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LA CITTÀ DELLE ILLUSIONI

“Questo maggio è forse l’ultimo maggio del mondo di illusioni che mi sono costruito intorno; il mese prossimo penserò con nostalgia a questo me stesso di poche settimane più giovane: ma adesso, oggi, fatico persino a ricordare come tutto abbia avuto inizio.
E perché non ricordo? Solo perché lo scontro frontale che ho avuto con la betoniera è stato così violento?
Andiamo…
Forse è invece per il sonno, che in questa tarda primavera, troppo calda per non definirla precoce estate, mi avvolge, molle e denso come melassa infernale, e non lascia spazio nemmeno ai ricordi, per non parlare di qualsiasi altro pensiero sensato, accidenti!”
Così vaneggiava Emeraldo Diaz, in mezzo all’Avenida De Cormollo di Mexico City, nella pozza di bitume nella quale si trovava immerso dopo l’incidente.

Una gelata sembrava aver cristallizzato il cielo, nella mente di Emeraldo, che stava passando da sensazioni di caldo opprimente a brividi sferzanti e improvvisi. Di colpo credette di essersi alzato ritto in piedi e avere gridato qualcosa, ma non sapeva cosa… anzi, di sicuro non si era alzato, e questo gli era chiaro, tanto quanto il fatto di avere le gambe spezzate… insieme a tante altre ossa, del resto.
La mente vacillava, com’è comprensibile, continuando tuttavia a lanciare saette calde agli occhi dell’uomo, dei lampi di luce dolorosi che Emeraldo interpretava come pensieri.
“Il mese prossimo penserò con nostalgia a questo me stesso” si ripeté Emeraldo già immaginando quanto sarebbe stato triste il suo futuro, in trazione nel letto di un qualche nosocomio, se possibile ancora più triste degli attimi che stava vivendo in quel momento, che almeno erano allietati dalle scariche di adrenalina.
“Ripenserò con un certo rimpianto anche a tutte le mie frattaglie, un tempo posizionate per benino nel corpo ed ora indecorosamente sparse sulla strada, accidenti!”

“Nei suoi romanzi ci sono solo due elementi invariabili: la pioggia e i capi-stazione”, ricordò Emeraldo mentre gli uomini del soccorso stradale cercavano di aiutarlo, ricomponendolo frettolosamente.
Naturalmente pensava agli scritti del suo amico Franco, che tanto successo stavano riscotendo in città, oltre che tra le masse analfabete e diseredate di Bolivia e Perù, ovviamente non come letteratura, e pensando che mancava solo un fischietto per rendere simili gli uomini che lo stavano soccorrendo?" vestiti con giubbetti giallo-fosforescente e con copricapo rosso?" a dei ferrovieri con l’impermeabile.

William Shakespeare era solo una maschera che nascondeva il nulla totale, amava ripetere Emeraldo ai suoi allievi. Per uno scherzo del destino ora era lui stesso ad indossare una maschera (di sangue) posta a nascondere il nulla totale in cui presto si sarebbe trasformato il suo pensiero, fino a quel momento così attivo.

Infatti l’uomo ebbe occasione solo di raccomandarsi a un qualche dio, con un feroce insulto che sottolineava la bestialità della divinità stessa, e poi il nulla, il vuoto assoluto, l’estrema illusione che svaniva su Città del Messico, in quell’ultimo, crudele, violento maggio.

Addio…

 

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4 commenti:

  • Luca Nanni il 27/02/2011 23:20
    Grande profondità psicologica! Bello.
  • Margherita Ghirardi il 22/05/2007 12:42
    è il terzo tuo racconto che leggo.
    So che mi ripeto, ma il tuo modo di scrivere mi piace davvero tanto.
    Sei bravo complimenti!

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