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J. l. b
J. L. B. sta rigidamente seduto su una poltrona nella vasta terrazza di un hotel a Palermo.
Ha il rugoso volto rivolto al cielo che i suoi occhi ciechi non vedono. Sente però la leggera brezza primaverile accarezzargli le vecchie membra. È solo, la terrazza a quell'ora di inizio pomeriggio è deserta. Stringe con entrambe le mani il bastone da passeggio.
Sa che il suo tempo è quasi compiuto. Ha chiesto di essere lasciato qualche minuto in solitudine, ed è consapevole che, a una certa distanza, qualcuno, forse del personale dell'hotel, o qualche curioso, lo sta osservando. Percepisce degli odori e dei rumori in lontananza, da quando non vede più che vaghe ombre, è attento a queste cose.
Sente qualcuno avvicinarsi. Riconosce i passi di M. K., la giovane donna che da anni lo assiste e lo accudisce. Fra qualche giorno la sposerà.
M. K. Siede accanto a lui. Gli comunica che è arrivata la giornalista che deve intervistarlo.
J. L. B. annuisce, ma dice che si sta bene lì fuori in quella tiepida brezza: "Aspettiamo ancora un momento, M. descrivimi ancora quel che vedi attorno a noi" le chiede. "La città di Palermo da una parte e la campagna di agrumi dall'altra. Vedo gli alberi di arance, quello dei gialli limoni e dei cedri, e dei profumati mandarini", risponde pazientemente M. K.. Ma ora all'improvviso, J. L. B. vede un'altra Palermo, vede il quartiere della sua città natale dove ha vissuto la sua giovinezza.
La sua mente - ancora prodigiosa - che riesce a ordinare e collegare fra loro, le indefinite conoscenze di una vita di studi e letture sui libri delle più svariate letterature e filosofie della cultura occidentale e orientale, spazia ora nei ricordi del suo passato, e salta dall'uno all'altro, mormorando parole, o qualche verso che le labbra esangui faticosamente recitano.
"Libero dalla memoria e dalla speranza,
illimitato, astratto, quasi futuro,
il morto non è il morto: è la morte."
Gli pare di rammentare l'inizio di questa poesia che scrisse forse nel 1923.
Sa, come già allora sapeva, che ad attenderlo non è il Mistero ma il nulla.
Da tempo lentamente si abitua a quella che ancora non è la tenebra.
"Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e assomiglia all'eternità."
Benché sappia quanto ingannevole possa essere la memoria, ricorda che anche questo scrisse molti anni prima, ma lui vuole dimenticare ed essere dimenticato.
M. K. posa la mano sulla sua spalla ridestandolo da quei pensieri, la giornalista lo sta salutando.
Da quando la sua fama ha varcato i confini nazionali, viaggia per il mondo a tenere conferenze, ritirare premi o lauree ad honorem nelle più importanti università. Gli fa piacere l'incontro con i giornalisti, il conversare con loro lo rende più acuto, ironico e brillante, fin quasi l'allegrezza, e poi la sua sterminata capacità citatoria li rende "brilli" di erudizione.
"Si" dice, "sono giunto in questa città per il ritiro di un premio, "La rosa d'oro" il cui nome io stesso ho suggerito".
"Fa riferimento a: La rosa profonda?" chiede la giornalista.
Ricorda quel libro di poesie dei primi anni settanta, quando sua madre morì dopo lunga agonia, ma finge di non ricordare bene. Pronuncia però dei versi, come fa quasi sempre, che gli vengono alle labbra:
"Rosa profonda, infinita, intima
che il Signore mostrerà ai miei occhi morti".
"Forse si" risponde, "ma in molti miei libri ci sono composizioni sulla rosa".
Dalla voce intuisce la giovinezza della giornalista - inviata di un grande quotidiano del Nord - che sembra aver preparato con cura l'intervista; sa comunque, quali saranno le sue domande in quel pomeriggio palermitano. Pensa che la timidezza della sua giovane età e la propria austera figura, forse le impediranno di chiedergli del Nobel. Parleranno invece dei suoi libri, e di poco altro. Così avviene infatti.
Con cristallina cordialità e con lievissima tensione la giornalista cita soprattutto i temi e i simboli presenti nella sua opera poetica: la Rosa, appunto, ma pure la biblioteca, i labirinti, lo specchio, la spada, la tigre e infine, subito dopo una impercettibile pausa, il tempo e l'immortalità.
"Ah", risponde J. L. B., quasi colpito dalle ultime parole, "il tempo, che più non ho, enigma indecifrato e indecifrabile". Poi sorride spalancando al cielo gli occhi vuoti, e come altre volte, cita sant'Agostino: "Che cosa è il tempo? Se non me lo chiedono, lo so. Se me lo chiedono, lo ignoro."
Prosegue poi con leggero affanno: "L'immortalità? Non la desidero, non la temo; per me sarebbe spaventoso sapere che continuerò, sarebbe spaventoso pensare che continuerò a essere J. L. B. Spero che la mia morte sia totale, spero di morire in corpo e anima."
È austero il suo tono, ma leggero, volatile quasi, nessuno di coloro che lo ascoltano attentamente ha dei dubbi su quello che sente.
"Non so però", aggiunge quasi fra sé, "se i miei versi, quelli che scrissi nei miei lunghi anni, dicono la morte allo stesso modo di come oggi, qui, in questa terrazza palermitana, insieme a voi, ne percepisco presenza e vicinanza. Credo che ciò accada, a causa di questa brezza leggera che sento sfiorarmi il volto, presagio della stagione nuova che si annuncia; ma avviso anche, allo stesso tempo, della stagione mia che volge al termine".
Ancora a lungo la conversazione prosegue mentre lento il pomeriggio declina. La giovane giornalista, fra le molte domande poste, cortesemente insiste nel chiedere donde provengano quelle persistenti immagini nella sua opera: la spada, gli antenati e l'epica militare, soprattutto. J. L. B. conosce l'arte di affabulare i suoi ascoltatori, e lo fa con ponderata naturalezza citando l'eroismo di certi suoi antenati che combatterono per l'indipendenza della Patria. " Io no", dice infine "diverso il mio destino".
"Sono chi sa di essere non meno vano
del vano osservatore che nel muto
specchio di cristallo mima il riflesso
o il corpo (fa lo stesso) del fratello.
"Sono nessuno, non fui mai una spada
nella guerra. Sono eco, oblio, nulla."
"Rinfresca, ormai, è tempo di rientrare" interviene M. K. L'intervista si conclude così.
M. K. aiuta J. L. B. ad alzarsi e anche la giovane giornalista si avvicina per un saluto.
"La ringrazio, signor B. per la sua disponibilità e per la sua pazienza" gli dice, e subito dopo aggiunge: "Tornerà a Palermo per questo premio anche il prossimo anno?"
Si ferma un attimo e sorride il vecchio J. L. B. Pare quasi guardarla con affettuosa sobrietà mentre pronuncia la risposta a quell'ultima domanda: "Sicuramente, e se io ne fossi impossibilitato verrà senz'altro il mio fantasma".
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0 recensioni:
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- Ti ringrazio del passaggio Nicola, un saluto...
- Bello e godibile racconto, garbata sfaccettatura di una insolita vita da non vedente, ma ben pensante.
- Già, proprio così, ciao Vincent, è un pezzo che manco da PR, ma non mi pubblicavano più niente, ora invece improvvisamente questo è passato, e vedo che conosci Borges, spero che non ti sia dispiaciuta questa mia versione... un saluto
- Dal quartiere Palermo di Buenos Aires alla città di Palermo in Sicilia con gli occhi della signora Kodama, poi alla volta dei templi greci e del mare di Omero.
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