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Storia di una chiamata - Capitolo 4°
… e sono, ancora una volta, sul pullman nei primi giorni di Luglio del 1980 e viaggio verso Assisi alla ricerca della mia “identità”, quella nuova, perché la prima è durata appena dieci anni, quanto è durata la mia splendida comunità catanese.
Comunità, parola “innervata” dentro il mio essere, realtà meravigliosa, prima intravista, poi “assaporata” a Catania, ma ora svanita nel nulla, quale spuma che si perde nel mare sconfinato della vita.
Realtà che resta sempre iniziale e mai definita e quando sembra chiara e sicura si trasforma, diventa “struttura” con regole precise, con confini definiti da paletti di proprietà: “Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori” e la comunità sparisce!! Ma io continuo a chiedermi, nell’oggi storico, in questo spazio e in questo tempo in cui io vivo, perché non è più possibile realizzare lo spirito fraterno delle prime comunità cristiane? Perché la metodologia diventa quasi un fine e non si pensa che la testimonianza di uno sparuto gruppo che vive nell’amore fraterno è l’unico fine della credibilità della nostra fede?
I pagani di ieri del mondo romano potevano dire per i cristiani di allora: “Guardate come si amano!”. I moderni pagani d’oggi: gli atei, gli agnostici, gli indaffarati, gli indifferenti, gli oppressi che cosa possono dire di noi cristiani “Guardate come scrivono bene, guardate come parlano bene, guardate la sala dei loro “convegni” è zeppa di … competenti!”.
Tutti questi perché mi “pulsano” dentro, ma no, è solo “l’assordante” musica che l’autista ci propina per tenere su il morale della “comitiva” in cui mi trovo.
Tutto ciò non basta, perché l’altro malefico dubbio (alimentato dalla presenza di alcune famiglie) mi riaffiora insidioso: “Ma ho sbagliato chiamata? Dovevo seguire la comune strada del matrimonio se volevo vivere l’amore?”
Mi disturba ora questo pensiero, perché ogni volta che sono in crisi diventa “certezza”. Mi alzo e mi siedo da sola all’ultimo posto dell’autobus, volgo un rapido sguardo a Margherita, che è seduta tranquilla vicino alla sorella Rosalia.
Forse la monotonia della strada suscita in me “monotoni” pensieri?
Improvvisamente il panorama cambia.
Ora appoggio la fronte al vetro del finestrino chiuso e provo come una piacevole “frescura”, allontano la tendina e all’improvviso ti vedo nel tuo cielo e nel tuo lago Cormaro, così leggo nel cartello. Fisso lo sguardo sulle spumose nuvole bianche che danzano nel cielo e mi sento “libera e leggera”, quasi mi distacco e mi sembra di “danzare” con Te nel tuo cielo fra le bianche nuvole e posso lodarti e benedirti sempre, o Trinità beata, prima, unica, eterna comunità amata e amante! Grazie perché riesco ancora (nonostante delusioni cocenti) a riposarmi in Te o Trinità!
Ecco ora il grande-piccolo rilucente e vibrante lago abbracciato dalla terra feconda di verdeggianti, stupende colline. Il lago luccica con i raggi del sole che, brillando, formano delle lunghe strisce di luce: una di esse sale e, formando una rilucente “lama di luce” arriva nel mio stanco, pesante cuore di pietra e improvvisamente lo rende di carne, capace di nuove speranze.
Ecco, Ti sento chiaramente ora: “Se hai fede quanto un granellino di senape dirai al monte - Spostati! - E il monte si sposterà” ma io, Gesù, non ho ancora tale fede, ma Tu sì.
E già io vedo il risultato, perché tu, con la forza del Tuo Spirito, hai spostato, no, hai tolto il macigno che mi opprimeva. Grazie, ora ti sussurro, perché nel tremendo travaglio interiore di questo mio momento esistenziale, in cui mi sento mancare la terra sotto i piedi, Tu ti fai risentire “dentro” e mi rassereni attraverso le bellezze del creato: “Laudato sii mi’ Signore per sora acqua la quale è umile, preziosa et casta”.
Umile: ecco dammi ora la santa umiltà, quella di accettarmi con i miei limiti umani, con le paure inconsce che ancora riemergono dall’abisso istintivo del mio Ego e dammi la pazienza di amare prima di tutto me stessa, gli altri dopo…
…E l’autobus ora corre, superando ponti e autostrade, attraversando cittadine e corre verso Assisi: è lontana ancora, dicono sul pullman. Ma io ho fretta, molta fretta e voglio arrivarci da sola, senza aspettare “la comitiva” in cui mi trovo.
Escogito un sistema speciale, sono bravissima nell’isolarmi in mezzo alla folla, riesco sempre a crearmi un mio “spazio”. Ma come posso fare? Per prima cosa abbasso il vetro del mio finestrino, ci riesco bene e respiro aria pura, non più “condizionata” e contemplo in lontananza il lago che già sparisce dalla mia vista e, in alto, vedo un volo d’uccelli e vicino a loro una spumeggiante nube che sembra proprio un cavallo alato, ma… è Pegaso? Si è trasformato in una nuvola?
Ora sembra invitarmi a salire, io non mi faccio mica pregare e ardita scavalco il bordo del finestrino, prendo le distanze e, con uno stupendo salto in lungo, lo raggiungo e lo cavalco, afferro le redini che non ci sono e ordino: ”Hop, hop, presto si va ad Assisi!” e quasi subito intravedo la città.
Ringrazio ed accarezzo il mio cavallo bianco, scendo rapida giù a terra. Non ho più paura, infatti, ho acquistato movimenti sciolti e armonici, io che di solito sono così “imbranata”! Volgo lo sguardo in giro e la città mi appare in tutto il suo “splendore”. Conserva le mura antiche e in lontananza s’intravede un “turrito” castello, ma le mura sono alte e massicce, e che! Dopo sì lunga attesa non posso entrare da sola nella città?
Osservo in giro, cammino un poco e vedo due sentinelle, anzi due giganti che, immobili e silenziosi montano la guardia all’enorme porta borchiata di ferro.
Mi preoccupo. Ma come vi posso entrare senza essere vista e senza essere “infilzata” dalle loro alabarde dalla punta acuminata??!
Mi chino, mi nascondo dietro l’albero immenso, mi faccio coraggio e li guardo ancora: hanno lo sguardo assente come perduto lontano, non si accorgono di me, ma certo io sono piccola piccola, loro sono i “custodi” della storia!
Ardita, con entrambi le mani, spingo la “sacra” porta che, facendo uno stridio acuto (come una brusca fermata dell’autobus), cigola e si apre. Curiosa entro nella cittadina a me già cara. Come sono tranquille le stradine! Ecco mi sembra di trovarmi nel mio paesello: a Canolo ci sono, infatti, tante tante viuzze con lunghe scalinate.
Ma c’è vita serena in questa tua città santa! Dai balconi ridono colorati gerani e tutto all’intorno ferve il lavoro. Gli artigiani sono all’opra, le laboriose donne d’Assisi impastano il pane senza sale e poi dai forni di pietra il buon odore si sparge per tutto il paese e avida ne respiro “la fragranza familiare”.
Che cosa è mai questo suono argentino? Ma certo sono dei bimbi che giocano o ridono! Ma quella è Giusi! Che fa qui? Che fanno qui i miei alunni? Ma chi li ha portati qui? ?" mi chiedo?" dove sono le loro mamme? Mi preoccupo un poco, li chiamo per nome: “Giusi, Patrizia, Ale, Piero, Enzo, Salvo, Emanuela, Paola, Cettina, Gabriella, Luca, Santo!”, ma non mi sentono pare, non mi rispondono, mi avvicino ancora, ma neanche mi vedono, io invece li vedo, li guardo stupita e noto che Patrizia, come sempre fa l’animatrice del gruppo. Ora serena ordina ai compagnetti di sedersi in semicerchio e poi, imitando me, dice: “Cari bambini ascoltate un momento, ho trovato una poesia significativa, adatta al nostro percorso educativo. Ripetiamola la prima volta insieme per acquisire la giusta “tonalità” e poi la studierete a memoria per “farla vostra”. Domani la commenteremo insieme liberamente e la illustrerete con i vostri disegni. Ora in silenzio ascoltate:
“CERCO UNA SCUOLA”
…Cerco una scuola per neri e per bianchi,
dove si possa uscire dai banchi,
si trovi il tempo per raccontare
e prenda dieci chi vuole aiutare;
dove i maestri,
compresi i supplenti,
sian più spesso felici e contenti
così, fra la storia e la geografia,
ci sarà posto per l’allegria!
Non ricordo più l’autore: Marini o Noschini?
Entusiasta per la “dizione” perfetta della mia scolaresca batto le mani, ma nessuno mi sente, nessuno si gira dalla mia parte. Ma per caso sono diventata “invisibile”?!!
Ma che miracolo! La poesia declamata da Patrizia acquista un tono speciale e tutti i bambini d’Assisi l’hanno udita e dalle tante viuzze scendono a gruppi e formano un enorme cerchio. Che splendore!
Ora osservo i più piccoletti, paffutelli e riccioloni, con occhini rilucenti, sembrano angeli senza ali, angeli usciti dal pennello “divino” di Raffaello. Tutti convergono in quest’enorme prato verdeggiante e pian piano il loro “gioire” si smorza, resta solo un senso di pace infinita, di pace… e un divino silenzio interrotto dal canto degli uccelli. Ma che strane colombe bianche ora volteggiano intorno a me! Sono indifferenti alla mia presenza e ho il tempo di osservarle, ma sì, sono “le tortorelle” di Francesco. Ma lui dove si trova? Vorrei proprio incontrarlo anche per pochi momenti!
Mi siedo sul verde prato della speranza, accarezzo piano le piccole pianticelle che hanno le rosse bacche della gioia e… alzando gli occhi lo vedo. Ma è lui?
Stento a riconoscerlo: indossa un liso abito che sembra un sacco di iuta, è scalzo. Lo guardo estatica. Ma è più basso di me! È solo una “spanna d’uomo”, ma ha saputo “abbracciare il… mondo” e c’è riuscito, pare, nonostante la sua piccola statura fisica!
M’inginocchio ed aspetto ansiosa, ma sì mi viene incontro avvolto in un luminoso sorriso: ”Oh, sei venuta Rosarita? Finalmente! Ma perché ti tormenti stupidamente? Ancora non hai capito che la tua chiamata è un po’ simile alla mia? Anche io non amo “le strutture”, ma amo la “Chiesa”, anche io non credo nelle regole, ma credo nell’Amore. Alleluia! Su mettiti di nuovo all’opera, Cristo ha ancora bisogno della tua “ingenua fede”. Perdona, ama, accogli, costruiscila tu “la comunità”, falla nascere dal tuo cuore dilatato nell’Amore-dono, nell’Amore-servizio. Ascolta, perché non provi a fare scuola in modo “nuovo”? Perché non immetti questo spirito fra i piccoli? Anche loro hanno bisogno d’amore e d’accoglienza, puoi farlo per tanti anni ancora, fin quando sarai maestra unica!”
Che strano, non ci avevo pensato!
Francesco sorride, mi prende per mano e mi esorta: ”Svelta, ritorna sull’autobus, state per arrivare nella mia città. Auguri!”
Mi giro svelta: ma che voci concitate attorno a me, tutti si affrettano a prendere i bagagli più piccoli, sistemati sulle retine laterali dell’autobus. Mi alzo lesta e svogliata, cerco con lo sguardo Francesco, ma non c’è, non c’è più… qui c’è solo una “comitiva frettolosa”. Faccio passare tutti e alla fine Margherita mi chiama: “Rosarita, che fai? Dormi? Non dimenticare il tuo borsone. Ti aspettiamo.”
Ah, sì! Lo trovo, è rimasto l’ultimo di tutti, è alla ricerca del padrone, vuole essere preso e lo faccio paziente.
Scendiamo tutti, l’ultima sono io. Posiamo i bagagli nell’atrio dell’albergo e subito visitiamo la prima chiesa che si trova proprio di fronte al nostro hotel: S. Maria degli Angeli.
Nella luce tenue del tramonto salgo i pianeggianti gradini di pietra ornata con fili di marmo bianco che, in una visione d’insieme, forma come un “ricamo”, no come un “disegno” che converge verso la facciata rinascimentale classicheggiante della chiesa, opera dell’ Alessi?" precisa la guida.
Entro e… che meraviglia d’arte, di luce, di silenzio, di musica! Ma chi canta? Forse sono gli Angeli che fanno corona Maria? Ma non li vedo! Nella navata centrale spicca una piccola, rustica, “immensa” cappella che può contenere “il mondo”. Questo io lo comprendo subito: è la Porziuncola, rifugio prima dei Benedettini poi donata a Francesco, che ne fece il punto focale della sua primitiva fraternità.
Anche senza ascoltare la guida, capisco tutto, anche d’arte, ho la certezza di esservi già stata e neanche provo una grossa meraviglia quando, nella sacrestia, le bianche “tortorelle”, nidificano nel cesto, fra le braccia di Francesco che ora è solo una statua leggera, ma lo riconosco subito: l’ho visto poco fa!
Una si stacca dal nido, mi vola attorno e mi guarda con i suoi occhietti a spillo e… si dirige verso l’alto e vuole suggerirmi l’idea dell’altezza.
Sì, ho capito, non posso stare giù in pianura a “ruminare” il mio fallimento, perché non ho più “la comunità, ma volerò ancora e la troverò certo, anche se dovrò attraversare “deserti di città” e “oceani d’indifferenza”, arriverò, ma dove?
Margherita, premurosa, mi cerca tra la folla, mi riporta alla realtà e insieme, in gruppo, torniamo all’albergo.
Certo, è accogliente la stanzetta n. 21 a tre letti (io, Margherita e Rosalia), proprio accogliente e inoltre dal nostro quinto piano s’intravede la cupola della chiesa, anzi la statua di bronzo dorato della Madonna che, con le braccia aperte, sembra dirmi: “Dormi su, dormi, domani mattina ti aspetto qui”. “Certo?" rispondo?" verrò. Verrò e da sola”.
Un raggio di sole mattutino inonda il mio letto di luce, ma è presto, non sono neanche le sei del mattino!
Margherita e Rosalia, stanche e placide dormono ancora, ma io no! Non posso dormire, perché il “vecchio tormento” mi assale, piano mi alzo, mi vesto e poi, guardinga, chiudo la porta della nostra stanza, scendo le scale, saluto il portiere e mi trovo all’aperto: davanti ai miei occhi c’è la Basilica.
Salgo i cento, i mille gradini che mi portano dentro. Spingo la porta, la Basilica è aperta, il sole inonda di luce le tre navate, io mi affretto verso la “Porziuncola”, piccolo pezzo di terra significa, ma sacra, sacra d’amore! Non ci arrivo, perché un piccolo altare laterale, ornato di pitture, attrae la mia attenzione e, infatti, al centro c’è un moderno tavolinetto, due sedie e… uno striscione con una curiosa scritta: “UN SACERDOTE È QUI PER TE”.
“Per me? Perché?”- mormoro, anzi grido a voce alta nel sovrumano silenzio reso sacro dall’enorme via vai di gente?" ma che dico? ?" di fratelli di fede, di speranza, di dolore. “Per me? ?" ripeto. “Sì, certo figliola, io sono qui per te! Stai serena, Francesco ti dà la pace”.
Ma chi è questo moderno “angelo”? Non ha le ali e indossa un liso abito scuro, marrone mi pare, le lacrime che offuscano i miei occhi non mi permettono di distinguere bene, ma lo guardo dubbiosa e mi viene da… ridere.
“Figliola” ?" ripete piano, ma… è lui un mio “figliolo”! Non ha più venti anni; ha lucenti occhi verde-azzurri, ricci capelli castani, bei lineamenti nell’ovale del viso contornato di un bel pizzetto tipo “risorgimento”. Mi calmo e vedo che indossa un abito rilucente, quello della “gioia e della speranza”, mi guardo dentro: il mio è veramente “sfilacciato e sdrucito”, è impregnato di polvere malefica del dubbio, della “puzza” del risentimento verso me stessa e verso gli altri. Ecco devo “fabbricarmi l’abito nuziale per andare al banchetto del Regno”.
Impongo decisa alla mia stanca mano di alzarsi nel segno della Croce e comincio. “Padre”, subito mi fermo interdetta, da qualche tempo, da troppo tempo non pronuncio più questa parola per un tuo “ministro” per il sacramento della confessione, ma ora la ripeto umile e commossa ad un “sacerdote” che, in verità, mi può essere figlio!
Miracolo della fede, miracolo della tua chiesa, miracolo di Francesco!
Ma come sono calde le lacrime, perle lucenti che rotolano preziose sul piccolo tavolino! Svelta le raccolgo e le deposito sul tuo cuore di Padre e di Fratello te li restituisco come tuo dono: ora non mi servono più.
“Figliola, prega per tutti quelli che soffrono e anche per quelli che fanno soffrire”.
Cosa fa, ripete le parole dell’Ermengarda di Manzoni? Mi scuoto, sorrido fra me ed il fraticello certo non sa che mi ha riaperto le porte della speranza e in semplicità francescana mi esorta: “Ritorna serena a Catania, troverai la tua pace e la tua strada, cerca i francescani, io pregherò per te, Rosarita”.
Io mi meraviglio, come sa il mio nome? Ma sì, chissà quante cose ho detto parlando in libertà! Che bello: mi sento leggera, libera dentro, sorrido, allungo la mia mano per stringere la sua, ma improvvisamente, in un sorriso radioso, che stranamente mi ricorda un altro sorriso radioso di un giovane futuro prete catanese, mi abbraccia.
Che libertà! ?" penso?" Ma come il distacco è distaccato dalla sua persona, come lo è per suor Matilde!
Ora mi avvio rinata verso la “Porziuncola”. Come ispira pace! Com’è bella! Com’è “francescana”! Ecco anche io sono di nuovo bella: creatura libera, creatura rifatta libera dal tuo Amore, o Signore!
Ringrazio, contemplo, sorrido da sola, esco, scendo le lunghissime scale pianeggianti, anzi non scendo, volo e il vento mi scompiglia i capelli, il mio vestito ora è tutto rilucente, intessuto d’oro fino…
“Tutta bella sei sorella, mia sposa” Ma che cosa dici, o Signore, al mio cuore? Pensavo di aver incontrato un angelo e alla fine guardavo se avesse (se aveva?) le ali, ma lui non poteva averle perché li aveva date a me! Che bel regalo! Posso ancora volare e al volo acchiappo gli occhiali rosa che avevo smarrito, li infilo svelta e torno all’albergo, appena in tempo, perché l’auto sta per partire dopo la colazione.
Margherita m’intravede, mi viene incontro e chiede: “Ma dove sei stata tutto questo tempo? Mi dispiace, ma stamattina hai perduto la colazione. Ora sali subito sull’auto, stiamo per andare nei luoghi francescani.”.
“Sì ?" penso perplessa?" ma io ho gustato latte e miele e come Elia posso riprendere il cammino”. Ma stavolta non dico niente. Godo: tutto il mio essere è sereno, godo per essere stata rappacificata dal perdono d’Assisi, perdono ricevuto nell’umiltà, perdono offerto nella gioia ritrovata. Ora sul mio fresco viso di donna ritorna il roseo naturale colorito, gli occhi hanno lasciato il buio e brillano di nuova luce e sembrano anche più grossi e più belli (con le mie rilucenti pagliuzze castane). Ma guarda, aveva ragione suor Matilde, ad Assisi ho ricevuto “la guarigione interiore”, la più bella per poter vivere!
Guardo dal finestrino i merletti dei tetti delle case, la stupenda, serena campagna umbra.
Scendiamo tutti, siamo arrivati; una salita ci attende (stavolta ho la forza di farla) e, in fondo, c’è il primo luogo francescano: l’Eremo della Carceri.
Tra i fitti alberi gorgheggiano gli uccelli e in lontananza l’usignolo tiene il ruolo di “solista”.
E anche io canto “Eh?! Guarda sono intonata!”. Una voce lieve, modulata che non è la mia (stridula e stonata) esce ora dal mio cuore e si rifrange all’intorno in rapidi cerchi d’azzurra gioia. La visione del lago mi torna alla mente e… strano, il brutto anatroccolo, ora diventato cigno mi saluta dispettoso, mi spruzza l’acqua, mi giro, non c’è più, c’è solo una bimba che cerca di bere nella bella fonte ed io sono in fila dopo di lei. Rosalia dietro mi fa cenno di spicciarmi, bagno appena le labbra e rifaccio il giro, mi metto all’ombra vicino al resto del gruppo. Margherita mi osserva, le sembro strana: “Hai fame? Il sole forte ti dà fastidio? Stai male?”. “No, sto bene, troppo bene!”. Rassegnata scuote la testa, certo questo viaggio mi ha proprio cambiata, anzi mi ha peggiorata, sono “più distratta di prima”. Mah! Mah! Chissà perché!! Risaliamo sul pullman per andare a S. Damiano.
Eccolo S. Damiano, si presenta ai miei occhi con una semplicissima facciata preceduta da un basso porticato; da un lato, in alto, si vede uno scarno rosone. L’interno, immerso in una certa penombra, è un ambiente formato da un’unica navata, terminante in un coro piuttosto profondo. Più che ad una chiesa penso ad una grotta, ma ad una grotta di luce immersa nella campagna umbra. Si respira “pace” e riesco a rubarne un pezzo per me sola, nessuno ci fa caso; ora sento un lieve cantare strano, ne riconosco la voce, ma è la sua: è quella di Francesco.
Svelta mi avvicino alla finestrella aperta che dà sul chiostro e lo vedo: è lui! Soavemente ripete: “Laudato sii mi’ Signore per madre terra, ci alimenta e ci sostiene con coloriti frutti, fiori et erba”. Ho appena il tempo di incrociare il suo sorridente sguardo e subito sparisce dalla mia vista, ma non dal mio cuore. Da oggi in poi avrà uno spazio assicurato dentro il mio essere!
Che santo simpatico che sei per me, piccolo, sereno, innamorato Francesco, fratello in Cristo, fratello mio!
Di nuovo sul pullman, io mi trovo con dentro “sensazioni che non so descrivere, ma belle, belle, belle. “Che pensieri soavi, che speranze, o Rosarita mia!” mi ripeto estatica.
Quale sarà la prossima tappa di questo viaggio? Perugia?" dicono.
L’auto corre, ma eccola Perugia, antica, bellissima. Ci fermiamo alla fonte Gaia, celebre opera del Pisano. Dopo la visita alla Cattedrale, la guida annuncia: “Avete due ore libere. L’autobus vi aspetta qui, accanto alla chiesa”. Alcuni dicono: “Andiamo alla Standa, è qui vicino”.
Inorridisco e mi avvicino al preside S. e chiedo: “Lei dove va?”. “Io e la mia famiglia andiamo a vedere la Pinacoteca del Perugino”. Timidamente propongo: “Posso venire con voi?”. “Con piacere” ?" risponde cortese.
Entro nella Pinacoteca. I quadri sono pochi, ma splendidi. Quasi subito il mio sguardo attento si posa sul “Noli me tangere”. “Non mi toccare”- traduco in fretta.
Gesù circondato di luce, con il braccio teso e la mano aperta, sembra come voler allontanare la Maddalena, che tende ansiosa verso di Lui lo “sguardo innamorato”.
Questa scena parla al mio cuore, perché mi somiglia tanto. Questa donna vuole fermare un attimo per sé il Maestro. Non ha ancora imparato che Lui va sempre avanti e precede nel cammino? Io l’ho imparato a mie spese.
Porto nel cuore questa “visione d’arte” e all’uscita incontriamo altri compagni di viaggio, alla fine il gruppo si ricompone e torniamo tutti all’albergo. È l’ultimo giorno di permanenza ad Assisi e la serata sarà “libera”.
Ma io so dove andare la sera: a salutare la mia “Porziuncola”.
Conservo negli occhi la visione del quadro. Gesù sembra dirmi: “Vai, ritorna a Catania, porta con te la pace che ti ho regalato ad Assisi”.
Ora abbiamo appena finito di cenare, ho gustato il pane senza sale, ma… strano, è molto gustoso e saporito. Qualcuno si attarda nella bella terrazza per “godere il fresco”, io, non vista, giro l’angolo e ritorno da sola alla mia “Porziuncola”.
Entro, la sensazione di pace si rinnova, arrivo dentro la cappelletta, trovo un inginocchiatoio libero, mi sprofondo in preghiera: “Ho per parlarti piccole parole, hai per sedurmi abissi di silenzi”. Ti sento vivo in me, reale accanto a me, ti faccio spazio, mi sposto un poco sul duro inginocchiatoio. “Tu c’entri in questo spazio? Tu, o Signore, ci stai bene vicino a me? Io sto bene con me stessa (mi sento come ricostruita) e sto bene anche con Te, su camminiamo insieme, aprimi, a Catania, la “strada nuova”, vedrai saprò “riconoscerla”. Quanto tempo è passato? Non lo so. Ma chi è questo “nordico” giovane biondo e alto con acquosi occhi azzurri che mi regala un sorriso? Lo ricambio di getto.
Io intanto cerco il fraticello del mio primo incontro, ma non lo trovo più. Mi muovo, arrivo nell’angolo della sacrestia. Ecco le tortorelle dormono placide e tenere nel cesto, ma Francesco è ancora sveglio e mi lancia uno sguardo complice di gioia, io ricambio, ma nessuno delle poche persone che si trovano vicino se n’accorge, meno male, le spiegazioni sarebbero imbarazzanti…
Ritorno sui miei passi, la scalinata è piena di giovani, che con le chitarre cantano. Mi siedo in mezzo a loro e ascolto felice:
“Piangendo Francesco
disse un giorno a Gesù:
“Amo il sole, amo le stelle,
amo Chiara e le sorelle.
Amo il cuore degli uomini,
amo tutte le cose belle,
o Signore, mi devi perdonare
perché Te solo io vorrei amare”.
Sorridendo il Signore
gli rispose così:
“Amo il sole, amo le stelle,
amo Chiara e le sorelle.
Amo il cuore degli uomini,
amo tutte le cose belle.
O Francesco,
non devi piangere più,
perché io amo
ciò che ami tu”.
Ecco sono di nuovo sull’auto, ma per il viaggio di ritorno. Riprovo a cercare “l’ultimo posto”, è ancora disponibile e mi estraneo dal gruppo.
“Laudato sii, o mi’ Signore”, perché le meraviglie non sono ancora finite. La Cascata delle Marmore è annunciata prima dai tanti cartelloni pubblicitari e poi dalla presenza di verdeggianti colline e ora dalla “frescura”.
Il Velino, scorrendo da Est ad Ovest, è visibile dal colle di Greccio e nel suo cammino s’incontra con la Nera, che sta scendendo dal Nord dell’Umbria e, proseguendo poi insieme si buttano nel Tevere, non molto lontano da Roma. Che spettacolo superbo!
L’acqua spumeggia all’intorno, la luce del sole sembra dividerla e poi la ridà a noi sotto l’aspetto iridescente dell’arcobaleno, splendore multiforme di luce, patto dell’alleanza fra Dio e l’uomo.
“Dovunque il guardo io giro, immenso Dio ti vedo, nell’opre tue ti ammiro, ti riconosco in me” così cantò il Metastasio.
Ma le emozioni di questo viaggio stupendo non sono ancora finite. Anche la Puglia ha un regalo per me: le grotte di Castellana.
Ora ci mettiamo tutti in fila indiana per scendere con l’ascensore nelle viscere della terra per vedere le “stalattiti” e le “stalagmiti” pietre levigate dalle acque sotterranee. Lo spettacolo è particolare, mi sembra un paesaggio dantesco: marmi e alabastri hanno assunto forme speciali, strane?" la Madonnina, il Presepe?" e ancora si sente “lo gocciolio” lento e martellante. L’aria è rarefatta, l’umidità è forte, il freddo pungente, ma si prova una sensazione da… fiaba, le pietre sono “creature vive” come le piante lassù, sulla terra che abbiamo lasciato.
Con lo sguardo le accarezzo tutte, specie le più “vecchie” e “spugnose”. Un altro spettacolo mi aspetta nella risalita con l’ascensore: è uno spettacolo che m’inebria; in alto, dove filtra e arriva la luce del sole, si è formato un cerchio rilucente che scende e contrasta con la voragine interna. Questa striscia di luce è come circondata dalla caligine interna e profonda e la sensazione che provo è contrastante e superba insieme.
“Io sono la caligine e Tu sei la luce, fa’, o Signore, che da opaca tenebra possa toccare la luce, inebriarmi e annullarmi in Te, mia Luce ritrovata. Amen”
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