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Redenzione
Ho scritto la mia ultima poesia due anni fa.
Era il 28 gennaio del 2011, nata da una goccia di pioggia scivolata sull'asfalto da una bottiglietta di plastica abbandonata nel mezzo della strada.
Una poesia vera, potente.
Una poesia immortale.
Da allora ho scritto solo stupidaggini, roba frivola senza nessun valore.
Una volta laureatomi, ho cercato un lavoro che mi permettesse di vivere da solo, lontano dagli occhi di mio padre, frammenti liquidi iniettati di sangue e di pazzia.
Ho cercato un lavoro e l'ho trovato.
In una banca, o meglio, nella banca dove il mio vecchio tiene al sicuro i suoi milioni.
Solo dopo il primo mese ho realizzato che quel posto mi era stato offerto perché ero il figlio di B..., il loro miglior cliente.
Ho anche capito, e questo dopo due mesi, che il periodo di vagabondaggio incallito all'università era stato il più proficuo della mia vita, sotto plurimi punti di vista. Tantissime ragazze e un sacco di tempo libero da dedicare alla scrittura. Racconti, poesie, saggi, articoli. Ho persino scritto un romanzo breve che ha vinto il primo premio in un concorso letterario.
L'ho capito con amarezza perché da quando mi hanno preso in banca non ho più scritto niente di plausibile.
Un lavoro sicuro che giorno dopo giorno ha inaridito la mia vena creativa.
Tornato a casa, mi mettevo sul divano con un bicchiere in mano e pensavo a quello che avevo fatto in banca. Ai clienti, alle donne che avevo visto durante la giornata. Al pranzo con i colleghi e alla bistecca che avevo mangiato mentre parlavamo di finanza e delle ripercussioni che la vicenda senese avrebbe avuto sul mondo bancario italiano.
Rimuginavo sulle operazioni che avevo eseguito, sui versamenti, sulla contabilità.
Pensavo a tutti i soldi che mi erano passati tra le mani.
Pensavo ai maledettissimi soldi.
Prima, quando ero uno studente senza il becco di un quattrino (ho sempre rifiutato il denaro di mio padre, frutto di attività non proprio chiare), pensavo solo alla filosofia, alla poesia, all'arte. All'amore e a ogni suo possibile significato.
Erano tempi in cui guardavo il mondo con gli occhi impertinenti del sognatore, sempre alla ricerca di uno spunto per scrivere qualcosa. Durante il secondo anno, ho scritto duecentodue poesie e sebbene non sia lo stesso numero dei pezzi scritti dalla Dickinson, per me è comunque un record.
Prendevo la vita con felice leggerezza, con il più profondo del distacco. Vedevo solo il lato spirituale dell'esistenza, nutrendo, anzi, rimpinzando la mia anima.
E ora, diventato un estraneo ai miei stessi occhi.
Non mi riconoscevo più, consapevole del cambiamento che stava annientando quello che di vero c'era in me.
Ero inorridito al pensiero che presto avrei smesso del tutto di scrivere. Sapevo che sarebbe arrivato il giorno in cui avrei preso la macchina da scrivere (vezzo anacronistico che mi porto dietro dai tempi delle medie) e l'avrei sistemata in uno scatolone con la scritta "Riposa in pace".
Un incubo che mi terrorizzava e che troppo spesso avevo cercato di scacciare bevendo troppo, durante notti interminabili passate a riflettere su quello che volevo davvero e che mi avrebbe reso di nuovo felice.
Così una mattina, dopo una sbronza particolarmente tosta, m'imposi di fare qualcosa.
Era arrivato il momento di prendere una Decisione.
Con la D maiuscola.
Mi presentai nell'ufficio del direttore: erano le 9:10 del 25 aprile.
Lui era in giacca e cravatta.
Io in tenuta da ginnastica.
Mi chiese come mai non fossi vestito in "modo consono al posto di lavoro".
"Me ne vado."
"Cosa vuoi dire?"
"Che mi licenzio."
"Sei sicuro?"
"Certo."
"Ci hai riflettuto bene? Un posto in banca non lo trovi tutti i giorni e con i tempi che corrono..."
"Ci ho pensato benissimo," replicai.
Mi fissava: mi studiava, pensando che quel posto era sprecato per il figlio viziato di un ricco pazzo. "Vuoi finire il mese?" domanda pertinente.
"No, " dissi io.
"Come vuoi, " e dal cassetto della sua scrivania prese alcuni moduli.
Me li porse, insieme alla sua penna. D'oro.
Quanta boria inutile: avevo visto penne identiche a quella alla bancarella del cinese il venerdì al mercato. Prezzo: 3, oo euro. A volte stento a capire la gente.
Guardai i fogli: con un bel carattere anonimo, l'intestazione diceva Richiesta Di Licenziamento.
Riempii tutti gli appositi spazzi.
Apposi crocette su svariate caselle.
Firmai lungo ripetute linee tratteggiate.
Nella parte riservata alle motivazioni che mi avevano spinto ad abbandonare la grande famiglia del credito bancario, scrissi "Ragioni personali".
Scrivere che non riuscivo più a scrivere (sciatta ripetizione di termini, ma è proprio così!) mi sembrava troppo personale, come se avessi raccontato a uno sconosciuto di quella volta che, in un bar, avevo flirtato con una donna risultata poi un uomo.<
Certi fatti possono essere ridicoli per chi ascolta, ma dannatamente imbarazzanti per chi li vive, quindi meglio essere vaghi su alcuni argomenti.
"Ragioni personali? E quali sarebbero queste ragioni personali?"
Non risposi.
Avevo firmato quel pezzo di carta e quell'uomo, nel suo vestito elegante con tanto di cravatta rosso rubino, non aveva più potere su di me.
Ero tornato a essere un uomo libero.
Mi fissò ancora, con disgusto evidente, incapace di accettare che qualcuno non avesse la sua stessa dorata e massificata visione del mondo. Che c'era davvero qualcuno disposto a mandare al diavolo un lavoro sicuro e per di più senza dare spiegazioni.
"Così sia, " disse alla fine in risposta al mio silenzio.
"Amen, " replicai alzandomi.
Uscii dal suo ufficio e, prima di andarmene, passai a salutare Barbara.
Le dissi che mi ero licenziato e la sua sorpresa fu genuina.
Mi disse che le dispiaceva.
Le dissi che non era colpa sua e che non doveva rammaricarsi per me.
Dopo aver controllato sul computer, mi disse che l'accredito dell'ultimo stipendio sarebbe arrivato il tre, come sempre.
"Per la liquidazione dovrai aspettare un po'."
Le dissi che sarei ripassato a metà aprile per chiudere il conto e incassare il malloppo.
Sorrise alla battuta, poi anche lei mi fece riempire un paio di moduli standard: il massimo dell'efficienza.
La salutai.
Mi venne voglia di chiederle un appuntamento, magari per una pizza o un cinema, ma non lo feci: Barbara, bella donna sotto vari aspetti, faceva parte della vita che avevo deciso di abbandonare e uscire con lei sarebbe stato uno sbaglio madornale.
Lei era figlia di un mondo del quale non facevo parto.
Che scomparisse tra le onde insieme alla nave e tutti i passeggeri.
Ero io sulla scialuppa di salvataggio.
Ero io quello che aveva ancora una possibilità.
Addio Barbara dai lunghi capelli rossi e dal seno generoso.
Buona morte.
La salutai.
Lei mi salutò con un sorriso lucente.
Addio.
Me ne andai.
M'incamminai per la strada, sbirciando con curiosità le vetrine di quei negozi che non avevo mai realmente guardato.
Stavo fissando un busso cappello si sistemato sulla testa calva di un manichino quando un sentimento palpitante e delizioso mi abbracciò il cuore.
Conoscevo fin troppo bene quella vecchia e perduta sensazione: stava arrivando.
Tra qualche ora o più realisticamente tra un paio di giorni, avrei scritto qualcosa.
Qualcosa di buono, una poesia immortale.
Una poesia potente.
Chiusi gli occhi, compiacendomi di quel benessere inatteso.
Era la vita alla riscossa.
La mia vita che tornava alla ribalta.
Forse per me c'era una seconda possibilità.
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