocato, che non aveva intenzione di presentarsi perché non riconosceva il tribunale come competente, non avendo esso il diritto di giudicarlo (e pergiunta facendo finta, aggiunse tra sé) . Ribadì che non era un generale nemico e non avendo mai voluto arrecare alcun danno al regno di Napoli. Gli ufficiali allora tornarono a fargli delle domande circa il suo sbarco, a cui aveva già risposto per iscritto nei giorni precedenti. Allora però aveva cambiato furbescamente un po' i fatti, perché ancora sperava che lo lasciassero andare. Ma adesso non era più tempo di nascondersi; era arrivato il momento di protestare le sue vere intenzioni. Se avessero capito e l'avessero aiutato, bene. Se no, avrebbe affrontato il suo destino. D'altronde anche se che non era più re, era rimasto pur sempre un giacobino e anche quello temevano. Rivelò che non aveva mai rinunciato ai suoi diritti come re di Napoli. Ma gli ufficiali confermarono che riconoscevano come re soltanto Ferdinando. Allora Gioacchino giocò la sua ultima carta, cercando di far capire che dalla sua morte non avrebbero ricavato alcun vantaggio, anzi solo discredito su tutto il regno per una macchia irreparabile. Ferdinando doveva guardare all'esempio delle altre potenze, che dopo la sua sconfitta a Tolentino l'avevano lasciato libero; gli avevano perfino dato dei regolari passaporti e lasciapassare, come potevano verificare dalle carte requisitegli.

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