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Mamma unica
Dalle finestre spalancate entrava un refolo d'aria più fresca e in lontananza svettava il campanile di una chiesa a picco sul mare. Era una sera di agosto calda e ferma e l'intero piccolo borgo era animato dalla festa patronale, in onore del mare e delle stelle che vi si affacciavano; più di tutto viveva la spiaggia, dove famiglie e gruppi di ragazzi univano l'ultimo bagno a una cena sulla battigia per partecipare a un rito che si perdeva negli anni. La tradizione prevedeva che sul finire del tramonto si calassero in acqua migliaia di lumini accesi in coppe di carta colorate, rosse, blu, gialle, verdi e man mano che il giorno scolorava, i lumini creavano balugi cangianti sulla baia. I bambini, dopo averli accesi, posavano i lumini sulla superficie, in principio avvicinandosi attenti a non bagnarsi troppo, poi immergendosi come pesciolini, divertendosi, nello spingerli al largo. Quando il buio si faceva totale arrivavano delle canoe fornite di torce, carosello di luce, placido e simmetrico in quel mosaico ondeggiante. L'intera spiaggia vibrava delle centinaia di persone ad ammirare una scena capace ogni anno di rinnovare la sua bellezza.
Brezza, paesaggio e aria di festa non bastavano però a rendere la nostra stanza d'ospedale accogliente, boccheggiavamo, doloranti e sfinite. Il recente parto, le ragadi al seno, e più di tutto, il senso d'incapacità e solitudine assoluta rispetto al piccolo che tenevamo in braccio. Una beffa questa solitudine proprio nel momento in cui credi di non provarla più. Invece, basta guardare un bambino appena nato per capire che la vita è cosa individuale, e qualsiasi stratagemma per vincere la solitudine un inganno: opporvisi è una delle poche battaglie comuni a tutti gli esseri umani, condividerla, uno dei rari mezzi per sopportarla.
Ero fortunata, la mia bambina, nata con facilità, si attaccava benissimo ed già era arrivato il latte, stava al seno per ore, e quando non lo era, era talmente sazia da dormire; purtroppo però a causa degli ingorghi mammari, le ostetriche mi avevano dato un tiralatte e nell'usarlo mi ero procurata delle spaccature profonde, che mi facevano impazzire. Avevo fatto amicizia con la mia vicina di letto, Rita, una ragazza più giovane, al suo secondo figlio e la notte, sopra il lavandino, la trascorrevamo insieme, lei a spugnarmi il seno con acqua calda, io a strizzarmelo per far defluire il latte. È straordinaria la complicità che si crea talvolta con persone completamente estranee, quello che non avrei nemmeno potuto immaginare, in quei momenti era semplicemente naturale.
Erano forse le due del mattino, i nostri bambini dormivano ma né io né Rita potevamo approfittare della tregua per riposare, oltre al caldo opprimente e ai dolori, dall'altra stanza veniva il pianto continuo di un bambino; piangeva da 2 giorni e insieme a lui piangeva sua mamma, l'uno per fame, l'altra perché non aveva latte e nessuno faceva nulla per calmarlo; dicevano anzi che era bene che piangesse e che lei si angosciasse perché avrebbe attivato la reazione chimica della montata lattea, il pianto del bambino stimola la mamma a darsi da fare, spiegavano. Non so se questa teoria avesse delle basi scientifiche o semplicemente si
fondasse sul principio sadico di portare le situazioni al limite per vedere se la disperazione arriva dove non è arrivata la ragione, fatto sta che per noi era insopportabile. Mi proposi di pensarci io, che latte ne buttavo nel lavandino, ma sorridendo quasi dell'ingenuità, l'infermiera disse che non era possibile; decidemmo allora di andare a tenerle compagnia, per distrarla un po'.
Quando entrammo nella stanza, mi colpirono due occhi chiari, verdi, nella penombra, brillanti come i lumini che ormai la corrente portava al largo della riva. Dopo averci osservato per qualche secondo, ci invitò a stare con lei, spianando con la mano un angolo di letto, chiese dei nostri bambini e ci indicò il suo con un battito di ciglia più lento. Le faceva piacere fossimo lì, era quella solitudine scoperta che cerca altre solitudini per darsene una ragione. Desiderava ascoltare ed essere ascoltata, le iniziali banalità segmento della spirale che, gradino dopo gradino, ci avrebbe condotto alle parole autentiche, come in una grotta profonda dove l'afa, i disagi e il buio perdevano consistenza e non venivano più percepite.
"mi chiamo Lucia" dissi, ma lei aveva già iniziato a parlare, raccontandoci che aveva 37 anni e si chiamava Angela, questo era il suo secondo figlio, a distanza di 15 anni dal primo, una ragazza che ogni giorno veniva a trovare lei e il suo fratellino; era passato talmente tanto tempo che non aveva più nessuna reminiscenza del modo di trattare un neonato, ed era stremata perché a lei non era ancora arrivato il latte e il piccolo non faceva che disperarsi. Parlò a lungo dei tentativi dei due giorni passati, dei consigli di infermiere e ostetriche, delle visite di sua figlia e dei suoi tentativi di mostrare calma e serenità. Parlò, parlammo a lungo anche di noi ma la sua attenzione non si distoglieva, ritornava al punto iniziale insieme alla lancetta dell'orologio che ci ticchettava in sottofondo, rigirando sugli stessi numeri ogni volta che un'ora si consumava.
Lui" -indicò il piccolino- "è come se mi parlasse, inizia piano, con gentilezza, poi con rabbia, alla fine con la disperazione di chi non riesce a farsi capire. Ma io lo capisco, so cosa vuole, solo che non ce l'ho, come se qualcuno mi interrogasse per estorcere un'informazione: mi lusinga e poi mi minaccia e mi prende persino a botte ma io, che lo vorrei, non posso rispondere, perché non ce l'ho la risposta".
- "è solo questione di tempo e di calma, le cose si metteranno a posto, in quest'atmosfera surreale sembra tutto per sempre ma tra due giorni sarai a casa - dissi - e poi basterebbe così poco"
Tratteneva una domanda che il suo sguardo pronunciava chiaramente
-"lo vedi come sono ridotta? A strizzarmi nel lavandino! ce ne sarebbe per tutti i bambini della nursery, io gliel'ho detto all'infermiera"
- "cosa?" con un filo di voce
-"di attaccarlo a me, tuo figlio, loro dicono che non si può, mi ha fin preso in giro, ma dove sono cresciuta io lo facevano tutti"
Dal corridoio arrivava uno scalpiccio di zoccole, passi rapidi, stavano svegliando il medico di turno che dormiva su una brandina in una stanzetta, probabilmente era nato, o stava per nascere, al piano di sopra, un altro bambino.
-"Lucia. Non dirlo"- Infilò le dita sotto le maniche, prese a tormentare il lembo della vestaglia per dominare il tremito della mano, gesto quasi di indignazione, come per dirmi di non essere crudele, non approfittare della sua fragilità.
-"sì che è vero, vivevamo in una masseria ed eravamo non so quanti tra zii, nonni, cugini. Era pieno di bambini, di tutte le età -piccoli anche- e le madri non si affannavano dietro i loro figli, quando una andava nei campi a lavorare, quelle che restavano curavano i più grandi e allattavano i piccolini, i bambini succhiavano la tetta di quella che era rimasta, come fosse quella della mamma che li aveva partoriti e nessuno lo trovava strano. Tutti siamo cresciuti. Quando alcuni anni fa è si è ammalata mi zia Tina (quella a cui volevo bene di più), e sono scesa in puglia con mio marito per salutarla, nel darle un bacio ho riconosciuto il suo odore, l'ho sentito, dopo trent'anni, riemergere da non so quale recesso della mia più profonda memoria di bambina di pochi mesi. Era l'odore di una mamma."
-"avere due mamme".
- "molte di più, e non pensare che tutte fossero fortunate come lei, ce n'erano anche senza latte o che faticavano ad averne di buono, ma lì nessuno avrebbe fatto piangere un bambino 3 giorni. E nemmeno te."
Angela non disse nulla ma voltò il viso verso la finestra: quella che prima era un timido schiarire, un'ombra di luce che arrivava dall'esterno, ora era un abbraccio rosato, aurora di agosto, che si infilava nelle fessure delle veneziane, cambiava i colori della stanza, il grigio pallido delle lenzuola. La camera era diventata bella.
-"che colori..." e mi rivolse i suoi occhi verdi, puntellati di piccole macchie scure intorno alla pupilla nera - "questa luce non serve più adesso" spense il lumino sopra il letto, ricreando la penombra. Lasciò scivolare le dita fuori dalla manica, mi sfiorò la mano e di nuovo incrociai il suo sguardo più profondo.
Fu semplice e giusto, un attimo. Senza bisogno di parlare, Rita si alzò e andò alla porta, a controllare che nessun arrivasse, io mi alzai e andai in bagno, Angela sollevò suo figlio dalla cullina e mi seguì. Chiudemmo la porta e sedute per terra mi passò il suo bambino. Lo presi e me lo attaccai al seno, senza nessuna difficoltà, solo provando una fitta di dolore nell'istante in cui prese il capezzolo lacerato. Fu immediato silenzio, e sollievo, poi un mormorio leggerissimo di parole e il fruscio della mano che carezzava la testina. Dove sono cresciuta io, non c'era una mamma unica.
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