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Cosmogonia

Vidi emergere dall'oscurità una sfera luminosa, che diveniva poco a poco sempre più alta e lucente. Si eresse in cielo e si accostò alla Luna, che in quel momento regnava indiscussa sugli astri della volta celeste, ed ero inerme a guardare quel bagliore diventare sempre più grande. D'improvviso divenne gigante, iniziò la sua discesa in terra e fui colpito da un tuono che stordì i miei sensi e accecò i miei occhi. Non so quanto tempo trascorsi accasciato come senza vita, ricordo che il mio sonno fu travagliato e ricordo una creatura che mi parlava in una lingua a me ignota, ma nonostante non la conoscessi riuscivo comunque a capire ciò che mi stava dicendo. Ecco cosa sognai. La creatura era simile a me nei lineamenti del volto e nella corporatura. Era molto alta e aveva gli arti robusti, coperti da un'armatura metallica che cambiava colore ad ogni passo che faceva. Veniva in avanti, avvicinandosi con molta calma. Dietro di lei potevo scorgere una macchina che sapevo provenire dal cielo. Era quella che avevo visto da sveglio alzarsi in cielo e brillare come il Sole. "Il mio nome è Aruk" disse. La voce era molto forte e la sentivo dentro la mia testa. Le sue labbra, infatti, non si muovevano. Mi disse che veniva dalle profondità del cielo, un posto che lui chiamava Primo Spazio. Gli domandai cosa fosse questo "spazio" e come fosse arrivato da me. "Miliardi di anni fa..." disse Aruk "... la mia stella madre esaurì il combustibile e divenne una gigante. I pianeti più vicino a lei furono inglobati dalla sua energia e con essi morirono le civiltà che li governavano. Ender, Gunnah e Numa, i tre più vicini ad essa, furono inceneriti in poche ore; io, Aruk, governatore di Tyope, quarto pianeta del sistema di Undo Nabaru, situato nel settimo braccio della galassia Geyser, fui costretto ad abbandonare il mio pianeta. La mia gente fu trasferita su un proto-pianeta a poche unità astronomiche da Tyope, ma non era un ambiente ospitale per la mia razza: avevamo bisogno di ossigeno, di un'atmosfera in grado di proteggerci dalle radiazioni cosmiche e di acqua. Tre elementi fondamentali per la nostra sopravvivenza, indispensabili alla vita e, ahimè, difficili da trovare con così poco preavviso. Costruimmo basi ospitali, pressurizzate e dotate di gravità artificiale. Ognuna di loro poteva ospitare migliaia di noi e riuscimmo a sopravvivere per molti giorni e molte notti. Per spostarmi da Tyope al proto-pianeta usavo l'energia di Undo Nabaru, che mi permetteva di curvare lo spazio-tempo di Primo Spazio e di viaggiare per milioni di chilometri in poco tempo. Quando la stella esplose, rimasi intrappolato fra le pieghe attraverso cui viaggiavo e persi ogni contatto con il mio popolo." Le sue parole echeggiavano nella mia testa mentre egli mi aveva indicato la sua astronave. Era lunga e sottile, un pontile fuoriusciva dall'unica apertura che riuscivo a vedere, ed era come avvolta da un'aura misteriosa. Aruk stava vicino a me, continuava a parlarmi, quando mi accorsi che si stava spogliando dell'armatura. "Che stai facendo?" gli domandai. Ma non ricevetti risposta e ripresi a concentrarmi sulla sua storia. "Il tempo e lo spazio mi stritolavano impedendomi di tornare dal mio popolo. Lo sentivo invocare il mio nome, udivo il suo grido di aiuto. Eppure ero inerme, mangiato dal Primo Spazio e privato di ogni forza. Il proto-pianeta non avrebbe avuto lunga vita e, priva di sostentamenti, la mia gente pian piano fu decimata ed infine estinta. Io ero bloccato, in ascolto delle loro preghiere e impotente. Provai tutto il loro dolore e per un tempo indefinito rimasi imprigionato nell'Universo. Decisi, però, che non sarei rimasto lì per sempre. Non invecchiavo e non mi spostavo. Ero dentro il tessuto primordiale, facevo parte di esso, e mi resi conto di essere energia, per cui non necessitavo di stelle, supponevo. Iniziai a modellare le pieghe, provai in tutti i modi a creare un varco dal quale uscire e liberarmi, perché compresi che potevo staccarne dei piccoli pezzetti. La cosa richiedeva uno sforzo immane e rimasi molte volte stremato dalla fatica. La rabbia, per il tragico destino del mio popolo, si alimentava nell'impotenza alla quale il Primo Spazio costringeva il mio essere, e col tempo, per quanto esso valesse, divenne così maligna che riuscii a strappare il tessuto e ad aprire quel varco tanto bramato. Ma non mi fermai lì. La mia gente non esisteva più, il mio sistema si era trasformato in un ammasso di polveri e gas interstellari, l'Universo che tanto amavo mi si era ritorto contro e, accecato dall'ira, riversai tutta la mia energia nella membrana spazio-temporale. Fu così che tutto iniziò a collassare e ribaltarsi. La gravità si fece sempre più forte, enormi buchi neri mangiarono stelle, sistemi, ammassi e galassie, finché non restarono che energia e buio. Buio totale. Il mio Universo era scomparso, collassato su stesso, imploso, disintegrato, assolto. Soltanto io e la membrana regnavamo nel nulla. Il tempo non dettava più le sue regole su di me, lo spazio non esisteva più senza di me. Io ero il tutto ed io ero il nulla. Io l'energia, io la massa ed io l'oscurità. Avevo avuto la mia vendetta, ma potevo avere tutto ciò che desideravo, e non sognavo altro se non di rivedere il mio popolo e il mio pianeta. Così iniziai a far vibrare la membrana, con la quale mi ero fuso durante la grande implosione, e da queste scosse si formarono vortici di particelle molto pesanti che decadevano in brevissimo tempo. Più forte essa vibrava, più particelle si creavano e quando ve ne furono a sufficienza diedi loro energia perché continuassero a vivere. Queste iniziarono a espandersi nello spazio, che non apparteneva più al mio universo, ma era stato generato dalla mia vibrazione, e formarono nuovi pianeti, nuove stelle e nuove galassie ed ero felice di ciò che avevo creato. Non restava che trovare un pianeta ospitale e gettare il seme del mio popolo. Potevo nuovamente muovermi nello spazio e il tempo riprese a scorrere. Trovai la Terra e vi seminai il mio gene e da allora torno di tanto in tanto a salutare il mio popolo. Tu, Sennar, sei stato scelto perché la verità ti sveli i segreti dell'Universo, ricorda le mie parole e scruta nelle profondità del cielo affinché egli ti mostri le sue meraviglie." Non ho ricordo di cosa vidi sull'astronave, non ricordo neanche come e perché si tolse l'armatura. I sogni a volte fanno così: mascherano con dettagli apparentemente inutili il loro vero significato. Le sue parole però restano incise nella mia mente e ora guardo al cielo con occhi diversi, sapienti. All'inizio c'era Primo Spazio, ora esistiamo noi.

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2 commenti:

  • Filippo il 28/10/2017 13:01
    Ti ringrazio Vincent
  • vincent corbo il 27/10/2017 07:09
    Una scrittura fluida, sicura, erudita.

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