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RITRATTO DI PADRE E FIGLIO IN UN INTERNO
Il ronzio del climatizzatore acceso era diventato un’abitudine, uno di quei rumori che se all’inizio danno fastidio alla fine diventano familiari, per amore o per forza. Claudio era curvo sulla scrivania e stava compilando il suo modulo della dichiarazione dei redditi, con gli occhi bassi e gli occhiali calati sulla punta del naso. La vista era peggiorata parecchio negli ultimi tempi, anche se le visite oculistiche aziendali lo consideravano ancora nella norma; d’altra parte è normale, pensava, dopo vent’anni con gli occhi incollati allo schermo, ma il momento peggiore era arrivato da poco, subito dopo i suoi primi quarant’anni. Si allentò la cravatta, senza curarsi della parte di tessuto liso che si era premurato di nascondere sotto il nodo, bevve un sorso di caffè lungo della macchinetta e con la mano libera continuava a battere cifre sulla calcolatrice. Arrivò Sergio Trivella, il suo capo settore, serio magro e smorto, con quella perenne aria scocciata che lo invecchiava, eh sì, perché a conti fatti era anche più giovane di Claudio, non arrivava nemmeno ai quaranta.
“Che fai?” disse
“Finisco il 7 e trenta.” Rispose senza distogliere lo sguardo dal modulo.
“E quando lo devi consegnare?”
“Giovedì mattina.”
“Sai che non ci piace che lo si compili durante l’orario di lavoro.” Fece, con un tono che a Claudio non piacque affatto.
“Smonto fra tre quarti d’ora, e per oggi ho finito il lavoro.” Cercava in ogni modo di non causare motivi di scontro senza però cedere del tutto al servilismo, era un equilibrio sottile, ma indispensabile, o almeno, Claudio ci teneva a mantenerlo, un po’ per amor proprio un po’ perché non poteva permettersi di essere scavalcato ancora una volta.
“Hai finito la presentazione? Sai che per domani dobbiamo presentarla all’ufficio progetti.” Cercava di coglierlo in fallo.
“Finita, è salvata nella cartella condivisa, puoi andarla a prendere quando vuoi.” Non era il suo mestiere, Claudio era un tecnico operativo, ma i nuovi tempi gli imponevano uno sforzo, per restare al passo, per non passare di moda, e il compromesso era anche questo: fare ridicole presentazioni con power point per invogliare i finanziamenti delle alte sfere, trovare soluzioni accattivanti, ma da un punto di vista grafico, non funzionale. Era un lavoro da addetto al marketing, o qualche storia del genere.
“E ritieni che sia un lavoro fatto bene? Arriva Benti Frasati domani, non possiamo permetterci altre figure del cazzo.” Disse mentre stava radunando una pila di cd da portare in amministrazione. Carlo Benti Frasati arrivava da Roma, ed era un pezzo grosso, uno degli amministratori delegati, dipendeva per buona parte da lui la sopravvivenza di quella parte d’azienda. Quel nome rimbombava nella testa di Claudio come una minaccia, o per lo meno il parlare degli altri glielo aveva imposto come tale, ma alla fine non riusciva a farsene del tutto un problema, perché sapeva che un lavoro perfetto non sarebbe bastato, serviva qualcosa di più, e quel qualcosa saltava fuori il più delle volte all’ultimo momento, senza preavviso, quando ormai era troppo tardi. Tutti sapevano che era così, ma molti non se ne facevano una ragione, molti pretendevano di ragionare sull’imponderabile, di avere tutto sotto controllo; sotto quel profilo Claudio era corazzato. Dove non poteva arrivare la sua volontà arrivava provvidenziale l’anestesia. Così chiamava quello stato che rendeva immuni al dolore, e anche un po’ spavaldi.
Continuava a lavorare sul suo modulo della dichiarazione dei redditi, mentre Trivella armeggiava lì intorno, come se volesse tenerlo d’occhio, metterlo a disagio o, chissà, farlo sentire in colpa. Ma in colpa per cosa? Trivella apparteneva alla categoria di quelli che non sapevano farsene una ragione, per cui era in uno stato di totale apprensione, e cercava qualcuno su cui sfogarsi e magari a cui imputare un eventuale fallimento. Ma nel caso in cui la barca fosse affondata Trivella sarebbe annegato assieme a tutti gli altri, per cui non c’erano ritorsioni da temere: il peggio che poteva capitare era finire a spasso, ma Claudio, con l’esperienza maturata negli anni e l’affidabilità dimostrata, poteva ancora nutrire qualche speranza di rimanere in azienda, magari con un altro incarico. Claudio diede un’occhiata all’ora del computer: erano le sette spaccate, poteva smontare, quel poco che rimaneva da fare per la dichiarazione l’avrebbe ultimato a casa. Si alzò dalla scrivania, raccolse i suoi scartafacci e un paio di faldoni nella valigetta, chiuse il portatile nell’armadietto e si avviò all’uscita.
“Ci vediamo domani allora.” Era Trivella, con un tono di voce che pareva rabbonito.
“Perché no?” sorrise, e l’altro ricambiò.
Camminando incrociò lo sguardo di Marta, una delle segretarie di reparto, una ragazza giovane, assunta da due o tre anni al massimo, bella, brava e laureata, ma quasi certa, se non avessero approvato il rifinanziamento, di trovarsi in mezzo alla strada. Claudio si sarebbe voluto fermare per scambiare due parole, ma proprio in quel momento squillò il telefono sulla scrivania della segretaria: si salutarono con un cenno, ma giusto nell’istante in cui si stava voltando Marta lo chiamò indietro: al telefono c’era Giulia, sua moglie. Senza chiedersi il perché di quella telefonata portò il ricevitore all’orecchio: “Claudio?”
“Sì, è successo qualcosa?”
“Stai tornando a casa?” parlava in modo concitato.
“Sì, ma che è successo, mi vuoi spiegare?”
“Ma no, niente, è per Luca.”
“Gli è successo qualcosa?” la preoccupazione gli stava montando, come sempre quando di mezzo c’era il figlio.
“No, niente di grave, si è azzuffato con degli altri ragazzini, qualche graffio, niente di più, ma con me non vuole parlare.” Si era tranquillizzato un poco ora. Ripose la cornetta e si diresse al parcheggio, Marta gli chiese se era accaduto qualcosa di grave. “No, niente di serio, è tutto a posto”.
Salì in macchina, accese la radio e uscì dal parcheggio. Era solito ascoltare i dibattiti che davano a quell’ora, cose per lo più noiosissime, con certe voci gracchianti, monocorde e lente che facevano quasi rimpiangere le cazzate dei dj di turno. No, piuttosto che sopportare un pirla di quarant’anni che fa il pagliaccio vocale preferiva il dibattito, almeno quella era gente che non ammiccava a nessuno: se ti interessava l’argomento allora ascoltavi, altrimenti passavi ad altro, senza ruffianeria.
La statale a quell’ora era ingorgata dal traffico. Claudio rimpiangeva sempre, in quei momenti, di essersi sbarazzato della moto. Amava le moto, ma si rendeva conto che con il passare degli anni la usava sempre meno, e che bene o male si era assuefatto alla comodità delle quattro ruote. Non era vecchio, né si sentiva tale, ma riteneva la moto un retaggio della giovinezza, qualcosa che era meglio lasciare in un angolo di memoria, per evitare malinconie e rimpianti. Di ripiegare su un motorino, come aveva suggerito la moglie, non se ne parlava. Un motorino non ha dignità pensava.
In mezz’ora comunque arrivò alla sua via, ripose l’auto nel box e salì al suo appartamento, al quarto piano. Una volta aperta la porta di casa venne accolto dall’odore intenso di cera e detersivo per i pavimenti: Giulia doveva averlo passato da poco, subito dopo essere rincasata dal lavoro, visto che anche lei era impiegata, ma in una piccola azienda. Provò un moto di tenerezza verso la moglie per quel gesto. Lui non si sarebbe mai sognato di passare la cera dopo una giornata di lavoro, ed era questo, pensava, che lo rendeva per certi aspetti inferiore alla moglie.
Giulia stava armeggiano in cucina, la vide intenta ad impastare qualcosa in un tegame, e il profumo era buono: “Torta salata” disse, con un sorriso “come è andata oggi?”
“Tutto bene, le solite cose.” Rispose con un filo di voce, come suo solito.
“Ci sono novità?” alludeva al famigerato rifinanziamento del progetto, aveva intuito qualcosa anche se Claudio si era premurato di non farle pesare la situazione, ma l’istinto delle donne è fenomenale talvolta: “No, attendiamo la visita di questo dirigente, ma c’è un buon margine, vedrai.” Giulia non disse niente, ma dava l’impressione di essersi rasserenata. Ripose la sua borsa, appese con fare assorto la giacca all’appendiabiti, poi tornò dalla moglie: “Ah, e Luca dov’è?” “È in camera sua”
“Ma si può sapere che è successo?” chiese.
“A me pare che abbia litigato con qualche ragazzino, te l’ho detto per telefono, ha qualche graffio e livido ma niente di grave.”
“Lui che ha detto?”
“Solo questo, non aveva una gran voglia di parlare e ho preferito lasciarlo in pace.”
“E ora che fa?”
“Si era messo a leggere in camera e non ha più spiccicato parola.”
Claudio decise di parlargli, ma non sapeva bene cosa dire, non sapeva che consigli dare, era sempre stato molto parco di consigli, pensava che più di tutto contasse l’esperienza per poter decidere, perché ogni faccenda fa storia a sé. Eppure mentre percorreva i nove metri di corridoio che separavano la cucina dalla stanza da letto si sentì in dovere di fare qualcosa per suo figlio, di provare a spiegargli qualcosa. Ma non trovava argomenti, e nemmeno frasi di circostanza.
La porta della cameretta era socchiusa, bussò e poi entrò senza aspettare risposta: “Ciao campione, come va?” disse, nel modo più amichevole che gli era possibile. Luca era seduto sul letto col libro appoggiato sulle ginocchia, la tuta che indossava in casa e una frangia dei folti capelli castani che gli attraversava in obliquo la fronte: “Ciao papà” rispose, discostando gli occhi dalla pagina ma tenendo lo sguardo basso.
“La mamma mi ha detto della tua disavventura…” era suo figlio ma si sentiva imbarazzato, doveva dire qualcosa, ma al tempo stesso temeva solo di peggiorare la situazione.
“Già…” chiuse il libro tenendo l’indice della mano destra a segnare la pagina.
“Hai voglia di dirmi che cosa è successo?” si sedette al suo fianco.
“È successo che le ho prese.”
“Ma da chi?” provò ad insistere
“Dal Michael Reali e dall’Alessandro Gatto.” Incrociò le braccia in un istintivo moto di autoprotezione.
“E come è successo?”
“Mi prendevano in giro, mi dicevano cose brutte, allora ho risposto e loro hanno iniziato a darmele, ho provato a reagire, ma non è servito a niente.” Aveva le lacrime agli occhi ora.
“Non te la devi prendere campione…”
“Non sono un campione.”
“Sì che lo sei, erano due contro uno, è una cosa da vigliacchi, sono loro che si devono vergognare.”
“A loro non gliene frega niente.” La risposta fu più precisa di un colpo di bisturi, e andò perfettamente a segno, Claudio non sapeva come dargli torto: “Ma che vuol dire? Hanno sbagliato comunque, non si fanno queste cose.” Si rendeva conto che le sue parole erano goffe, prive di una base concreta e che non stavano sortendo alcun effetto. Claudio provò a pensare a qualche episodio analogo della sua adolescenza o infanzia, a che cosa suo padre gli aveva detto in un’occasione del genere, ma aveva un vuoto in testa, non riusciva a ricordare nulla. Forse perché queste faccende in casa non le raccontava, un po’ per la vergogna, un po’ perché sapeva in partenza che non gli sarebbe giunta alcuna dritta da suo padre. Luca si stropicciava le mani mentre con la coda degli occhi osservava il genitore nella speranza di ottenere una risposta che non fosse di circostanza; poi riprese a parlare: “Ma tu papà come eri quando avevi la mia età?” la domanda colse Claudio ancora una volta impreparato e a disagio, ma tentò lo stesso di abbozzare una risposta: “Ero simile a te.”
“Che vuol dire simile a me? Che mi assomigliavi?” i grandi occhi castani di Luca erano tutti puntati sul padre: “Bè, sì, in un certo senso, fisicamente sì, ma anche come carattere credo, sai anche io ero piuttosto chiuso, ero anche più introverso di te, facevo molta fatica a legare con gli altri.” Era tentennante e pensava di non essere stato affatto convincente, ma Luca parve soddisfatto, e aggiunse: “Non credo che riuscirò a dormire stanotte.”
“Si dice così, ma poi viene sonno, e domani devi alzarti presto.”
“E se ci riprovano a menarmi?”
“Ti difendi meglio che puoi e corri a dirlo alla maestra.”
“Ma tu ti sei mai trovato nella stessa situazione?” chiese, forse per riuscire a trovare un parallelo incoraggiante tra se stesso e il padre.
“Certo, capita a tutti prima o poi.”
“E come te l’eri cavata? Eri corso a dirlo a qualcuno?”
“Dormi ora, non pensarci più, hai un gran bisogno di riposare.” Luca scosse il capo per sistemarsi la frangetta sulla fronte, poi fece un imponente sbadiglio e si infilò sotto le coperte: aveva più sonno di quanto non volesse ammettere.
Claudio gli stampò un bacio sulla fronte, cosa che gli sembrava oramai strana, visto che il figlio non era più un lattante, ma le abitudini sono dure a morire, senza contare che in fondo però non pensava che dare il bacio della buona notte ad un figlio fosse poi così fuori dall’ordinario. Ritornò in soggiorno, Giulia si era addormentata sul divano ed era rannicchiata a ridosso del bracciolo, con la testa avvolta nelle braccia; lui le si sedette accanto avendo cura di non fare rumore, ma lei si svegliò lo stesso, gli sorrise e gli strinse una mano. Aveva il viso stravolto dal sonno e i segni del cuscino impressi sulla guancia: “Che ti ha detto?” chiese senza aspettare.
“Niente di particolare, lo hanno provocato, lui ha reagito solo che quelli erano in due e lo hanno malmenato, tutto qui.” Cercò di minimizzare.
“La fai facile, quando è tornato da scuola sembrava un morto vivente.”
“Sono cose che succedono, bisogna anche conviverci.” Provò a mostrarsi ragionevole, ma l’immagine del figlio sconfitto e pentito era dura da digerire, anche se sul momento non ci aveva fatto troppo caso. E invece ora provava un grande affetto per il figlio, e una sottile rabbia per non essere riuscito fino a quel momento a fare niente di incisivo.
“L’importante è che con te si sia aperto” disse Giulia
“Sono fatti che non danno piacere, e nemmeno me la sento di dirgli che passerà, perché è difficile dimenticarsi di queste cose, finisce che prima o poi ci pensi di nuovo, anche a distanza di anni.”
“E con questo che cosa vorresti dire?” non capiva, o forse non riuscivano ad intendersi, come spesso accadeva.
“Che se la memoria ha un senso è quello di evitarci di ripetere simili situazioni.” Aprì un cassetto della credenza ed estrasse un coltello, col quale si mise a giocherellare, poi andò alla finestra, scostò la tenda e diede un’occhiata alla strada. Giulia intanto si era spostata di nuovo in cucina, per finire di lavare i piatti e non lo guardava, poi d’un tratto gli fece: “Ci sono da scaldare le lasagne di ieri, se ti vanno bene le metto nel microonde e tra due minuti sono calde.” Claudio fece un cenno d’assenso senza staccare lo sguardo dalla strada, che brulicava ancora di gente nonostante l’ora: c’era una ragazza in minigonna, molto carina che attendeva qualcuno sul ciglio della strada, stette lì per cinque minuti buoni, poi questo qualcuno arrivò al volante di una grossa berlina scura, lei montò sopra, ma non sembrò granché lieta di farlo: aveva movimenti pesanti e svogliati, di una che è costretta a fare qualcosa che non le va. Claudio sentì Giulia che armeggiava con lo sportello del micoonde, si voltò, e la vide che vi infilava a fatica una grossa teglia di lasagne, per un attimo provò una grande tenerezza, quasi gratitudine per quella donna che si dava tanto da fare per lui, e che in cambio chiedeva poco, molto poco. Le si avvicinò, le diede un bacio sui capelli, lei sembrò sorpresa, era tanto tempo che non le dedicava un’attenzione: “Bè? Che ti prende? È successo qualcosa di speciale?” sorrise
“No, niente, sei molto carina stasera.” Disse
“Ma che dici? Se sono un disastro!”
“Ti dico di no.” Il forno emise un suono, segno che i tre minuti erano passati.
“Non mi prendi in giro?” sperava a tutti i costi di no.
“No, stavolta no.”
“Mangia tranquillo ora, guardiamo insieme la tele dopo?”
“Ho il sette e trenta da finire.” Disse mentre si stava sedendo con il piatto di lasagne in mano.
“Fa niente, ti tengo compagnia.”
“Mi fa piacere, ma ti annoierai.” Ingollò il primo boccone.
“No, stasera non mi annoierò.” Gli accarezzò il viso. Claudio pensava che tutto questo fosse un momento che si sarebbe ricordato, non sapeva nemmeno bene il perché, forse solo perché era riuscito a dire qualcosa sia a suo figlio che a sua moglie. Poi pensò alla presentazione, a Trivella, a Benti Frasati e a tutto quello che non poteva prevedere ed evitare. Ed ebbe paura per la sua famiglia.
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- conosco le sensazioni che descrivi in questo racconto. le ho provate. e superate. ma proporrò ai miei figli, già grandi, di leggere il tuo racconto, perchè sono scritte in modo così vero, che lo sento mio. grazie, ciao.
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