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Visioni volontarie

Ero come un barbone, steso su una panchina al parco a sopportare la fame, la stanchezza, l’afa. Divennero irraggiungibili i ricordi delle estati passate da ragazzo, a sudare dietro a un pallone. C’era una madre con la sua piccola creatura tra le braccia e il verso continuo delle cicale offuscava a me questa contemplazione, rendendomela come di sogno, visione mistica dell’abbandono e dell’amore inconsapevole che di volta in volta si rinnova, nelle lacrime e nei sorrisi. Il sole scendeva dietro la piccola stazione ferroviaria e il cactus bruciava al respiro del vento; il treno fischiava senza fermarsi: nessuno era sceso, nessuno era salito. Nell’aria immobile solo i colori e i profumi producevano un vortice di vita variegata. C’era una ragazza seduta di fronte a me, mancina, scriveva a testa bassa con l’aspirazione di diventare scrittrice: era bella, ma svanì in un colpo come la fortuna quando passa e non bussa alla tua porta.
E la vecchina, si! L’avevo già vista addormentarsi in chiesa tra i mille dolori della sua età: il sonno la colse quasi d’improvviso senza spiegazioni, senza illusioni pure. E poi la vidi raccogliere i suoi stracci, pochi, e tornare a girare sui marciapiedi della solita città.
Da molti giorni il poeta stava affacciato alla finestra, a guardare le nuvole passeggere, i piccoli uccelli a cinguettare nel nido, le notti stellate sottolineate dalla brezza marina. Qualcuno mi diceva che fosse in un periodo di profonda ispirazione per la sua imminente nuova opera; io, intanto, ascoltavo nella mia stanza i Radiohead e quelle parole di propaganda mi sembravano tante fesserie, dette dai furfanti per abbindolare gli sciocchi. Almeno così sembrava mi stesse dicendo Kipling, che nel frattempo si era seduto all’angolo della camera in procinto di tirare dalla sua pipa. E io avevo un’insospettata voglia di sigaro. Così tolsi le mani dalla mia testa per cercare di resistere al sonno mancato durante la notte e continuai a partecipare al dibattito sulle questioni religiose, che riscuotevano un notevole successo. Era un teatro pieno di gente vociante, una sorta di commissione interrogava e io ero tra gli interrogati. In quel gran baccano schernivo copiosamente le risposte dei miei colleghi interrogati e non mi rendevo conto della mia insolubile stoltezza allorché fui chiamato a fare la mia parte.
- E ora ascoltiamo il signor Teodoro… ci parli del quinto comandamento.
- Lo sapevo che doveva chiederlo proprio a me.
Ma neanche ebbi il tempo di rispondere (in realtà non conoscevo il quinto comandamento), che tutto il teatro diede la risposta in coro, commissione compresa, come se fosse l’assioma cardine delle leggi universali. Ovviamente, in tutto quel contemporaneo frastuono, non capii nulla di quello che si urlava all’unisono, rimanendo interdetto e molto ignorante. Spensi la mia cauta rabbia e il mio inesistente dolore in un bicchiere di vino, insieme a tre vecchi miei amici, seduti a un tavolo confinato nella penombra. Tra risate piacevoli e inspiegabili, io facevo gli auguri per la laurea di uno dei tre amici che non vedevo da molto tempo.
E il poeta smise di affacciarsi alla sua finestra azzurra, il cielo si fece più scuro e minacciava pioggia. Dopo molti anni furono ritrovati frammenti del manoscritto; solo in quel momento venne riconosciuto il giusto merito e tributato il susseguente onore letterario a quell’uomo basso e senza capelli, che aveva spesi gli anni chiuso in una stanza, isolato dal resto dell’universo per comporre la sua monumentale opera.

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