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Giulio e Romeo

I fantasmi di Verona hanno sempre mantenuto relazioni di pacifica convivenza con la popolazione residente. Nati dal genio di William Shakespeare, essi vivono sotto i ponti dell'Adige, nei solai delle case antiche, nelle sale rinascimentali del museo di Castelvecchio. Sono fantasmi che badano ai fatti loro, non hanno problemi di trapasso come i fantasmi del Louvre, non sono spacconi e pericolosi come i fantasmi americani di Ghostbusters, nemmeno sono dispettosi come certi fantasmi praghesi. Non che siano pacifici e tranquilli. I fantasmi di Verona sono tuttora suddivisi in Montecchi e Capuleti, che ancora oggi si combattono in una faida cominciata cinquecento anni fa. È una lotta intestina che non riguarda e non coinvolge la popolazione residente. Come dire: ognuno bada ai problemi suoi senza interferire con quelli degli altri. Come dire: voi mortali avete lo spread, avete l'Equitalia, la mafia siciliana, le spiagge sovraffolate, la camorra, l'inquinamento da mucillagine, la mafia di certi palazzi romani. Noi fantasmi abbiamo le nostre faide. Noi di qua, voi di là, voi sapete che ci siamo, noi sappiamo che ci siete, tutto sommato non c'è alcun motivo per pestarsi reciprocamente i piedi. Non vorrete mica aprire uno sportello di Equitalia anche qui da noi?

Il secolare equilibrio tra fantasmi e cittadini della città di Verona rischiò di andare all'aria un paio di anni fa. Tutto ebbe inizio al mattino di una giornata ventosa, quando, trovandosi sul Lungoadige Porta Vittoria, nei pressi del palazzo Lavezzola Pompei, il fantasma di Romeo venne investito e trapassato da un foglio del Corriere della Sera, che una folata di vento dispettosa aveva scippato dal giornale che leggeva un pensionato. Romeo gettò una rapida occhiata alla pagina del giornale: si parlava di lui. Allora bloccò la pagina sotto la ruota di una moto parcheggiata lì nei pressi, si sedette sul marciapiedi, inforcò gli occhiali (da un paio di secoli è astigmatico) e si immerse nella lettura.
Gli articoli che lo riguardano non sono affatto rari, anzi. Romeo ne aveva letti migliaia, in decine di lingue differenti. Una volta, sbirciando la rivista nelle mani di un turista seduto al bar, Romeo notò un articolo sul suo conto in lingua giapponese. Pare fosse la recensione del dramma recitato a Tokio. Romeo non ha mai imparato bene la lingua giapponese, quindi la sua attenzione si concentrò interamente sulle immagini. C' erano foto a colori degli attori, panoramiche del pubblico stipato nel teatro, la foto di una incantevole Giulietta dagli occhi a mandorla, vestitino rosa a fiori bianchi, coppe del seno piccole e graziose, scarpine basse e leggere, calze a righe bianche e rosa. Romeo pareva un samurai votato al harakiri, una cosa molto buffa, che fece crepare dal ridere l'autentico Romeo.
L'articolo che leggeva Romeo nella storia che stiamo raccontando non faceva affatto ridere. C'era poco da ridere. Romeo accartocciò con rabbia il foglio del Corriere, serrò il pugno con tanta forza che la pallottola di carta si rimpicciolì a dimensioni atomiche, allungò il braccio nell'atto di lanciarla nel fiume. Ma Romeo non gettò via la carta appallottolata, la fissò con profondo disprezzo, poi se la mise in tasca.
Romeo volò defilato dal padre. Lo salutò con un lieve inchino, gli allungò la pagina del Corriere tutta spiegazzata, attese in piedi l'inevitabile indignazione paterna. Il buon vecchio Montecchi lesse molto in fretta, forse troppo in fretta, quindi restituì la carta al figlio con un sorriso bonario. Possibile che il figlio ancora si stupisse dei liberi adattamenti dell'opera shakespeariana?

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