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Il caffè delle sette

Un caffè in vetro, grazie. Tutte le mattine entrando al "Bar del Conte" ripetevo la stessa frase, anche se ero assonnato e poco lucido. Avevo preso l'abitudine di bere il caffè nel bicchiere di vetro da mio cognato. Mio nonno, buonanima, mi spiegava che il caffè va bevuto nella sua tazzina, che essendo doppia mantiene meglio il calore e il caffè ha un sapore migliore. Ma i buoni consigli non si ascoltano mai. In verità in quale contenitore fosse il caffè la mattina alle sette era l'ultimo dei problemi. Il caffè era una scusa. Per arrivare a quel bar facevo anche un giro più lungo e regolarmente facevo tardi al lavoro. Dietro la macchina da caffè, con la mano appoggiata al braccio, c'era Romina, la moglie del Conte (il padrone si faceva chiamare così ma non era conte). Era di statura media, grandi tette e occhi neri. Portava i capelli sciolti sulle spalle e vestiva sempre con delle ampie e profonde scollature. Alle sue spalle c'era un grande poster con una spiaggia lunga e con la sabbia bianca. Ogni volta che la guardavo ricordavo le parole di una canzone: "vieni in Tunisia c'è un mare di velluto", ed io sognavo. Su quella calda sabbia, all'ombra di una palma, bevevo il mio caffè che ormai era freddo. Il conte era alla cassa, Romina sorrideva e io sospiravo.

 

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