racconti » Racconti brevi » Attitudine
Attitudine
Le ho detto di entrare e di mettersi comoda.
Ero già ubriaco. Lei invece a prima vista mi è parsa completamente sobria.
Ma questo non è un problema perché ciò che davvero conta è che io abbia i sensi e la mente offuscati, non lei.
"Si può fumare qui?" Mi chiede. Le dico che si può, in realtà non ne ho la più pallida idea.
Non è la mia stanza questa.
Allora si siede sul letto, io sto su una poltrona mezzo scassata proprio di fronte a lei che armeggio con il treppiede. Faccio finta. Mi trovo in difficoltà, giro e rigiro le manopole senza un fine ben preciso perché in realtà sto guardando lei.
Infila una mano dentro la tasca del montgomery nero e tira fuori un pacco di Philip Morris, sfila una sigaretta e se la porta alla bocca. Sono istanti, sono secondi talmente fugaci che forse non dovrei vederli. Eppure le sue labbra che si aprono e poi veloci si richiudono attorno alla sigaretta, le piccole rughe che compaiono ai lati della bocca, i denti che intravedo appena, tutto quanto si scaraventa veloce dentro i miei occhi. Ha le labbra che rapiscono. Questo penso. E mi hanno rapito a tal punto che le mie si aprono insieme alle sue. Quando me ne rendo conto le richiudo subito e guardo in basso, guardo i miei piedi scalzi quasi come volessi nascondermi e nascondere quel gesto. Sono proprio ubriaco.
"Oh che stupida.. tu ne vuoi una?" Alzo la testa, la guardo. Si, la voglio. Ha tolto la sua dalla bocca.
Prende di nuovo il pacco che aveva lasciato sul letto e lo lancia verso di me. Alzo il braccio per prenderlo ma lo manco, si schianta contro il muro bianco alle mie spalle.
É allora che ride. Dice che qualunque cosa io abbia preso vuole prenderla anche lei.
"Non ho preso droghe. Ho solo bevuto..". Mi volto per raccogliere le sigarette, tengo il pacco stretto nella mano.
Poi mi alzo e vado verso l'unico mobile presente, di fianco al letto, prendo in mano la bottiglia e la allungo verso il suo corpo.
"Scusa, non ho bicchieri".
"Rum?" Ha un sorriso sorpreso "Ci vai giù così pesante?" Forse cerca di criticarmi ma subito dopo mi sfila la bottiglia dalle mani.
"Voi artisti.. Mai che tiriate fuori una bella bottiglia di vino rosso dai vostri armadi scassati. Sempre rum.. o whisky. Quasi come se il vino fosse qualcosa di troppo raffinato per gente che ha l'arte nella testa..".
Allora prende un sorso, dopo aver poggiato la sigaretta ancora spenta sul lenzuolo.
Resto fermo, con il culo poggiato sul mobile, a guardare la smorfia che compare subito dopo sul suo viso. Rido rumorosamente, quasi senza controllo. Un po' a causa dell'alcol e un po' perché mi va di ridere in faccia a questa donna che dice di non sopportare il rum ma intanto lo beve. Proprio come me.
Sposto lo sguardo. Prendo una sigaretta e butto il pacco sul letto. Lei beve ancora.
Le do le spalle così posso cercare l'accendino in mezzo ai rullini, le buste piene di fotografie, i molteplici posacenere, bottiglie vuote, carta, pennelli, matite e tutto il casino che regna sulla superficie di questo mobile.
"Hai cominciato a dipingere?" La sua voce mi ricorda aprile, quando c'eravamo conosciuti.
Quando sapeva usare ancora quel tono dolce e gentile mentre parlava con me, quando dalla sua gola uscivano solo note assonanti. Quando dentro le sue domande galleggiava quel punto interrogativo che vuol sapere, vorace, che cosa avrei potuto rispondere.
Adesso la sento così. Vicina, puntuale, interrogativa. Adesso è improvvisamente aprile, anche se fuori le strade sono bianche.
"No, niente pittura. Questa roba, i pennelli... non sono miei. Veramente l'intera stanza non è mia. Me l'ha lasciata un amico". Finalmente trovo l'accendino.
Prima accendo la sua sigaretta, poi la mia. Quante volte ho eseguito questo stesso gesto? Tante. Sempre la sua sigaretta per prima, perché le volevo bene. Perché volevo fosse lei ad avere il primo tiro, ad aspirare la prima boccata di fumo, volevo che fosse lei ad intossicarsi per prima. Basta. L'alcol può fare male se si fanno troppi pensieri. Non posso più pensare, non devo più pensare.
"Quindi non ti sei trasferito. Quando mi hai dato l'indirizzo ho pensato che avessi cambiato appartamento. Che è successo al tuo?"
"Al mio? Niente" Aspiro il fumo affamato. Butto fuori. Aspiro di nuovo.
"Allora perché siamo qui?" Ma si sente invadente. Improvvisamente ricorda chi siamo. O chi non siamo. "Va beh.. scusa. Non sono affari miei, non importa". Fa un tiro.
"Figurati. Siamo qui perché ho pensato che il mio appartamento fosse troppo pieno".
Mi sposto e vado di nuovo sulla poltrona. Fra le mie mani c'è un'altra volta il treppiede.
"Pieno? Pieno di cosa?" Un sorso di rum, un tiro di sigaretta.
Ci metto un po' a rispondere perché finalmente sto riuscendo a regolare per bene le manopole. Ma anche perché mi piace sentire il suo sguardo fisso su di me mentre aspetta impaziente le mie parole. É da tanto che non lo sento, è giusto che io approfitti ora.
É giusto?
Poi sollevo lo sguardo e incrocio il suo.
"Ricordi". Dico. Ma la voce non mi appartiene. É quella di un altro. É quella di uomo debole che non ho mai conosciuto. Dev'essere la voce del rum, perché la sento quasi come se fossi lontano.
Non riesce a sostenere lo sguardo, punta gli occhi sulla sigaretta quasi finita che tiene tra l'indice e il medio. Porta lo smalto sulle unghie. Perché porta lo smalto?
Lei non ha mai messo lo smalto. Blu. Lei non è una persona da smalto blu. Forse lo è da smalto rosso, si forse quello rosso. Ma non blu. Eppure adesso lo vedo.
Quel colore è uno schiaffo. Quello smalto che a momenti è un immagine sfocata mi ricorda che non è una ragazza da smalto blu. Perché l'ho sempre pensato?
Non la conosco. Non so chi sia. Forse è solo la sbronza, ma non so chi sia.
"Bene. Allora facciamolo" Arriva alle mie orecchie come un allarme.
"Dov'è il bagno?" Si guarda attorno mentre con la mano spegne la sigaretta sul posacenere. "C'è un bagno?" Non finge più di sorridere per rendere leggeri dei momenti che sono pesanti. Mi manca questa sua attitudine. Ma adesso è ora che io mi assuma tutta la pesantezza delle mie azioni.
"È dietro di te, sulla sinistra subito dopo la porta d'entrata".
Lascia il posacenere sul letto, si alza, posa per un attimo la bottiglia sul mobile e comincia a sbottonarsi il cappotto. Forse dovrei tenermi occupato, dovrei fare altro.
Ma non lo faccio, anzi mi metto comodo sulla poltrona a guardarla mentre lascio che la sigaretta consumi gli ultimi tiri da sola.
É bella e sa come sbottonarsi un cappotto.
Mi chiedo se abbia frequentato una scuola per imparare a farlo in quel modo, quasi come se dovesse svelare un qualche cosa.
Già.. come se ogni bottone aperto fosse un segreto svelato. Ma questo lo vedo solo io. Perché la voglio. Perché so che cosa c'è lì sotto. Io lo so. Già, conosco a memoria quello che sta li sotto, dunque perché non lo fa qui? Perché ha bisogno del bagno? Perché mi nega un tale piacere? Forse perché non è più mia. Forse perché non è vero che conosco il suo corpo, forse è diverso da quello che ho visto... come lo smalto! Forse il suo corpo non è rosa, ma blu. Come le sue unghie.
Si ferma di colpo al quarto bottone. Cambia idea.
"Vuoi che tenga addosso il cappotto almeno?" Mi rendo conto che è quasi una supplica e anche che ha avuto una buona idea dopotutto. Si, sarebbe meglio.
Non so per quale motivo non dico ciò che ho pensato.
"No. Meglio di no". Sorride ma lo fa quasi per dirmi che mi odia. Lo so. Ma ha accettato e l'artista sono io. L'ha detto no? É l'artista che decide.
Ricomincia a sbottonarsi, questa volta è molto più veloce e prima che io riesco a perdermi un'altra volta ha già buttato il cappotto sul letto.
Si dirige verso il bagno e porta con se il rum. Sono solo cinque piccoli passi.
Le sue gambe sottili che incrocia con apparente disinvoltura, i fianchi che si muovono appena quasi dolcemente e il rumore sordo degli anfibi che calpestano le mattonelle. Si muove a rallentatore.
Poi di colpo qualcuno inserisce la modalità veloce, così sparisce e sento la porta del bagno che sbatte. BUM. Io sulla poltrona dentro la stanza di un amico, vuota.
Ma c'era davvero lei? Per un attimo vedo la stanza girare.
Tutto questo è surreale.
É come se lo stessi immaginando. So che lei c'è solo per quel montgomery nero che giace sulle lenzuola bianche. Ma perché è qui? Quanto tempo è passato dall'ultima volta che l'ho vista? Mesi. Anni. Minuti. Solo secondi. Non lo so, ma che importa. Ho scoperto che il tempo è soggettivo ma non posso dirlo a nessuno. Crederebbero che mi sono fottuto il cervello una volta per tutte.
Mi sporgo leggermente fuori dalla poltrona alla mia sinistra per prendere la macchina fotografica. La guardo. Il respiro si ferma. Che diamine sto facendo? Immagino lei che fra pochi minuti uscirà da quel bagno. Posso riuscirci davvero?
Poi i polmoni si muovono di colpo e riprendono a immagazzinare aria, lo fanno da soli perché io dimentico che devo farlo. Dov'è la bottiglia di rum? Accidenti. Mi serve altro rum. Devo bere ancora. Non è abbastanza.
Lascio scivolare dolcemente la macchina sulla poltrona e vado di fronte al mobile, mi chino e apro con irruenza uno sportello. Dentro è stracolmo di carta colorata, fotocopie di disegni di ogni genere. Cosa me ne faccio della carta?
Apro un altro sportello. C'è una bottiglia di Vodka piena a metà, leggo l'etichetta, è al gusto di fragola. Odio le fragole. Continuo ad aprire tutti gli sportelli uno dopo l'altro finché non sono tutti quanti spalancati. Niente. Se non la Vodka.
Va bene, non è questo il momento di fare i vizi. L'afferro e richiudo tutto.
Rimango lì fermo e faccio un sorso. É questione di attimi e un forte senso di nausea mi pervade, sento che sto per vomitare. Viene fuori dal mio corpo un verso strano di repulsione. Lei lo sente, forse si spaventa.
"Ehi! Hai detto qualcosa?" No. Non ho detto niente. Non so se lo dico a voce alta o lo penso soltanto ma lei capisce e non fa altre domande.
Rinuncio. Non posso bere una tale schifezza, finirei per sentirmi male e manderei all'aria tutto. Lascio la bottiglia sul mobile, sfilo un'altra Philip Morris dal pacchetto e mi rimetto a sedere in poltrona. La fiamma dell'accendino da fastidio ai miei occhi.
Aspiro un enorme quantità di fumo, sembra che sia capace di calmare il respiro ma è un'illusione anche questa. Dura solo una frazione di secondo, poi affanno.
Sto perdendo il controllo. Vaneggio. Forse non dovevo bere la Vodka. Si, è quella che mi fa stare così male all'improvviso.
Stronzate. É la ragazza che sta chiusa dentro il bagno a bere rum. É lei la causa di tutto. É peggio degli effetti di una sbronza.
Si è tagliata i capelli ma solo di qualche centimetro, ora le arrivano poco sotto le spalle.
Sono così come li ricordavo, morbidi, ondulati, leggeri, scuri, che ricordano i rami e le foglie di un salice piangente. Non porta trucco sul viso, forse ha pensato io la preferissi senza. Si truccava sempre, un lieve contorno di matita nera intorno agli occhi.
Ora mi chiedo perché ha accettato la mia proposta, voglio chiederglielo. Voglio sapere qual'è il suo scopo e quali le sue motivazioni assurde. Si, perché so che saranno assurde, come tutte quelle che mi ha sempre dato. Come quando cercava di spiegarmi perché ammira le formiche o la ragione per cui non porta mai i tacchi.
Non la stavo a seguire, non capivo che importanza potessero avere simili dettagli.
Ho perso i suoi dettagli dunque e adesso voglio recuperarli attraverso l'obbiettivo di una macchina fotografica.
No. Per favore fatemi andare via di qui, fatemi scappare, non voglio più farlo.
Io non voglio vedere più, non voglio immortalarla, non voglio i suoi dettagli, non voglio la sua pelle, le sue gambe, i suoi piedi, i suoi ricci castani e il suo naso all'insù. Basta, ora mi alzo, busso sul legno e le dico di andarsene. Non posso farlo, le dico che ho cambiato idea, le dico che ho dimenticato di comprare il rullino.
Ti prego fa che sia un sogno, fa che sia un sogno, fa che io sparisca, ti prego fa...
Sento la porta, la maniglia si è mossa. Capisco che nessuno può fare niente al mio posto.
Tengo la sigaretta stretta tra le labbra, la stringo forte senza neppure accorgermene e appiattisco completamente il filtro. Non sento più aria passare attraverso la gola.
Devo essermi dimenticato di respirare di nuovo.
Tra quel cigolio e lei passano secondi che percepisco come mesi, anni, secoli durante i quali un Minotauro incazzato nero infligge su di me le peggiori torture.
Ma poi la vedo e mi rendo conto che le torture di un Minotauro, per quanto incazzato possa essere, sono niente.
La bottiglia di rum stretta tra le dita della mano destra è tutto ciò che ha addosso.
E tutto ciò che riesco a fare io è guardarla, immobile. É pazzesco.
Il mio corpo non esiste più come insieme di piccole parti; le braccia, le gambe, le dita delle mani, la testa, tutto quanto si è amalgamato in un unica materia che percepisco solo attraverso enormi pulsazioni. C'è una pressione fortissima che provoca spasmi al centro del mio corpo e li divulga per tutta la stanza. Ho paura che lei possa sentirli.
Ho caldo. Voglio dire qualcosa, ma non so se ho ancora una lingua.
Incredibile, l'ha fatto davvero ed io sto qui come un idiota a cercare di realizzare il fatto che questa non è la prima volta che vedo il suo corpo nudo. Questa non è la prima volta maledizione! Eppure è tutto nuovo.
É nuova questa sensazione di completo smarrimento, il caldo soffocante, il prurito dietro il collo, le mani sudate che scivolano sulla superficie liscia della macchina fotografica esattamente come è nuova la postura del suo corpo ed il suo sguardo deciso.
Ha mai avuto quegli occhi? Li ho mai visti mentre facevamo l'amore? Ho mai toccato davvero ogni suo muscolo? Ho mai notato quanto fosse abbagliante la sua pelle?
Voglio toccarla, voglio sentire i suoi capelli fra le mani e poter credere che esiste davvero, che è qui di fronte a me. Voglio dirle che è bellissima.
E basta. Voglio farla mia e ricordare che una volta eravamo felici. Io lo ero.
Lei... lo era?
"Vado bene così?" Non riconosco la sua voce, è diversa da quella di pochi minuti prima.
Avanza verso il letto. "Ho pensato di non usare trucco e di lasciare i capelli sciolti, al naturale. Se non ricordo male è così che ti piace fotografare le modelle, no?".
Si siede sul letto, poggia la bottiglia per terra, prende una sigaretta e l'accende, poi alza il braccio e si passa una mano tra i capelli. Accavalla le gambe.
Spengo la sigaretta per terra schiacciandola con il piede e mi rendo conto che non posso più stare in silenzio. Eppure la voce non viene fuori.
Allora comincio a sistemare la macchina fotografica sul treppiede.
Lei fuma. Io penso.
Non dovrei pensare. Prima ho pensato di non pensare, perché ogni volta che lo faccio mi rendo conto di quanto terribilmente tutto sia cambiato e per quanto possa fingere di amare le situazioni in continua evoluzione io odio il cambiamento.
Alzo lo sguardo per un attimo, sbircio il suo volto. Chi è?
Le mie mani tremano, ora mi chiedo in che modo lei può riuscire a tenerle immobili.
Mi accorgo di stare cercando qualcosa; sto cercando il senso di disagio che ci accomuna.
Non lo trovo, non c'è, non esiste. É una ricerca completamente inutile, lei non prova nessun disagio, nessuna vergogna, nessuna voglia di scappare, sta lì ferma che fuma la sua sigaretta con i seni scoperti e non tenta di nasconderli. Sta lì intenta solamente a buttarmi tutta la sua bellezza in faccia. Senza sconti. Lei non ha paura.
Ecco che percepisco di essere solo. Avrei voluto tanto scovare nei suoi occhi qualcosa di me, una piccola fetta della stessa paura che ho addosso, un ricordo, nostalgia, desiderio, vergogna, impossibilità, paura e ancora paura. Ma non c'è niente in lei che assomigli ora a ciò che è in me. Non c'è niente che io possa prendere adesso.
Ma.. allora perché è qui? Oh.. si, le foto.
Sto contando le sue vertebre. Una, due, tre, quattro, cinque, sei...
Scatto.
Una volta siamo stati in montagna. Nevicava forte. Eravamo lì in vacanza perché c'eravamo fissati di voler imparare a sciare. Per quanto ne sappia nessuno dei due sa sciare adesso.
La notte dormivamo in un hotel piccolissimo, non avevamo neppure il bagno dentro la stanza e la mattina i camerieri si dimenticavano quasi sempre di cambiarci gli asciugamani. Era un hotel da schifo, avrei potuto pagare molto di più per quella vacanza e se lei non avesse insistito tanto sono certo che non ci sarei mai rimasto per due intere settimane. Mi obbligò a starci dicendo che il luogo non era importante e che sarebbe stato divertente.
L'ultima notte dentro quell'hotel non facemmo l'amore. Mi disse che l'avremmo fatto la mattina dopo o la sera, o la notte seguente. Disse che voleva contare le vertebre sulla mia schiena. Disse che era importante conoscere perfettamente il corpo dell'altro, che sarebbe stato un errore sottovalutare quell'aspetto.
Una, due, tre. Non arrivò mai alla quarta. E poi? Chiedevo io.
E poi niente, poi non riesco più a vederle. Diceva lei. Riesco a contarle solo fino alle terza, poi si nascondono. Poi, non le vedo più.
Ora fa un gesto con la mano, piega le dita, le posa sui fianchi, le usa per arricciare i capelli.
Si mette di profilo, ferma, con una ciocca di capelli fra le dita. Le sue ciglia infinite. I suoi occhi lontani.
Scatto.
Era sempre così quando stava di fianco a me. Con una ciocca di capelli fra le dita e lo sguardo assente. Era così finché non le davo un colpetto sulla spalla o le chiedevo cosa le stesse passando per la testa. Niente. Non le passava mai niente per la testa.
Era sempre vuota. Ma allora non ho mai capito che una mente non è mai vuota.
Ho lasciato che la sua lo fosse. Niente, diceva. Le ho creduto. Mi è bastato credere al nulla.
L'ultima foto la scatto senza fare rumore. La scatto senza preavviso.
La scatto senza di lei. Ci sono solo il mio dito che preme sul pulsante, la sua schiena, i suoi capelli, una sigaretta e le lenzuola. Non sa che l'ho scattata.
L'ho fatto perché non sopporto più di vedere i suoi occhi, di vedere quanto è disinvolta.
Di vedere che fa tutto quello che le dico, di sapere che sta posando per me.
Non sopporto questa sensazione, non sopporto il fatto che lei non si sforzi di mettermi a mio agio. Non sopporto che sia lei a dovermi mettere a mio agio.
Allora le dico che può vestirsi, le dico che le foto sono venute bene, che è proprio brava ma il rullino è finito.
Finisce quell'ultima sigaretta poi va in bagno e quando torna ha di nuovo i vestiti addosso.
Non la guardo più, sono infastidito. Poggio la macchina fotografica sul mobile, butto un occhiata alla bottiglia di rum che sta sul pavimento ma è finito.
Merda. E adesso come faccio a farla andare via? Non la voglio!
Non c'è nessun bisogno che io faccia qualcosa, lei capisce ancora una volta, si rimette subito il cappotto e va verso la porta. La apre. Esce.
La seguo, tengo la porta aperta e guardo il suo viso.
"Allora.. io vado". Qualcosa impazzisce dentro il mio petto.
"Te ne vai? Non mi chiedi neppure di vedere le foto, quando le avrò sviluppate?"
Perché la mia voce è così fastidiosamente strozzata??
"Beh... no. Non mi serve. L'ho fatto per te".
Un senso di vuoto improvviso scava fra gli organi. I suoi occhi. L'ha fatto per me.
Ed io? Io per chi l'ho fatto? Perché l'ho fatto?
"Ciao". La sua voce è la melodia più bella che abbia mai sentito. Ciao. Ciao. Ciao. Ciao.
Vorrei ripeterlo all'infinito adesso in modo tale da evitare la sua scomparsa oltre la porta.
Forse sarei disposto a salutarla tutta la vita pur di non vederla scomparire dietro questa porta. Ciao.
Steso sul letto immagino di aver scattato le foto ad un manichino. Ad una statua.
É ciò che è successo poco fa.
Guardo il soffitto e mi pare di ricordare di aver scattato delle foto ad una modella sconosciuta. Una modella qualsiasi, una delle tante belle modelle che posano per me.
No, aspetta, non era solo una modella come le altre. Non lo era. Eppure lo era.
Perché mi ha fatto questo? Perché non ha voluto riconoscermi? Perché non ha riconosciuto ciò che ha passato con me?
É perché io le ho chiesto di essere la mia modella. É perché le ho detto che volevo scattarle delle foto. Ha solo fatto ciò che le ho chiesto.
Come sono stupido. Io le ho solo chiesto di essere la mia modella, il manichino vuoto che assume diverse pose a mio comando. Perché avrebbe dovuto vedermi?
Le modelle posano. Punto. E lei è la mia fottuta modella. Rido. Rido senza controllo su un letto sfatto da settimane. Non so neppure chi ci ha dormito su questo letto.
Rido perché non riesco a piangere. Rido perché in fondo sono un ragazzo divertente. Rido perché non so fare altro. Rido perché l'ho amata talmente tanto che ora mi manca il suo sorriso. Infondo lei non è stata altro che attitudine. La mia è stata una relazione con l'attitudine. La sua attitudine a rendere meno spiacevoli le situazioni che invece lo sono. La sua capacità incredibile di saper dire 'niente' nel mondo più naturale possibile e quella di accogliere i miei sorrisi e le mie battute fuori luogo quasi come se davvero io fossi divertente. La sua capacità di rendere piacevole l'inganno.
Ed io lo so... io so che è così sbagliato.
É così sbagliato. Eppure mi manca davvero tanto quella sua attitudine.
123456789
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0