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Il corridoio di specchi
Rara dolcezza della vita! Gli aguzzini che mi avevano imprigionata seppero strapparmi, nonostante le mie suppliche, le mie continue richieste di non farlo più, urla di terrificante forza e altre espressioni di dolore con le loro severe mani e la loro arte raffinata che sapeva scaraventarmi fuori dai piaceri abituali: i dolci piaceri in cui nuotavo tutto il giorno.
Sotto le loro cure sputavo più saliva che lacrime. La soluzione ai quei dolori non erano che i piaceri successivi, amplificati e grandiosi, che mi avrebbero dilettato con la loro forza mortale e piacevolissima. E durante la tortura, potevo ripetermi: finir, finir e poi ti daranno da mangiare, da dormire su morbidi cucini, e tutto il resto. Avrei avuto infatti sempre grandi lussi ogni giorno, grandi piaceri, le migliori bevande da bere. E si veda in quei piaceri e in quelle voluttà solo il significato di un principio di magnifica durezza: “C’è speranza dopo la tortura!”. La mattina mi si avvicinarono gli aguzzini mentre io ancora mi crogiolavo tra bottiglie di champagne e cuscini e altre meraviglie di lusso.
Scesi dal divano-letto e mi preparai e entrare nella sala torture, che mi aveva accolta tante volte.
Ma proprio vicino alla stanza asettica e brillante che mi ricordava le ore di quella vita densa di sofferenza, la vita che mi aveva ospitato e che avvinceva e distruggeva nelle sue varie forme di sottile strazio, feci il gesto. Proprio davanti alla terribile stanza ebbi il fulmine di coraggio, come una scarica elettrica, un impulso magnetico. Una scioltezza, una velocità nei movimenti inconsueta, mi fece rizzare la schiena: afferrai una spranga di ferro che di solito usavano contro di me e colpii il primo di loro. L’altro cominciò a cercare di fermarmi, ma colpii anche lui. E ora picchiavo i corpi svenuti dei due aguzzini ed ero come pazza. Maledivo tutto e tutti urlando, e quando arrivarono i due “guardiani” colpii anche loro con una specie di furia paurosa, e li atterrai come gli altri.
Poi scappai, scappai dalla stanza e attraverso il lungo corridoio di specchi che portava alla porta del castello, e uscii dal grande lucido portone, e l’aria aveva qualcosa di morbido, e di fresco, e potevo correre e camminare e gridare nel bosco che circondava quel posto. I due maledetti mi avevano rapita da una carrozza che mi portava alla mia villa di campagna, avevano ucciso il cocchiere e la domestica, e mi avevano portata nel loro squallido castello, per sei mesi; non c’era motivo alle loro torture; evidentemente era puro sadismo. Ora la felicità e la libertà erano più grandi di quanto ricordassi e avevano un’aria più splendida ancora, perché erano inaspettate, dolci e umide. Velocemente venni uscendo dalle tetre parti del castello e mi immersi in un bosco che, per quanto tetro potesse sembrare, era in realtà meraviglioso perché costituiva la mia libertà. La mattina splendeva nella sua massima forza. La disperazione del castello e i suoi corvi neri apparvero un’ultima volta, lontani, da uno scorcio tra gli alberi, e poi sparirono per sempre. Passarono, credo, le undici, chiare e aperte. Ero stupita da quell’improvvisa apertura del mondo, bellissimo e asciutto, con speranza di universi, di sole e di nuvole nel cielo azzurro. In quella grande giornata bianca il coraggio si impadronì di me. Oceani di coraggio, speranza, progetti! Si, si, vieni qui, futuro! Devo sorridere alla mia gloria, e…spessi e tremolanti raggi di sole ridevano per me. Venne il pomeriggio: l’anima del bosco aveva qualcosa di grumoso e umido, e ancora mi aggiravo senza una meta. Smisi di pensare al castello, piansi abbondanti lacrime di liberazione, lacrime stupite, lacrima dopo lacrima di riscatto, e infine mi asciugai gli occhi e mi guardai intorno, pensando alla nuova vita che mi attendeva.
Avevo ora una forte energia e molta vita. Il cervello era leggero come una piuma, ma lavorava a viva forza, e benché nuotasse in una stupita contentezza, era continuamente percorso dai brividi dei miei terribili ricordi.
Qualche ora, mi sembra, stagnai in quella situazione, e mi nutrii di alcuni frutti bianchi che sapevo commestibili, e mi sedetti sotto un albero per una mezz’oretta, sentendomi improvvisamente esausta.
Il cuore guardava al futuro e cercava di distaccarsi dall’animo, distrutto come un bosco privo di uccelli e volpi e chiuso dalle erbacce polverose dei rampicanti, che avevano lasciato sei mesi di assurda schiavitù. La mente analizzava la freschezza del pomeriggio e si preoccupava che la notte non mi prendesse tra gli alberi. Ebbi la forza di rialzarmi senza addormentarmi, e anzi mi accorsi di poter andare anche più veloce. Dopo un po’ era chiaro che andava inquietandosi anche il cuore, cominciava a battere forte come un tamburo preoccupato: perché ancora non uscivo da quel bosco infame? Non dovevo riposarmi, e seppi afferrarmi alla flebile speranza di uscire di lì entro sera, e di essere vicina a un villaggio. Dal battito di cuore che avevo dentro, sapevo di avere un timore fisico a rimanere in quel bosco. Mi terrorizzava ma mi induceva anche ad andare più veloce, benché temessi di correre e girare in tondo. Nulla poteva fermarmi tranne la notte; ma speravo di uscire prima del tramonto, perché una notte nel bosco una cosa terribile da non augurare a nessuno, e se ci sono i lupi, fatale.
Era cos: il corpo aveva ancora forza, e ancora andava avanti nel fango, nella desolazione del bosco senza termini; ma il panico si impossessava di me man mano che scorrevano le ore.
Non mi rendevo conto se dovessi mangiare o no, stranamente, non avevo ancora fame. Il sangue scendeva e saliva, mentre passavo tra quegli alberi così simili. Erano tutti uguali, sempre! Gli uccelli erano sempre gli stessi. La loro voce aveva sempre lo stesso tono, come quello triste delle cicale, come il ronzio delle mosche, delle api, che altre volte mi aveva rallegrato. Speravo che qualcuno di quelli che visitano i boschi o qualche cacciatore mi scoprisse. O che quei botanici esploratori che vagano per le foreste si distraessero dai loro vegetali e si accorgessero di me. E alla fine, mi videro.
…Che felicità! Avere avuto la paura della notte e del bosco fino all’ultimo, ed essere raccolta al tramonto da un paio di provvidenziali forestieri.
Quando mi videro, cercavo di appoggiarmi a un tronco per riprendere fiato e mi guardavo intorno con disperazione. Andavo stringendomi nelle spalle per il freddo come un pulcino (non avevo granché di abiti addosso, solo qualche veste molto leggera). Ma il loro cuore forse aveva sentito il mio, e si erano avventurati passeggiando proprio da quelle parti. Avevano in mano i fucili della caccia, ma sembravano lì più per chiacchierare che per sparare a qualche scoiattolo. Stavano parlando di qualcosa, quando girarono la testa e, come due esploratori che abbiano trovato una città nella giungla, mi guardarono con gli occhi spalancati e lucidi.
Lì per lì il mio cuore sussultò, un attimo prima per la gioia, subito dopo per il timore che si trattasse di gente perversa o comunque poco raccomandabile. Ma il loro abbigliamento bonario da contadini innocui, la loro espressione bonaria e sinceramente, quasi ingenuamente stupita, avevano qualcosa di troppo tranquillo e genuino per lasciarmi in quel timore. Potei risollevarmi, e, tornando nella gioia più completa, mi lanciai verso di loro, sporcandomi fino alle ginocchia in una profonda pozzanghera di fango, gettando a terra il bastone che avevo preso per camminare, fino a giungere davanti alla buffa coppia.
Vidi la loro espressione cambiare da stupore in timore quindi in meraviglia, e spiegai loro brevemente di essermi persa nel bosco e se potevano indicarmi un modo per giungere al villaggio più vicino. Un’espressione tranquillizzata e sorridente si impresse sui loro volti. Mi dissero che stessi tranquilla, che era tutto passato e che ora mi avrebbero portato in un posto asciutto.
…La gravosa necessità di dormire veniva invadendo tutte le mie arterie, e mi sarei buttata per terra se non avessi trovato quei due simpatici salvatori.
…Percorremmo una lunga strada che io osservai concentrata per un po’, poi mi girai verso un bellissimo tramonto e mi godei le nuvole rosse e arancioni. Tutti i discorsi che riuscirono a fare quei due, li ho dimenticati. Sembravano imbarazzati dalla mia presenza, e tentavano di tutto per conversare amabilmente tra di loro o con me. Le prime stelle, che annunciavano la sera, mi fecero fare un sussulto, ma poi le guardai con gioia, come il premio per un successo, poi con una forte felice malinconia, e infine ricominciai a guardare dritta davanti a me.
…Avevo un sonno tremendo ma resistevo, perché ero sfuggita due volte quel giorno a una morte terribile e insensata, quando avevo rischiato di essere presa dalle guardie del castello, e quando avevo rischiato di restare di notte tra gli alberi (e probabilmente tra i lupi). Guardai l’uomo alla mia sinistra: il suo aspetto scomposto e un po’ insoddisfatto lo rendeva più simpatico, più allegro e tranquillizzante per il suo volto impacciato e un po’ goffo. Avevo sonno e la massima voluttuosità della vita, in quel momento, mi pareva essere un semplice giaciglio.
…Ma era facile abituarsi alle ombre e anche alla stanchezza, e continua a camminare come un automa.
…Quanto amai le luci del villaggio, quando le vidi apparire come una terra promessa dagli alberi del bosco che finiva! Feci internamente un salto di gioia e credo che mi espressi anche in uno stanco sorriso; ormai non potevo più sopportare gli alberi, né quegli uccelli illogici, né quei maledetti scoiattoli che raramente si vedevano qui e là. Avrei voluto baciare e abbracciare i miei accompagnatori, se solo ne avessi avuto la forza.
…In quel momento, per, la notte stagnava tristemente sulla mia gioia e sul mio spavento. Avevo perso il conto del tempo e mi chiedevo se fossero le dieci o mezzanotte. Mi sentivo sgonfia, sbrindellata, come una marionetta vecchia e umida, e la pelle dura e secca come il legno. I due uomini si dovettero rattristare a vedermi così stanca, e mi misero una maglia sulle spalle, dicendomi che eravamo quasi arrivati. Vidi e sentii il villaggio, le strade, le voci, le luci, e tutto tornò per me in uno stato di suprema felicità. La casa dei due uomini aveva davanti un albero privo di foglie, con i rami lunghi come dita scheletriche e il tronco basso, orribile come una zampa rapace e scarna. L’aria dolce e fresca della sera, sembrava essere più immota e ferma del solito vicino a quell’albero, e dunque vicino alla casa, ma l’immagine, la sagoma, la luce di una casa, quindi di un giaciglio amico, fu la cosa che fece vibrare tutte le più soavi corde del mio cuore.
…Vidi la porta aprirsi e dietro una donna, che parlò e gli uomini le spiegarono tutto, e lei voleva sapere di più ma loro tagliarono corto e dissero che ero stanca, di prepararmi subito un letto e farmi dormire, e domattina di farmi un’ottima colazione. La donna si mosse rapida brontolando ma poi mi sorrise dolcemente e mi accarezzò una guancia con una mano liscia liscia. Sembrava che le facessi tenerezza e mi fece il letto sorridendo, poi se ne andò, uscì dalla stanza, come per pudore, e tornò quando mi fui spogliata e messa a letto, per vedere che tutto stesse a posto. Di lì, nella stanza con la luce, c’erano i due uomini; la donna chiuse la porta e sentii loro che dicevano di sapere che era un disturbo e poi uno dei due disse di parlare basso per non disturbarmi. Bisbigliarono a lungo con tono abbastanza concitato, evidentemente si stavano ri-raccontando tutta l’avventura per filo e per segno. Poi mi addormentai come un ghiro col sorriso sulle labbra, e sognai di essere sotterrata sotto terra, nella terra del bosco, da un uomo che era anche un mezzo albero. Io sapevo solo implorarlo di non uccidermi, ma lui voleva uccidermi, e aveva una voce terribile, criminale e raschiante.
Mi svegliai la mattina dopo, saranno state le nove; la donna sentì che mi ero alzata, e venne subito, mi diede vestiti nuovi. La ringraziai profusamente. Si schernì e mi disse che non era niente, e mentre mi serviva una colazione principesca mi indusse a raccontare la mia storia. La mia aria turbata, evidentemente, la attribuì solo allo spavento del giorno prima, e mi chiese se ero andata a passeggiare nel bosco per divertimento o per andare a trovare qualche parente a un altro villaggio. Io fui lenta a rispondere, poi dissi (non me la sentivo di raccontarle subito la terribile verità) che in realtà mi ero allontanata dalla carrozza per fare quattro passi, e poi, chissà come, mie ero persa e avevo vagato tutto il giorno.
Le frasi di incoraggiamento sereno e bonario che mi diede mi fecero capire che non credeva molto alla mia storia, ma che non le interessava approfondire oltre. Evidentemente era tranquilla e aveva compreso che non amavo…che non me la sentivo ancora di dirle tutto…Mi rilassai, e ripresi a mangiare.
Mi sembrò strano che non volesse sapere altro, e prima che finissi uscì un momento di casa per alcune compere. Cominciai a sentirmi molto meglio, poi mi alzai, andai davanti a uno specchio lì vicino e, trovandomi orribile, cercai di sistemarmi e di pulirmi come meglio potevo. Dopo un po’ rientrò la donna, che, vedendomi indaffarata allo specchio come una modella, dovette comprendere chiaramente il mio tentativo di riassettarmi un po’ e disse gentilmente che ora mi avrebbe aiutato a pulirmi e a rifarmi della brutta avventura…lo disse, così, con un sorriso rosso che aveva qualcosa di ambiguo.
…Nel loro bagno mi venni rimettendo in sesto, mi lavai, mi asciugai, mi rimisi i capelli a posto e alla fine la donna disse che ero bellissima, davvero perfetta. E, con quelle mani lisce e quasi ossute che aveva, si mise sorridendo a preparare il pranzo, e poi uscì ancora e rientrò per chiedermi quando e come volevo tornare a casa e avvertire i genitori. Pranzammo (aveva un sapore squisito quella carne), e io le spiegai, che in realtà abitavo piuttosto lontano, e avremmo dovuto andarci a cavallo.
La donna disse che non c’era problema, si consultò di nuovo con i due uomini, e in un batter d’occhio, come fossero esperti di quelle esperienze, mi caricarono su un cavallo. Cominciammo a galoppare e ci infilammo in quel bosco in cui si orientavano perfettamente e che a me sembrava tutto uguale.
La mia pur presente agitazione e irrequietezza, di tornare a casa dopo tanto tempo, era di mille volte inferiore a quella che avevo provato anche solo il giorno prima.
…Per quanto detestassi l’immobilità, la fermezza, la secolarità vegetale del bosco, quel giorno dovetti sorbirmene un bel po’, e senza tregua, mentre cavalcavamo silenziosamente tra quelle schiere identiche di alberi. Ci che accadde dopo, incredibile e arciterribile, differiva da ogni possibile aspettativa del mio animo, così tranquillo e dissimile dal vero animo dei miei accompagnatori. Gran parte della mia tranquillità scomparve quando rividi il castello con i corvi dallo squarcio nel bosco, e un panico indicibile si impossessò di me, un panico urlante, imprevisto, quando girammo una curva e ci dirigemmo silenziosi verso quel castello.
…Quel colpo di scena aveva dell’assurdo e del terribile in tale misura, che impiegai alcuni secondi per reagire. Poi urlai e strillai e cercai di scendere, e vivevo solo per fuggire da l, ma quelli sembravano pronti a tutto e seppero tenermi ferma con una maestria e un’esperienza di lunga data.
…E allora, la donna bussò al portone lucido, e un uomo dal volto ben conosciuto aprì la porta, posò la ciotola di ciliege che aveva in mano, e getto con un colpo sicuro alcuni soldi alla donna, che gli disse che “ne avevano presa un’altra”. Poi gli uomini scesero tenendomi con le mani dietro la schiena come una prigioniera, quale in effetti ero, e mi buttarono in quel maledetto corridoio di specchi distorti che introduceva al castello e da cui avevo creduto di fuggire per sempre. La disperazione più nera era nella mia anima! Ora sapevo, sapevo la verità, sapevo che i due uomini e la donna erano al soldo degli uomini del castello, che probabilmente tante volte avevano riportato lì fuggiasche come me, ma, a differenza della prima volta, sapevo anche, conoscendo gli aguzzini e i loro piaceri sadici, che cosa mi aspettava!
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