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Pensiero da scrivania

Il mouse mi trascina in un vortice, il puntatore ultrarapido mi picchietta docilmente sulla testa, lo schermo luminoso mi fa l’effetto di mille bong stappati a kingston: occhi rossi, fulminati, pupilla dilatata, bruciore e vista ridotta; mi chiedo quale possa essere l’effetto a livello cerebrale. Mi discosto un istante dal diciassette pollici ultrapiatto a ridotte emissioni di luci accecanti e ruoto la testa di 360 gradi senza muovermi, mi sento gufo diurno. Ringrazio gli dei: è una giornata di sole, che per un metereopatico come il sottoscritto è dolce morfina; emetto un sonoro crac con entrambe le caviglie, troppo a lungo costrette alla paresi, mentre con nonchalance abbasso non poco il nodo della pessima cravatta corporativa, colore di fondo blu e striata di tutte le varianti dell’iride, assumendo uno stile post punk che poco si addice al luogo. Giusto il tempo di ossigenarmi, dare ai miei oleosi polmoni un’illusione di benessere, da cancellare alla prossima lucky strike. La radio, senza ombra di dubbio un ottimo strumento di comunicazione (apparentemente meno discarica della tivì), in questo ambiente ha poco mordente su di me, sintonizzata su una frequenza che mai e poi mai mi sarei sognato di regalare alle mie orecchie. Sono in minoranza e taccio, com’è raccomandabile in questi casi, mentre giochicchio nervosamente con il lobo dell’orecchio sinistro, ripensando a quanto ancora non mi sia adeguato alla malattia che mi ha contagiato, la responsabilità di una professione.
Gli obblighi di chi entra prepotentemente nella fase di vita che conduce alla pensione sono questi, anche per chi ha sempre rinnegato tutto ciò, adducendo mille efficaci e futili motivazioni: impossibile congedarsi dalle mollezze di una vita agiata, in cui si ha solo chiesto e dato poco rispetto a ciò che si ha ricevuto dal fato.
Indosso un abito di sartoria, gessato, bellissimo, dono inutile di mia madre, santa donna, rimasta basita alla notizia della mia assunzione prematura, inaspettata. L’ho accettato ipocritamente, sorridendo con la mia miglior dentatura, ben sapendo che stavo indossando la divisa tragica di un condannato a qualcosa cui ci si abitua, che si inizia ad apprezzare, che rimpingua il primo conto corrente della vita, che risparmia da serate di delirio. È dolce il nuovo arrivo in un mondo di assuefatti al cartellino (chiedo scusa, al badge), ai fogli elettronici, al caffè annacquato di una macchinetta che un simpaticissimo grassottello coetaneo tenta inutilmente di sistemare due volte la settimana.
Non ho resistito, non sono riuscito a ritrarmi a quei sorrisi diabolicamente accomodanti, che mi hanno offerto sicurezza economica, formazione, esperienza, ampie possibilità di scintillante carriera: ho detto sì senza pensarci, mi sono offerto sull’altare del progresso di un’azienda gerarchica, piramidale, in cui al momento ricopro la figura dei paria di Calcutta, i fuori casta, coloro alla mercé di chiunque.
“È pronto il pdf della presentazione” esclama tonante e salvatore il collega dell’isola di scrivanie soleggiata: io ne sono il tramite, mi faccio carico del fardello, lo archivio in una cartella dal nome inserzionistico: “AAAAAAAA”. Non capisco come, ma è il primo della lista. È la puttana più calda, più vogliosa, chissà più o buon mercato. Tutti provano piacere mille volte al giorno grazie a questa dispensatrice di favori in codice binario. Io imparerò a farlo.

 

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3 commenti     1 recensioni    

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1 recensioni:

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  • Samuele il 17/09/2013 14:00
    Hai una capacità di collegamento tra le varie sequenze del testo eccezionale. Riflessioni e descrizioni sono ben collegate e anche i dialoghi. Poi il testo è descritto minuziosamente. Solo una cosa: quel "giochicchio" non mi piace molto.

3 commenti:

  • A. Barbara Di Stefano il 01/05/2007 22:17
    ... sono pochi quelli che possiedono il lavoro che hanno sempre sognato di fare... e sono pochissimi quelli che possiedono un lavoro...

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