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Marta
L'ho presa in mezzo agli altri piccoli, sembrava quella che avesse più bisogno di cure, tuttavia mangiava e mi dava l'idea che quel lieve raffreddore sarebbe passato. Si fece prendere subito. Dapprima non capì le mie intenzioni, si allontanò di poco appena mi vide, qualche passetto avanti, la raggiunsi con uno scatto e la misi nel trasportino. La portai in casa e la tenni nel bagnetto, con noi c'era anche Giulietta l'altra mia gatta e non potevo farle stare insieme.
Stette con noi nel breve soggiorno a Bolsena: amava salirci sulle spalle, girava intorno al collo, si accoccolava, guardava incuriosita, si sporgeva oltre per guardarci negli occhi, anche quando era a terra la prima cosa che cercava era il nostro sguardo, sapeva stranamente riconoscere la parte su cui concentrare le attenzioni per chiedere compassione, carezze e tanto affetto. Ho pensato di chiamarla Marta come una delle due isole al centro del lago. Mi era sembrato un nome bellissimo, le si addiceva.
Era dolce come pochi gatti avevo avuto, ci voleva sempre con lei. Appena ci allontanavamo, si arrampicava: ovunque; io cercavo di starle il più possibile vicino, di accontentare la sua smania di coccole, ma era incontentabile, voleva sempre che qualcuno le stesse accanto. Chiusi Giulietta, nell'altra stanza, e la liberai nel salotto. Cercava di arrivare sul punto più alto: su per lo schienale della poltrona e ancora di più, salendo sul collo di Claudio per affacciarsi, come se stesse su una sporgenza sospesa agli occhi, tanto agognati: guardando e miagolando come se supplicando, chiedesse qualcosa. Questa sua debolezza la renderà poco incline alla dura battaglia che l'avrebbe attesa.
Ritornati a Roma, la portai il giorno seguente dal veterinario; mi disse che bisognava seguire una lunga cura, non dava per certo che sarebbe guarita ma come al solito pensavo lo dicesse per non illuderci nel caso non ce l'avesse fatta; nella remota ipotesi pensavo io. Mattina e sera le facevamo inalare il medicinale, ma i miglioramenti erano solo parziali, perché il male era incombente, aveva voglia di mangiare, ma non ci riusciva da sola così, mi attrezzai con una siringa. Sembrava andasse meglio, la facevo mangiare abbastanza. Poi una violenta ricaduta, la sera al rientro. Respirava faticosamente con la bocca, pensavamo che non avrebbe passato la notte, la portai immediatamente dal veterinario la mattina seguente. Le diede una cura più forte, lei mi guardava sempre implorante, chiedeva aiuto, aveva uno sguardo liquido, trasparente, sembrava un angioletto smarrito che cerca il calore di un altro essere.
La malattia stava avendo la meglio, i suoi piccoli polmoni non reggevano il faticoso compito che dovevano svolgere, erano sempre più deboli, meno capaci di liberarsi di una morsa sempre più stretta. Io speravo, non mi davo per vinta. La mattina aveva dato segni di ripresa, ma quando il pomeriggio arrivai e la vidi mandare aria ai polmoni con sempre maggiore fatica, le speranze stavano svanendo. La misi nella mia camera avvolta nella coperta, sopra di me, in attesa di un piccolo segnale di miglioramento, ma niente. Decido di riportarla dal veterinario: é sempre più smarrita, le fa tre iniezioni, resto con lei, in attesa; la supplico di farsi forza, la avvicino al mio collo e lei ricade su di me con abbandono, fa sempre più fatica a respirare, la riporto a casa credendo ancora che ci sia una possibilità di farcela. Penso che il medicinale farà effetto, ci vuole tempo.
Peggiora, Claudio è con lei mi chiama, sta male, troppo, io decido di andare immediatamente, ma lui me lo sconsiglia, non è un bello spettacolo, mi dice, ma vado lo stesso. Entro in camera la vedo distesa, inerme, respirare a malapena, Claudio mi porta fuori e mi abbraccia è affranto quanto me, gli dico che non doveva andare così, non si può soffrire in quel modo, se l'avessi saputo prima... , Vado fuori all'aria aperta, rientro sento due miagolii fortissimi, troppo forti, urla di chi non ce la fa più, di chi sta per morire d'agonia. Claudio mi aveva detto di restare dov'ero. Io non ci volevo credere, non ci potevo credere: sta facendo quello che è giusto fare ma che pochi avrebbero il coraggio di mettere in atto, un atto di misericordia. Poco dopo decido di rientrare ma sono bloccata, ho paura di varcare la soglia della stanza, lo sento, piange, piange disperato, non ho il coraggio di abbassare la maniglia della porta, aspetto che apra lui. Lo vedo, adesso davanti a me, vedo la sua espressione dolente; l'ha fatto, lei è avvolta nel plaid, sembra quasi non ci sia niente là sotto, talmente è piccola, minuscola. Riposa in pace ora, finalmente. Abbraccio Claudio, gli do conforto, deve esser stato terribile, terribile.
Ho intenzione di chiamare mio padre per spostare il corpicino, ma Claudio, no, vuole farlo lui. Io sto fuori dalla stanza e osservo i movimenti lenti che seguono: la scopre la bacia amorosamente, di nuovo, un'altra volta, tira su col naso, piange, si toglie la sua di maglietta e la avvolge in essa, con cura, la bacia ancora intensamente, la ripone in una scatola, piega il plaid dove stava, se vuoi lo possiamo buttare gli dico mi fa cenno di no, lo ripone nella cameretta. Rientra, mette l'asciugamano sopra di lei. Decidiamo di sotterrarla dietro casa. Mi metto in cerca di una paletta per scavare, decidiamo di fare una buca all'altezza del muro, Claudio inizia a tirare via la terra, è dura, ma lui non perde la calma, io scanso la terra più in là per fare spazio all'altra. Prende la piccola Marta la posa delicatamente, come se fosse una piuma, la adagia sul terreno, la accarezza un'ultima volta e inizia a metterle la terra a strati, strati di terra come zucchero a velo che le ricade sopra. Riposa in pace piccola, starai meglio altrove, penso, ci sarà tutto quello che vorrai nell'altro mondo.
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- Scritto assai bene, il racconto evidenzia con delicatezza l'amore nei confronti di una gattina e i tentativi per salvarla.
Ciao.
Oissela
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