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Ufficio condoni
Ufficio Condoni
Così c’era scritto sulla targa in ottone attaccata alla porta. Una grande porta di legno. Oreste Titoni, anzi il signor Oreste Titoni, continuava a guardare e a riguardare quella targa, non capiva.
Da quanto tempo era lì? Non se lo ricordava più. La luce era una luce fredda e artificiale. Il corridoio dove si apriva quella porta era pieno di altre porte altrettanto grandi e con sopra altrettante targhe, ognuna delle quali indicava un ufficio diverso: ufficio prestiti, ufficio concessioni, ufficio crediti, ufficio reclami e così via…
C’era molta gente. Gente che arrivava, gente che prendeva il proprio numero di prenotazione, gente che aspettava seduta composta e in silenzio, gente che entrava negli uffici, ma nessuno che ne usciva se si escludono quelli che venivano trascinati via a forza da uomini vestiti con una divisa nera con cappello rosso. La cosa strana che però aveva notato il nostro signore era che nessuna delle persone che aspettava il proprio turno desse particolare attenzione a quello che succedeva attorno, era indifferente a quelle urla dei disperati. La gente continuava ad arrivare, prendeva il proprio numero e diligentemente si metteva a sedere davanti alla porta dell’ufficio presso cui doveva andare.
Lo stesso aveva fatto il signor Oreste Titoni, solo che non si ricordava più né il motivo, né come era arrivato fin lì, non sapeva neanche a che piano fosse di quel palazzo che sembrava immenso. Un largo e lungo corridoio si distendeva all’infinito davanti ai suoi occhi, i soffitti altissimi, nessuna finestra, illuminato da grandissimi lampadari, le pareti tinte di un grigio chiaro, il pavimento in graniglia bianca e nera. Lungo i lati del corridoio, oltre alle innumerevoli porte erano disposte delle sedie. Sedie vecchie, in legno che scricchiolavano al minimo movimento delle più o meno ingombranti terga delle persone che sostenevano.
Il signor Oreste Titoni, si andò a sedere anche lui, guardò il numero che aveva in mano, 8008, guardò la macchinetta contanumeri vicino alla porta, 7043 e sospirando pensò che ne aveva di tempo da aspettare per il suo turno, nel frattempo si sforzava di ricordarsi il perché fosse proprio lì davanti a quell’ufficio condoni. Doveva condonare qualcosa? Proprio non se lo ricordava.
Girò la testa per guardarsi attorno. Tutto si svolgeva nel più grande ordine. Faceva da sottofondo il rumore dei timbri pestati a forza sulle pratiche archiviate, ogni tanto qualche bisbiglio delle persone che aspettavano e qualche urlo straziante proveniente dagli uffici. I corridoi si riempivano anche del rumore dei passi dei poliziotti che andavano avanti e indietro. Sembravano tutti uguali, altissimi, con una divisa nera pece e il cappello rosso fuoco calato così tanto sulla testa che era impossibile riuscire a vederne gli occhi. A volte si fermavano davanti a qualcuno si facevano mostrare il bigliettino con il numero di prenotazione e poi chiedevano di seguirlo, il poveretto si alzava senza dire una parola e a testa bassa si allontanava con loro. Dove venisse portato non lo sapeva nessuno, ma sembrava che a nessuno importasse.
Così come nessuno mostrava nessun cenno di turbamento quando gli stessi poliziotti trascinavano fuori a forza le persone dagli uffici, prendendole sotto le braccia e incuranti delle urla e della resistenza. Che cosa assurda pensava il nostro signor Titoni.
Il tempo passava, ma allo stesso tempo non sembrava mai passare, il fatto che non ci fossero finestre rendeva la situazione ancora più surreale. La luce artificiale trasformava quel posto in un luogo freddo e senza tempo.
Mentre aspettava diligentemente Oreste Titoni, notò un uomo che avanzava lento verso la porta dell’ufficio condoni. Anche lui prese il suo bel bigliettino della prenotazione, anche lui buttò una rapida occhiata alla macchinetta contanumeri, anche lui sospirò per poi, rassegnato, andarsi a sedere accanto al nostro signore.
“Mi scusi, che numero ha lei?” chiese con cortesia
“Ho l’8008” rispose Titoni
“Sarei troppo villano se le chiedessi di farmi passare avanti, io ho il 9067… e avrei alcune faccende importanti da sbrigare. Non posso permettermi di perdere tempo qui” domandò l’uomo.
Il signor Titoni stava per rispondere con garbo che sostanzialmente non era un problema suo e che 1000 numeri in più da aspettare erano troppi, quando si avvicinò uno dei gendarmi dal cappello rosso.
“Tutto bene? Ci sono problemi?” domandò.
“No, no tutto bene” rispose l’uomo “ho solo chiesto se fosse possibile cambiare numero di prenotazione e basta. Anzi lo chiedo a lei…è possibile passare avanti? Sa ho degli impegni inderogabili e devo essere fuori di qui al più presto.” continuò.
“Quindi vuole uscire di qui e al più presto. Aspetti che vado a informarmi” rispose il poliziotto. Poi si allontanò con passo lungo e andò da un altro gendarme, gli sussurrò qualcosa all’orecchio, indicò con la mano il signore e insieme si riavvicinarono.
“È lei che vuole uscire al più presto di qui?“ chiese il nuovo poliziotto con voce che non tradiva la benché minima emozione.
“Allora è possibile?” domandò l’uomo con insistenza.
“Ci segua” disse fredda e perentoria quella specie di guardia vestita di nero e con il cappello rosso così calcato sulla fronte da non far vedere gli occhi “ci segua senza fare storie”.
“E dove mi portate” il signore improvvisamente si inquietò
“Ci segua e basta”
L’uomo si alzò, i due poliziotti si misero ai suoi fianchi e scortandolo si allontanarono fino a perdersi nell’infinito corridoio.
Oreste Titoni guardò la scena quasi incredulo. Dove lo stavano portando? Possibile che nessuno dicesse o chiedesse nulla? Nel frattempo il contanumeri appeso vicino alla porta segnava 7368. Andavano veloci con le pratiche nell’ufficio condoni, ancora un po’ di pazienza e sarebbe stato il suo turno. La cosa strana è che non aveva visto nessuno uscire, “si vede che le persone entrano sbrigano le loro questioni per poi uscire da un’altra porta” pensò. Si guardò nuovamente attorno, tutti erano composti e silenziosi, solo alcuni parlavano a voce bassissima avvicinandosi alle orecchie. Qualcuno leggeva delle riviste che erano a disposizione su piccoli tavolinetti. Anche il nostro signore ne prese una ed iniziò a sfogliarla.
7686. Andavano proprio veloci in quell’ufficio, tra poco sarebbe stato il suo turno. Già 300 pratiche in quanto tempo? Oreste Titoni non lo sapeva, non era in grado di quantificarlo, il suo orologio si era improvvisamente fermato e alle pareti non ce n’erano, aveva chiesto l’ora al suo vicino di sedia, ma lo aveva dimenticato a casa, quindi si rimise a leggere la sua rivista. Il silenzio e la calma apparente di quel posto furono improvvisamente rotti dalle grida ossesse di un poveretto che veniva trascinato fuori dall’ufficio concessioni dai soliti due poliziotti.
Il nostro signore alzò di scatto la testa e si guardò in giro per cercare lo sguardo di altri ed avere una risposta a quello che stava succedendo, ma tutti avevano la testa bassa. I due gendarmi avanzavano afferrando per le spalle l’uomo che opponeva resistenza con tutte le sue forze e urlava disperato che non voleva andare con loro.
Il tragico gruppo si avvicinava le due guardie sembravano più alte e grosse delle altre, anche loro non si riusciva a vederle in viso. Quando furono abbastanza vicino Titoni ebbe l’impressione che non avessero mani, ma che afferrassero quel poveretto con delle specie di zampe pelose, nere e con degli artigli che sembravano conficcarsi nella carne del mal capitato. Improvvisamente un dei due poliziotti sentendosi osservato si girò di scatto e fissò per qualche secondo il nostro signore negli occhi, ma non erano occhi normali quelli che guardavano. Titoni ebbe la netta impressione che fossero piccole scintille di fuoco ed ebbe paura, abbassò la testa come gli altri e sentì un brivido gelato scorrergli lungo la schiena.
7834. La gente continuava ad entrare e a non uscire, dai vari uffici che si aprivano sul corridoio come bocche ingoia uomini. Ancora 200 numeri circa e poi sarebbe toccato a lui, ma continuava a non ricordarsi che cosa dovesse condonare, sperava solo che al momento giusto gli sarebbe tornato in mente. Finita la rivista ricominciò a guardarsi attorno. La sua attenzione venne catturata da una donna. Improvvisamente si rese conto che lì, in quel corridoio, erano solo uomini, di tutte le età, ma soltanto uomini. La donna avanzava elegante. Doveva essere un’impiegata, gambe lunghe e slanciate, scarpe con tacco, gonna blu, camicia azzurra, capelli castani raccolti dietro la nuca, occhiali che incorniciavano gli occhi azzurri. Camminava con passo sicuro, guardava dritta davanti a sé, in mano teneva un pacco di fogli.
Un uomo alzandosi dalla sua sedia la fermò per chiederle qualcosa, lei rispose sorridendo per poi riprendere la sua camminata sicura. Improvvisamente arrivarono i soliti due gendarmi, si avvicinarono all’uomo ed iniziarono a fargli domande. Anche se era seduto lontano Oreste Titoni poteva percepire l’ansia e la paura che stava salendo nell’anima di quel poveretto. La donna quando si accorse di quanto stava accadendo tornò indietro, si avvicinò alle due guardie, sussurrò qualcosa nell’orecchio di una, poi guardò il signore sorrise e si incamminò nuovamente con passo lungo. I poliziotti senza dire nulla si allontanarono anche loro, nella direzione opposta. Il sospiro di sollievo dell’uomo sembrò improvvisamente risonare in tutto il corridoio. Ovviamente nessuno sembrava essersi accorto della scena tranne il nostro signore.
La donna avanzava sicura, con il pacco di fogli sotto il braccio, si avvicinò alla porta dell’ufficio condoni, bussò ed aspettò che le dessero il permesso di entrare. Oreste Titoni era seduto proprio dietro di lei e con sconcerto si accorse che da sotto la gonna spuntava qualcosa che si muoveva lenta, morbida e sinuosa. Chiuse gli occhi, li riaprì e riguardò quella cosa che sembrava una coda, lunga, sottile e che terminava con una specie di aculeo. Dall’ufficio si sentì un “avanti”, la donna abbassò la maniglia ed entrò chiudendo la porta dietro di sé e alla sua lunga coda. Il nostro signore era sempre più inquieto. Domande su domande cominciarono ad affacciarsi alla sua mente, perchè era lì? che posto era quello? Come c’era arrivato? Cosa doveva fare esattamente? Non riusciva a dare una risposta che avesse senso a nessuna di quegli interrogativi, sapeva solo che non riusciva ad andarsene via, era come se una forza spaventosa lo tenesse bloccato lì su quella sedia, sapeva solo che doveva aspettare il suo turno.
8008, come ubbidisse ad un comando misterioso Oreste Titoni si alzò, guardò il suo numerino di prenotazione, guardò il contanumeri e sospirò. L’attesa era finita.
Bussò alla porta, non aspettò l’avanti ed entrò. La stanza era lunga e stretta, sulla destra un grande tavolo con dietro seduto due uomini vestiti di grigio. La donna che aveva visto entrare prima era seduta ad un tavolino vicino ad un’altra porta speculare a quella per cui era entrato.
“Prego si segga” invitò uno dei due funzionari e continuò “dunque lei è la pratica Titoni n° 342376/U-j. Vediamo un po’…deve condonare qualcosa?”
Il nostro signore si sedette di fronte a loro, si sentiva a disagio, continuava a non ricordare.
“Non ricordo. So che è strano, ma veramente non ricordo. A essere sincero non so neanche perché io sia qui e come ci sono giunto.” rispose.
I due uomini in grigio si guardarono, si dissero qualcosa all’orecchio e poi quello che sembrava il più anziano riprese “davvero non ricorda come è finito qui e perché?”
“Davvero, mi sono trovato qui davanti a questa porta con il numero della prenotazione in mano, ma non so dire come ci sia arrivato, nè dove io sia esattamente” aggiunse Titoni.
La donna intervenne nella discussione chiedendo se dovesse avvertire le guardie che c’era una pratica per loro.
I due funzionari nuovamente confabularono, poi facendo cenno con la mano all’impiegata di aspettare ripresero “però si è fermato non se ne è andato o ha chiesto in giro informazioni”
“No, non ho chiesto nulla, non so neanche perchè. È come se sapessi che in un modo o nell’altro questo fosse il mio destino, dovevo entrare in questa stanza, dovevo… dovevo… ed ora sono qui, ma proprio non so cosa devo condonare.”
I due uomini si guardarono negli occhi e quello che sembrava il più anziano annuì con la testa e aprì la pratica. “Vediamo di risolvere noi la faccenda. Evidentemente c’è stato un increscioso contrattempo, ma lei non c’entra.”
“Contrattempo? Di quale contrattempo sta parlando?”
“Vede mi caro signor Titoni, lei se ne è andato prima del tempo, si parla di frazioni infinitesimali di microsecondi, ma quanto basta per creare questo stato di confusione. Lei sa bene che doveva venire qui perché aveva delle cose da fare, infatti non se ne è andato, ed è rimasto al suo posto, ma non ricorda cosa dovesse fare.”
“E se avessi iniziato a fare domande o avessi cercato di andarmene?” domandò incuriosito Titoni,
“Sarebbero intervenute le guardie. Le avrà viste fuori, passano continuamente avanti e indietro per il corridoio”
“Sì, sì le ho viste…ma dove portano gli uomini che se ne vanno con loro e quelli che vengono trascinati fuori dagli uffici?”
“Vedo che non ha neanche capito dove si trova esattamente, sempre per quel disguido temporale. Signor Titoni, questa è una stazione di transito, tra un luogo e l’altro, qua vengono sbrigate tutte pratiche necessarie per poter passare dall’altra parte, sempre che uno risulti idoneo…ovvio!”
Titoni, si guardò attorno perplesso, anche lì non c’erano finestre, la donna in fondo alla stanza gli sorrideva gentilmente e da sotto il tavolo poteva vedere la coda che si muoveva.
Adesso piano piano cominciava a capire e a ricordare. Quella mattina si era alzato alla solita ora, aveva fatto colazione, si era preparato per andare in ufficio, aveva dato una carezza alla moglie prima di uscire e poi una fitta. Una fitta terribile atroce che gli tolse l’aria, la luce, i rumori, gli odori, il calore, la vita. Si sentì afferrare da mani fredde che lo trascinavano giù sempre più giù. Era buio attorno. Quando rivide la luce era fermo in piedi davanti alla porta con il numerino in mano. Capì.
“Sono morto allora...” disse con rassegnata accettazione.
“Si signor Titoni, lei è morto. E la sua confusione è data dal fatto che è arrivato qui leggermente in anticipo, su quanto fosse programmato per lei.”
Improvvisamente capì il perché di tutti quegli uffici, gli uomini che aspettavano avevano dei conti in sospeso e in quella stazione di transito tutto doveva venire saldato prima di proseguire e se non si poteva saldare, la pratica passava a quelle guardie dalle mani pelose e ad artiglio. Loro prelevavano i morosi e li trascinavano via, ma dove? All’Inferno?
“Sappiamo a cosa sta pensando. Sì signor Titoni, in questa stazione angeli e diavoli lavorano insieme. Ciascuno sbriga il suo compito, valutiamo i singoli casi e poi decidiamo se sono idonei al passaggio o no. In caso negativo avvertiamo le autorità competenti e i poveretti vengono trascinati a forza all’Inferno. Le guardie che invece ha visto nel corridoio hanno il compito di controllare tutti per evitare spiacevoli atti di insubordinazione. Sa a volte capita che uno faccia domande fuori luogo o voglia e tenti addirittura di scappare da qui ed allora loro intervengono portandoli via.”
Uno dei due funzionari appoggiò le mani sul tavolo, ma non erano mani erano le stesse cose che aveva visto ai poliziotti, delle specie di zampe nere con artigli lunghissimi. Titoni spaventato guardò negli occhi l’altro che invece sembrava avere una specie di aurea luminosa attorno alla testa, quindi si voltò verso la donna che continuava a sorridergli, le guardò la lunga coda arrotolata su una delle gambe del tavolino.
“Non si spaventi, andiamo tutti d’accordo qui, angeli e diavoli che insieme, sembra assurdo vero? Ma gliel’ho appena spiegato, questa è una stazione di transito, non ci facciamo la guerra, ma collaboriamo gli uni con gli altri per accelerare le pratiche che continuano ad arrivare senza un attimo di sosta” il funzionario guardò negli occhi il suo vicino e poi riprese “dunque vediamo un po’ stando a quello che c’è scritto lei è a posto con i condoni. Può proseguire il suo viaggio. Vada dalla nostra segretaria e si faccia mettere un timbro sulla sua pratica, poi passi pure dall’altra parte” e con la mano artigliata gli indicò la porta sul fondo della stanza.
Oreste Titoni, anzi il signor Oreste Titoni, si alzò ringraziò, si avvicino alla donna dalla lunga coda, le consegnò l’incartamento. Un timbro cadde pesante sulla carta, la porta si aprì e lui entrò. Tutto era terribilmente buio, non si vedeva nulla, solo una voce si sentiva: “entra, entra nel buio del nulla. Il tuo viaggio è finito ed ora puoi riposare nella notte dell’infinito”.
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0 recensioni:
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- Complimenti, gentile Margherita! Il tuo scritto, Kafkiano, come lo definisce Sergio, è assolutamente intrigante. Se ne deduce una morale davvero particolare, non certo rassegnata malgrado l'apparenza. Brava!
- Anch'io l'ho trovato leggermente kafkiano,
Comunque originale e molto ben scritto. Complimenti!
- originale nonostante non nasconda fin dall'inizio la soluzione del mistero non risulta nè pesante nè noioso da leggere. complimenti anche per la descrizione del luogo!
- sembra di essere catapultati in un racconto di kafka.. avrei nascosto gli artigli dei poliziotti per non svelare troppo presto lo zolfo... bravissima
- molto brava
- Grazie... e spero di leggere presto altri tuoi scritti
- nessun problema... alla prossima!
- HO SCRITTO UN COMMENTO SGRAMMATICATO... SCUSAMI TANTO
- Quando ho letto Oliviero, ho pensato epr un attimo che tu avessi sbagliato commento. Poi ho capito... Oliviero e Oreste!
Confesso candidamente che non ho capito quello che vuoi dirmi... ma questo è un mio limite. La persona che vuole pasare avanti a tutti i costi è un uomo che non ha accettato la vita perchè forse non ha capito che stava vivendo e di conseguenza dove si trova ora. Oreste è consapecole della vita, di aver vissuto e di dover aspettare eprchè qualcosa ancora si deve compiere in questo consiste la sua accettazione, il sapere di aver vissuto. Ma se non hai consapevolezza di qualcosa come fai ad accetare questo qualcosa?
- Grazie per il commento.
Oreste ti sembra apatico?
Penso che accettare non significa necessariamente subire. A volte accettare un qualcosa è molto più difficile che contrastare, è una presa di consapevolezza. Accettare la vita o la morte quindi non significa subirla, ma vuol dire avere consapevolezza di quello che si è dei propri limiti e delle proprie forze e per questo bisogna vivere al meglio.
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