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Non è colpa di nessuno
Passarono pochi minuti e la polizia era già sulla scena del crimine. Le auto erano in fiamme, la strada era crollata e nel fumo non si intravedeva nessun sopravvissuto. Non erano rimaste speranze nel trovar qualcuno vivo. I poliziotti facevano il loro lavoro mentre i pompieri tentavano di spegnere quel fuoco ardente. C'era ancora paura di qualche fuga di benzina che avrebbe potuto causare un'esplosione che in pochi secondi avrebbe ucciso tutti. L'ordine fu quello di spegnere prima tutte le fiamme rimanenti, ormai non avevano speranze di trovare ancora qualcuno vivo. Un vecchio ufficiale di polizia si rivolse a un sergente dicendo: "Ehi, sergente Evans! Dobbiamo andare via da qui, porti il culo sull'autoblindo." Evans era di spalle. Osservava la scena. Il camion con il quale era stato compiuto l'attentato. La strada che crollava a pezzi. Le auto distrutte, incendiate. I morti al loro interno non più riconoscibili. Le fiamme si erano nutrite della loro pelle e della loro carne, erano ancora fumanti.
Evans osservava un'auto in particolare. Una BMW Berlina. Al suo interno potevano essere scòrsi quattro corpi, ma i loro visi erano indistinguibili. Le fiamme avevano dato fine a quelle quattro vite e fra quelle quattro ce n'era una in particolare per il quale Evans osservava molto. Un tumulto partì dallo stomaco fino alla gola. Il calore salì e la testa scoppiò. Gli occhi cominciarono a farsi rossi. Evans cercò di trattenere le lacrime, ma fu tutto invano. Le lacrime scesero fino ad arrivare alla benda che portava intorno alla bocca. Quella BMW Berlina non aveva vita lunga. La comprò a suo figlio per la laurea al college e adesso era lì, morto. Non riusciva ad accettarlo, si illudeva che quello non fosse suo figlio ma dentro di se sapeva che lo era. Gli occhi di Evans si oscurarono, non vedeva più nulla. Non aveva bisogno di vedere o sentire nulla. Il pezzo più grande della sua vita era scomparso per sempre.
L'ufficiale si diresse vicino a lui: "Evans, ti ho detto che dobbiamo..." l'ufficiale vide le lacrime del sergente. Non disse nulla. Non c'era da dir nulla. Evans non riusciva né a muoversi, né a spostare gli occhi da quell'auto ma non si avvicinava ad essa. Non avrebbe mai avuto il coraggio di guardare il viso bruciato di suo figlio. Cadde in ginocchio. Poi posò il viso per terra e i lamenti cominciarono ad uscire dalla sua bocca. Non aveva sofferto mai così tanto, nemmeno quando perse sua moglie nel momento del parto. I medici riuscirono a far nascere sano e salvo il bambino, ma la madre non ce la fece. Da quel momento suo figlio David divenne tutta la sua vita. Gli dava più affetto da solo di quanto qualunque classica famiglia americana avrebbe potuto mai fare. Avrebbe preferito morire che sopportare quel dolore atroce.
L'ufficiale diede l'ordine di portare via Evans da lì. Scesero tutti per costringerlo ad andare via da lì. Sapevano che era sbagliato, ma sapevano anche che lasciarlo da solo in quella situazione sarebbe stato un errore. Ci vollero cinque uomini per costringerlo a salire sul camion. Evans era molto alto e aveva grossi muscoli, sarebbe resistito a qualunque dolore fisico. In quel momento era l'anima a soffrire, la sua era debole e sensibile.
Pianse per tutta la durata del viaggio nell'autoblindo. Dalla sua bocca però non uscì nessuna parola e lo stesso valeva per gli altri poliziotti. Proferir parola sarebbe stato del tutto inutile, proprio come l'attentato. Era tutto inutile.
Arrivarono alla caserma. "Evans, capisco come ti senti. Vai via di qui per questa giornata. Ti chiameremo noi quando avremo di nuovo bisogno di te. Non parlare, dammi solo la tua pistola. Non fare stronzate, so come ti senti." Il sergente non disse nulla, diede la sua pistola e andò via dalla caserma. Tornò a casa a piedi anche se era molto distante dalla caserma. Le lacrime non scendevano più, riusciva a trattenersi. Il pensiero del figlio era fisso in testa.
Arrivato a casa non fece altro che stendersi sul letto e fissare il soffitto. Le lacrime cominciarono a scendere quando i ricordi del figlio gli apparvero davanti agli occhi. Era strano come da un momento nella vita non riesci più a vederci un futuro. Evans si addormentò, quella scena, quei pensieri lo avevano stancato troppo. Fuori pioveva a dirotto mentre trentadue vittime di un insulso attentato avevano perso la vita quel giorno. I colori americani si spensero in quella città, ma la gente continuava a fare quello che aveva sempre fatto.
Un chilometro dall'appartamento di Evans c'era un uomo, in una casa con gli scuri chiusi. Nella casa non trafilava nessuna luce.
Era seduto su una poltrona. Indossava un impermeabile e un cappello in feltro. Portava occhiali a forma rotonda che gli davano l'aria da uomo astuto. Alla sua sinistra c'era un labrador nero di sei anni. Dieci anni prima divorziò con la moglie, due anni dopo morì in un incidente ferroviario. Un uomo ubriaco la gettò volontariamente sui binari nel momento esatto in cui passò il treno. Aveva un'unica figlia di trentatré anni. E quella stessa figlia era morta quel giorno, in quell'attentato. Clark era il suo nome ed era un ispettore di polizia. Aveva cinquant'anni compiuti da poco. Con la morte della figlia Alysha, l'unica cosa che gli era rimasta era il suo labrador, Clint.
Accarezzava la testa del cane mentre il suo sguardo era perso nel vuoto. Il cane gemeva, sentiva il dolore di Clark. Cercò di trattenere le lacrime, ma si accorse che era del tutto inutile. Non trovava più nulla di utile in quella situazione. Era tutto così stupido. Aveva lavorato in tanti casi, anche di omicidi ma non aveva mai sentito quell'angoscia. Non era mai riuscito a capire come si sentissero i familiari delle vittime. Certe cose non le capisci fino a quando non le provi sulla tua pelle. Tutti ne parlano: televisione, poeti, filosofi ma nessuno sa cosa vuol dire veramente perdere un figlio finché non si prova il proprio dolore sulla propria carne.
Quel giorno passò, Clark non si era mosso dalla sua poltrona. Evans si svegliò peggio di come si era addormentato. Non aveva sognato nulla. Cercò di tirarsi giù dal letto, quando lo fece provò un forte dolore alla gamba destra. Non riusciva a camminare, zoppicava, quasi crollava a terra. Cercò di arrivare ad una sporgenza sul quale appoggiarsi. Pian piano cominciava a sentire di nuovo la gamba tornare nella sua perfetta forma. Nella sua carriera di poliziotto ne aveva affrontate tante. Lì in America è difficile essere un membro delle forze dell'ordine. Bisogna avere le palle di uccidere, di fare qualunque pazzia senza paura. Evans ci era riuscito. Ma non aveva mai pensato a chi uccidesse. A quale uomo morto di fame che per dar campare alla famiglia era pronto a morire. No, la polizia non ci pensava. Non doveva pensarci. Dovevano fare solo il loro lavoro e nulla di più.
Evans si affacciò alla finestra. Vide il suo volto riflettere sul vetro, i suoi occhi. Li vide rossi come non mai. Passò la mano sul vetro della finestra e chiuse i suoi occhi. Dalla sua bocca uscì un urlo sovrumano. Urlò tantissimo. Urlò come se non ci fosse stato un futuro. Poi scaraventò un pugno nel vetro che si spezzò in mille pezzi. Si tagliò la mano. Usciva tanto sangue. Provava compiacere in quel dolore, a vedere il sangue rosso che scorreva dalla sua mano. Chiuse la finestra per non far bagnare dentro casa. Cercò un po' di carta per fermare la fuoriuscita di sangue che continuava a gocciolare per terra.
Mentre Evans continuava a cercare la carta per asciugarsi del sangue, Clark si svegliò. Era ancora lì sulla poltrona e il cane non si era mosso. Era rimasto lì di fianco a lui senza lasciarlo solo nemmeno un secondo. Guardò l'orologio per sapere che ore erano. Erano le 4:50 del mattino, dentro e fuori da quella casa non aveva smesso di piovere.
Si alzò dalla poltrona. Si sentiva le ossa a pezzi, era rimasto nella stessa posizione per troppo tempo. Il cane si alzò insieme a lui e si stiracchiò le zampe dopodiché guardò Clark con i suoi grandi occhi neri. Clark se ne accorse e un leggero accenno di sorriso apparve sulla sua bocca. Il cane abbaiò.
Non aveva nutrito il cane per un giorno, così gli preparò da mangiare. Il cane era contento, continuava a guarda Clark come se mangiare e dormire non contasse più nulla. Mangiò felice e Clark aspettava che finisse per poi ritornare alla poltrona. Si sedette su di essa e cominciò a pensare. Dall'altra parte Evans si stese sul letto e fissava il soffitto. I due pensavano - o provavano - ma i pensieri erano troppo confusi. Era impossibile accettare la morte dei loro figli. E cosa avrebbero fatto senza di loro? Che senso avrebbe avuto continuare? Le lacrime cominciarono a scendere ad entrambi... e anche il cane emetteva lamenti.
La mattina seguente i due si recarono al dipartimento. Evans stringeva nella mano destra ancora ferita il distintivo di polizia. Clark stringeva con la sinistra il collare del cane. Avevano entrambi le idee chiare. Non avrebbe avuto senso continuare a lavorare per la polizia. "Alla caserma ci hanno sempre insegnato che dobbiamo accettare la realtà così com'è per non avere paura di essa. Perché solo adesso capisco che è una grossa stronzata?" pensò Clark.
Evans aveva la faccia di suoi figlio stampata davanti agli occhi, non riusciva a smettere di pensarlo nemmeno un secondo. Arrivò al dipartimento e la prima cosa che fece fu quella di andare nell'ufficio del capo dipartimento. Non bussò nemmeno alla porta e entrò.
"Cazzo, Evans. Si bussa prima di entrare!" Lo aveva beccato con una dipendente "conosciuta" in tutto il dipartimento.
"Allora, Evans, cosa vuoi? Ah, condoglianze per quello che è successo ieri."
"Voglio licenziarmi, ho capito che questo lavoro non fa per me."
"Evans ma tu sei sempre stato uno dei migliori! Non puoi dire così! Non puoi lasciarti abbattere! Capisco come ti senti, ma questa scelta mi sembra esagerata! Se vuoi prenditi un periodo di pausa, massimo un mese e non di più."
"Ormai è tardi. Con me le cose non miglioreranno di sicuro. Non avete bisogno di me, non sono un eroe e non voglio esserlo."
"Non posso contraddire la tua scelta, ma almeno puoi spiegarmi perché l'idea di questa tua scelta?" Evans non rispose nulla. Posò il distintivo da sergente sul tavolo e oltrepassò l'uscio da quella porta. Nel momento in cui uscì dal dipartimento, Clark era già dentro. Evans disse addio per sempre al suo lavoro e alla sua vecchia vita.
Clark bussò alla porta del capo dipartimento, ed entrò.
"Diamine, Clark. Ti ho sempre detto che non voglio animali nel mio dipartimento!"
"Mi scusi, comandante." Il comandante intravide il distintivo nella mano di Clark.
"Diavolo... nemmeno il tempo di posare quello di Evans e anche tu vuoi andare via? Ma cosa cazzo vi sta passando per il cervello?!"
"Evans? Evans... il sergente che...? Oh mio Dio..."
"Sì, anche Evans ha perso un figlio nell'attentato. Mi puoi spiegare cosa vi sta passando per la testa ad entrambi? Fate parte dei miei migliori uomini, cosa posso fare per non farvi andare via?"
"Comandante, quello che proviamo non può essere spiegato se non provato sulla propria pelle e quello di cui abbiamo bisogno, è irrealizzabile. Continuare è tempo sprecato, proprio come il resto della nostra vita rimanete. È stata un'esperienza magnifica lavorare in questo dipartimento, ma tutto finisce prima o poi." Clark uscì dalla caserma e il comandante continuava a non capire.
Quel giorno si svolgevano i funerali delle vittime. Evans, anche se aveva forti origine cattoliche, scelse di seppellire suo figlio senza cerimonia. Nessuno si oppose contro la sua volontà. Il telefono, il cellulare continuavano a squillare. Sapeva che erano i parenti, ma non voleva avere loro notizie. Sapeva che le loro condoglianze sarebbero valse inutili. Sarebbero passati per il camposanto solo per un giorno e poi sarebbero tutti tornati a continuare la loro vita.
Sulla tomba di suo figlio non c'era scritto nulla oltre che "David Evans", la data di nascita e di morte. Si sedette accanto alla tomba. "Figlio mio, spero che in questi anni della tua vita, io non ti abbia mai fatto mancare nulla. Non mi riferisco alla BMW Berlina che desideravi da tempo, quella non vale nulla. Mi riferisco all'affetto che tua madre non ha potuto darti. Non ti ho mai parlato in questo modo quando eri... vivo. Adesso me ne pento. Nessuno mi ha mai sentito parlare in questo modo, sono stato stupido a non aprirmi con te. Tutto per colpa della mia carriera da poliziotto. Mi hanno mutato la mente. Non pensavo ad altro che a svolgere il mio lavoro, però tu eri sempre al primo posto dei miei pensieri. Mi dispiace che tu sia dovuto morire così. Spero che questi pochi anni della tua esistenza, siano stati cari e belli e pieni di vita." Disse Evans ad alta voce. Non gli importava di quelli che gli stavano attorno. Forse lo avrebbero giudicato pazzo ma pensava: "è più folle perdere la vita in giovane età o parlare con un figlio che rimane sempre nel proprio cuore?" La risposta la conosceva bene. Si alzò in piedi. "Ah, cazzo! Questa gamba non regge proprio più. Mi sto facendo vecchio, figlio mio. Beh, almeno ti raggiungerò presto. Credo che un'aldilà ci sia o forse mi sbaglio. Qualunque cosa sia, prima o poi ti raggiungerò."
Evans si diresse all'uscita del camposanto. Vide una tomba con una bandiera americana poggiata su di essa. Ce n'erano trentuno. Una dietro l'altra. Fu incuriosito e si diresse in mezzo alla gente. C'era gente che piangeva. Vite spezzate e madri quasi morte dal dolore. Padri che non possono trattenere le lacrime. E fratelli che tanto si odiavano, or com'ora si amavano. Il tempo è sprecato.
In mezzo a quelle povere anime, Clark si accorse della presenza di Evans che però non si ricordo di lui. Clark era in mezzo alla folla, non si trovava in divisa in mezzo agli altri uomini del dipartimento nemmeno per l'ultima volta. Era lì in mezzo alla gente, sapeva che fra lui e loro non c'era differenza. Erano tutti rimasti soli. Così, si diresse accanto a Evans. Il labrador era sempre insieme a lui ed era buono anche in mezzo a tutta quella gente.
"Condoglianze, sergente Evans. Mi dispiace per ciò che è accaduto a suo figlio."
"Oh, grazie... non ho ricordo di lei. Lavorava nella mia vecchia caserma?"
"Lavoravo. Ero ispettore da tanti anni in quel dipartimento, proprio come lei era sergente. Il comandante mi ha riferito del suo licenziamento."
"Ho dovuto farlo. Perché lei si è licenziato? E sopratutto, perché si trova qui? Non mi dirà che..."
"Mi son licenziato perché non ho trovato motivo per il quale andare avanti, signor Evans. Son qui con lei proprio per lo stesso motivo per il quale lei si trova qui."
"Dio... condoglianze signor...?"
"Clark. Mi chiamavano così alla caserma."
"Non so se lei se n'è accorto ma, ho preferito svolgere un funerale privato."
"Sì, mi è stato riferito."
"Bene... senta, Clark, io adesso devo proprio muovermi."
"Arrivederci signor Evans."
Evans non volle continuare a parlare, non riusciva a trattenere le lacrime e così preferì andar via. Clark, cominciò a piangere di nuovo proprio nel preciso instante in cui Evans girò le spalle.
Evans era stanco, era tanto stanco, troppo stanco. Cominciò a bere, ma non voleva farlo diventare un vizio. Bevve tutta la scatola di birre per tutto il pomeriggio. A fine giornata si mise a letto, non riusciva a pensare a nulla. Si addormentò dopo poco tempo. Continuò a non sognar nulla.
Clark, invece tornato a casa lesse tanti libri di poesia. Struggenti, deprimenti, con argomento principale la morte. Non smise di leggere, fino alle tre del mattino. Era avvolto dalla lettura, gli faceva dimenticare tutto ciò che riguardasse la realtà che lo circondava. Quasi dimenticava di dar da mangiare a Clint.
Clark si addormentò. Fece sogni confusi. Riguardavano le poesie che aveva letto. Era di sua abitudine svegliarsi presto al mattino e alle sei, senza suono della sveglia, si svegliò. Notò l'orario, continuò a dormire. Fuori pioveva. In quel periodo la pioggia non voleva proprio lasciar in pace quella città. Evans era sveglio, fuori ancora doveva sorgere il Sole. Gli piaceva quell'aria oscura che proveniva da fuori. La città non era del tutto vuota. C'erano i primi uomini che andavano o tornavano da lavorare. Si ricordò di lui di quando tornava alle otto, dopo le sue dodici ore di lavoro. Era stanco, ma era bello posare il capo sul cuscino senza un pensiero così angosciante. Tempo sprecato, solo tempo sprecato, pensava.
Un fulmine colpì la città, nel riflesso del vetro gli sembrò veder suo figlio. Voleva tanto voltarsi e vederlo lì. Non si sarebbe spaventato. Si voltò e non c'era altro che il vuoto.
Passò una settimana, come passano i secondi, i minuti e le ore, con tanto vuoto fra essi. Le cose non erano cambiate molto. I due continuavano a non lavorare, ma Clark volle tornare alla caserma per chiedere contatti con Evans.
"Voglio il suo numero."
"Ma, non posso dartelo per questioni di privacy. E poi perché lo vuoi?" domandò il capo del dipartimento.
"Evans mi ha colpito. Ci troviamo nella stessa situazione, voglio parlargli."
Il comandante sospirò. "E va bene. Solo perché sei un ex ispettore e hai lavorato a lungo per noi."
Clark voleva chiedere il numero ad Evans dalla prima volta che lo vide al funerale. Non esitò a chiamarlo.
"Evans, sono Clark! Come sta?"
"Clark? Come hai avuto il mio numero? Ah, la caserma. E meno male che la privacy era rispettata."
"Spero che non la disturbi. Che ne dice di una cena insieme?"
"Non so, Clark" sospirò "Forse sì. Cominciamo a parlarci senza smancerie. Ti farò sapere più tardi." Evans chiuse. Non voleva più avere rapporti con le persone. Ma Clark si sentiva solo. Più solo di tutti, l'unico con il quale poteva non essere solo e che poteva capirlo era solo Evans.
I due cenarono insieme in un ristorante all'italiana.
"Qui preparano roba buona."
"Non è quello che mi interessa." rispose Evans.
Si sedettero ai loro posti. Nessuno dei due cominciava una discussione. Avevano parlato soltanto per ordinare. Si prospetta una lunga serata, pensò Clark.
"Che lampi e tuoni. Questo tempo non lascia proprio in pace la città nell'ultimo periodo."
"Già, da giusto una settimana." Evans era freddo, sembrava che preferisse rimanere in silenzio. Il silenzio per lui era importante. Durante le operazioni più difficili, rimanevano tutti in silenzio. Non doveva sentirsi nemmeno un respiro. Per Clark invece era importante parlare, discutere. Assassini, testimoni facevano parte del suo vecchio lavoro e con loro si facevano gran belle discussioni e quando qualcuno era colpevole, le cose si facevano ancora più divertenti. Già, mi manca di già il mio lavoro, pensò Clark.
Le prime portate arrivarono. Erano tutti piatti all'italiani, dopotutto il cuoco veniva dal Bel Paese.
"I condimenti italiani mi piacciono parecchio. Che ne dici, Evans?"
"Mmmh..." Evans non riusciva ad assaporare ciò che mangiava. Non riusciva a nascondere l'odio che stava provando per il mondo. Clark, invece non odiava il mondo e quella sera anche se depresso come al solito, voleva nascondere nei meandri più bui del suo cuore quello che era accaduto, solo per quella sera. Ovviamente non ci riusciva, e Evans non gli dava di certo un aiuto. Non era colpa di entrambi.
Dopo la seconda portata, Evans esclamò: "Cosa cazzo ci faccio qui?! Perché mi ci hai portato?! Cosa vuoi da me?! Cosa volete tutti voi da me?! Lasciatemi in pace, vi prego!"
"Ehi Evans, abbassa la voce. Andiamo via subito. Pago il conto e andiamo via da qui." Clark pagò in fretta il conto e portò fuori Evans che sospirava, sudava. Il suo colorito era diventato pallidissimo e camminava zoppicando a causa della gamba ancora ferita. E per non mancare, fuori pioveva e si diressero velocemente all'auto.
"Mi dispiace, Evans, non avrei dovuto portarti qui. Avremmo dovuto fare una semplice passeggiata. Perdonami, Evans."
"Vecchio, non preoccuparti. Non è stata colpa tua, lo hai fatto con semplice innocenza e credevi di farmi un favore. Non riesco più a stare in mezzo alla gente e non ne capisco il motivo. Quasi piango..." Le sue lacrime scesero e arrivarono fino all'aspro e folle sorriso che ricopriva la bocca.
"Figlio mio perdonami, perdonami di tutto, ti prego."
"Cazzo, Evans! Tu non hai fatto nulla! Non è stata colpa tua e nemmeno mia. Evans, non è colpa di nessuno, nemmeno di loro. Questo è un mondo folle. Io e te ne abbiamo viste di follie, ma non le abbiamo mai provate sulla nostra pelle fino ad una settimana fa. Poiché ci sembrava tutto così normale, non ci faceva nessun effetto. No, nessuno di quei poliziotti sono grandi uomini. Fanno solo il loro sporco lavoro, senza ragionarci troppo sopra."
"Non è nemmeno colpa loro, tu lo sai. Non è colpa nemmeno di coloro che hanno compiuto l'attentato. Chissà quali poveri disgraziati hanno fatto saltare quel cazzo di autoblindo. Forse loro avevano provato le stesse cose."
"Non è colpa di nessuno."
Clark spinse il piede sull'acceleratore e cominciò a viaggiare. Viaggiarono per tutta la notte in nessuna direzione. Continuavano a viaggiare senza una metà, senza un futuro. Non sapevano cosa avrebbero fatto e nemmeno cosa provavano. I pensieri, i sogni confusi, cattivi e malati e folli non si potevano scacciare. Tutta una vita che sembrava sprecata. Ma anche una vita sprecata, ha un senso. Tutto ha un senso. Forse il loro doveva ancora arrivare.
Viaggiarono per tutta la notte, per tutta la US Route 101 fino ad arrivare a Los Angeles.
"La città degli Angeli... paradossale" disse Evans.
"Già, peccato però che la Terra non è un posto per gli Angeli. Dio se li chiama tutti a se. Ci fai caso? Tutti i Demoni rimangono qui, mentre gli Angeli, i nostri Angeli vengono chiamati dal Signore."
"Sei cattolico? Si sente, porca troia."
"Tu non lo sei? Sai, tu sotto sotto hai la faccia di quegli scrittori del 900'. Hai una grande intelligenza, anche se eri un semplice sergente di polizia."
"Ehi, io almeno quando non c'erano casi non mi chiudevo nell'ufficio. Ho sempre fatto il mio lavoro."
"Perché eri costretto a farlo. Io leggevo libri. Amo i libri, mi riempiono d'anima. Nessun hobby, te?"
"No, ma da ragazzino mi piaceva bere. Ho sempre amato bere. Poi sai, incontri la donna della tua vita e cadi ai suoi piedi. Pensare che la persi in un modo così stupido. Morì durante il parto. Te? Tua moglie?"
"È morta. Un ubriacone la lanciò sui binari."
"Ah, cazzo. Cazzo... ubriacona? Merda..."
"No, non preoccuparti. Dopotutto eri un semplice ragazzino. Penso che quell'uomo era tanto disperato da sfogarsi uccidendo mia moglie. Ovviamente, capitò lei per caso come poteva capitarci chiunque altro. I manicomi dovrebbero riaprire."
"E se non fu un caso che lì ci fosse tua moglie? E se fosse dovuto accadere così? Tutto è così strano. Io, poliziotto, che da ragazzino sognava diventar un musicista."
"Musicista? Amo la musica classica. Io da ragazzino invece ho sempre desiderato scrivere poesie. I poeti hanno qualcosa che gli umani non hanno. Sai, in te quella cosa ce la vedo."
"Non tutti i poeti sono coerenti a ciò che scrivono. Io non sono coerente a ciò che pensavo. Prima che perdessi mio figlio non avrei mai creduto di avere tanti rimpianti nel passato. Adesso ascoltami, cominciò ad avere fame. Meglio che andiamo a far colazione."
Si diressero ad un bar che aveva aperto da poco, erano le otto del mattino e i due erano i primi clienti. Ordinarono entrambi uova e bacon.
"Roba americana, meglio di quella italiana" disse Evans.
Dopo aver fatto colazione, i due ritornarono in auto e andarono in giro per la città. Non c'era altro che gente che andava a lavorare. Che correvano assonnati per non far tardi al lavoro. Adolescenti sotto le scuole che aspettavano l'apertura dei cancelli per poi entrare e subirsi le urla dei professori stressati dalla loro vita. Avevano scelto la retta via nel loro percorso, ed erano solo più tristi di prima.
"Guarda questa gente. Credi che sia felice?" domandò Evans.
"Non lo so. Tu eri felice prima che lasciassi il lavoro?" rispose Clark.
"No, non credo proprio." ci rifletté.
"Anzi, forse mi facevo solo preoccupazioni inutili." disse Evans dopo cinque minuti dall'ultima risposta.
"Del tipo?"
"Del tipo di arrivare vivo alla fine del servizio. E tu, Clark? Eri felice?"
"Ero felice quando pioveva e non avevamo nessun caso da svolgere. Rimanevo chiuso nel mio ufficio a leggere e scrivere poesie. Sì, mi piacevano tanto quei giorni. Quando invece mi toccava lavorare, mi domandavo cosa ci facessi io nei panni di un ispettore."
"Credi che gli altri la pensano allo stesso modo? Nel senso, dentro di se sanno che qualcosa non va?" domandò Evans.
"Non credo proprio. Nelle caserme i poliziotti non fanno altro che giocare e giocare per nascondere l'odio di se stessi e del mondo intero."
"È stupida come cosa, Clark."
"È stupido anche il fatto che noi ci stiamo perdendo tempo a discutere. Torniamo a casa?"
"Sì, torniamo a casa."
Durante il viaggio i due non dissero nessuna parola. Clark quasi si addormentava, era stanco. Aveva guidato per una notte intera. Accostò sull'autostrada e Evans gli fece cenno di cambiare posto in quello del passeggero. Avrebbe guidato lui. Clark si addormentò in un sonno profondo e si risvegliò sotto casa, sulla sua poltrona come se tutto non fosse mai accaduto. Ma sapeva che non era stato un sogno.
C'erano ancora delle nuvole, nelle quali però riflettevano i raggi del sole. Era uno spettacolo magnifico, per Evans. L'ombra che diventava luce. Sì, gli piaceva.
Passò un po' di tempo in cui i due non si videro né sentirono. Il dolore non era scomparso. Evans preferiva stare solo, mentre a Clark bastava il suo labrador Clint. Ogni giorno era un'agonia, smettere di pensare i propri figli sembrava impossibile. Evans sopratutto, stava per arrivare all'esaurimento. Trovò compassione nell'alcool e di notte cominciava a diventare aggressivo. Cominciava a camminare avanti e indietro per la sua casa e quando era troppo stanco sbatteva sulla prima cosa che gli capitava dinanzi e dormiva.
Clark invece aveva una sensazione di vuoto incolmabile. Nemmeno le poesie riempivano quell'enorme spazio vuoto. Non usciva più in giardino a giocare con Clint. Non c'era più senso in nulla.
Uno di quei giorni come tanti, il telefono di Clark cominciò a squillare. Non squillava da più di tre mesi, e l'ultima persona che lo aveva chiamato era Evans.
"Pronto?"
"Clark, sono Evans."
"Oh, Evans. È da tre mesi che non ti fai sentire. Cazzo, anche io non mi faccio sentire da tre mesi è solo che..."
"È solo che le giornate sono troppe vuote, vero amico mio?"
"Sì, amico mio. Sono talmente vuote che mi chiudo io stesso dentro di me e fuori non conta più nessuno... forse nemmeno Clint conta più nulla."
"Ehi, non dire così! Tu hai lui! Lui ti vuole un gran bene, non devi perderlo mai, okay? Ti ama ed è ciò che conta adesso. Non sei solo."
"Nemmeno tu lo sei, Evans."
"Invece lo sono Clark, lo sono... ascoltami, è stato un piacere sentirti, veramente ma adesso devo proprio scappare. Ciao, Clark." Evans riappese senza nemmeno ascoltare la risposta di Clark.
"Qualcosa non quadra" pensò Clark. "Forse è solo una mia sensazione." Tornò a leggere le sue poesie fino alla notte, poi si addormentò.
Era la solita cosa di sempre, la solita scena. Clark addormentato e alla sua sinistra Clint. Si addormentò con un libro sulle ginocchia. Aveva il volto pallido causato dall'enorme stanchezza ma non aveva tante rughe. Aveva la bocca chiusa e gli occhi serrati dolcemente, come se rilassati. Non russava ma dalla bocca uscivano ogni tanto dei sibili. La mano destra era posata sul libro e il braccio destro sul bracciale della poltrona. Si addormentava sempre con la testa attaccata allo schienale, ma durante la notte il suo collo si piegava dolcemente a sinistra. Dormiva come se il sonno fosse stato l'unica cosa sensata che gli fosse stato rimasto. Quella notte sognò uno sparo forte e doloroso e la un urlo acuto di un uomo innocente che chiedeva aiuto.
Erano le tre e ventidue di notte quando il telefono squillò. Era sorpreso, ma pensò che forse era Evans che non riusciva a dormire. Rispose:
"Pronto? Chi è?"
"Lei è il signor Clark, ex ispettore di polizia?"
"Sì, lo sono ma lei chi è che fa queste domande?"
"Nell'ultimo periodo ha avuto notizie dell'ex sergente Evans?"
"Sì, oggi. Abbiamo parlato per poco tempo, dopo tre mesi che non avevo sue notizie. Ma lei chi è?"
"Signor Clark, Evans è stato trovato morto nella sua stanza. L'ipotesi è che sia stato un suicidio con un colpo di pistola."
Clark non rispose. In quel momento non ci fu altro che vuoto.
"Pronto? Signor Clark, è ancora in linea?"
"Sì." Rispose con una voce vacillante. "Adesso devo andare, grazie per avermi informato sull'accaduto." Chiuse la chiamata.
Tornò a sedersi sulla sua poltrona, mentre Clint lo osservava con occhi preoccupati. Sapeva che qualcosa non andava, avrebbe fatto di tutto per aiutarlo.
"Clint... amico mio, ti rendi conto? Anche lui è andato via. Forse è stato meglio così, amico mio. Soffriva troppo, non aveva nessuno. Ho sbagliato, ho sbagliato troppo. Non avrei dovuto lasciarlo solo, avrei dovuto chiamarlo." Tentava di sfogarsi con il cane che era sempre lì ad ascoltarlo. Le sue lacrime scesero fin terra. Cadevano come erano cadute le vittime di quello stupido attentato. Com'era caduta sua figlia, com'era caduto il figlio di Evans e come era caduto Evans. Sapeva che un giorno sarebbe caduto anche lui. Prima o poi saremmo caduti tutti. E sai qual è la cosa divertente, Clark? Non è colpa di nessuno.
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